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Assaf Inbari - Verso casa - 23/05/2020 -

Verso casa
Assaf Inbari
La Giuntina

La riappropriazione della memoria è sempre un processo doloroso, ma necessario. Anni fa mi aveva appassionato il caso di Serge Schmemann, autorevole firma del New York Times e vincitore di un Pulitzer, che solo all'età di 45 anni si era visto riconoscere dai sovietici il permesso di tornare nei luoghi delle sue radici, nelle campagne russe. Ne trasse un bel saggio, dal titolo Echoes of a native land, in cui si risaliva la proverbiale corrente del fiume per quasi duecento anni, alla ricerca di risposte e conferme sulla propria identità ortodossa. Il libro di Schmemann mi è tornato più volte in mente, durante la lettura di Verso casa, scritto da Assaf Inbari nel 2009 ma ora giustamente proposto anche in Italia dalla Giuntina, in una peraltro pregevole traduzione di Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi. Anche Inbari, proprio come Schmemann, riavvolge il proprio nastro partendo dalla Russia, è lì che entrambi i libri iniziano, nonostante gli autori siano nati altrove, Inbari in Israele e Schmemann in Francia. Ma la sete di dar forma a un passato intermittente li spinge a un'inchiesta che non è genealogica ma geografica, prediligendo un'inedita narrazione di luoghi alla cronostoria di ascendenze familiari. Il fatto è che Assaf Inbari è nato e cresciuto in un kibbutz, per cui la sua indagine non può che avere un prologo nella diaspora, in un non-luogo, in una condizione di disperato bisogno di "tornare" là dove tutto iniziò, in Palestina. È un elemento fondamentale, per capire a fondo lo spirito di un libro premiato e celebrato come una rivelazione della recente letteratura israeliana: Inbari racconta tre generazioni nel kibbutz Afikim, ma la genesi di quella comunità a sua volta lo proietta in un altro spazio, in Russia, laddove prende forma il progetto di chi — come lui — vuole chiudere i cerchi nel passato, e lo fa trasferendosi fisicamente dall'Ucraina alla Valle del Giordano (perché «non ci sono ucraini ebrei, ci sono ebrei ucraini»). Un po' come in Storia di una vita di Aharon Appelfeld, in cui il kibbutz era sì il luogo della crescita e dell'identità ebraica, ma anche li dopo un prologo altrove, fra i terrori germanici degli anni Trenta. Narrare il kibbutz significa quindi, sempre, narrare l'antefatto della migrazione, il prezzo pagato per concedersela e il trauma di quel lungo sentirsi in terra straniera. Inbari tutto questo lo esprime con penna limpidissima: le riunioni del Movimento a Mosca, i treni siberiani, i cappotti con i documenti preziosissimi cuciti nella fodera, l'attesa a Costantinopoli perché i britannici vietano l'approdo in Palestina. E infine il sospirato arrivo in un caos tutto da organizzare fra dibattiti, conflitti, incognite, centrali elettriche da tirar su e quel vai e vieni fra Haifa e Tel Aviv, in un meticciato formidabile che ben si racchiude in quel Séder di Pesach improvvisato in refettorio con ognuno che intona la melodia nell'yiddish della zona da cui proviene, «e nessuno capisce una parola». Così prende forma la nuova tanto voluta casa (Home è il titolo originale del libro), con un corto circuito per cui si vive accampati provvisoriamente in tende e stalle, sotto un caldo bestiale, rimpiangendo talvolta la vecchia casa russa dove almeno non dovevi contenderti la terra con gli arabi. Ma il kibbutz è in primo luogo una dimensione di lavoro collettivo, di fatica condivisa, e l'identità del gruppo si irradia lentamente da quel dividersi i ruoli, da quel risolvere i problemi, da quello spezzarsi la schiena fra banane e agrumeti, facendo silenzio se Peretz Harari riesce prodigiosamente a fischiettare su due tonalità un concerto per archi di Bach. Tutto questo mentre gli anni passano, i neonati si fanno uomini, il pianeta supera una Guerra Mondiale, Afikim accoglie i sopravvissuti dei lager e — niente affatto secondario — la Palestina si sveglia trasformata in Stato d'Israele con tutto ciò che ne consegue (perfino sotto l'asilo c'è una cantina piena di fucili cecoslovacchi). Scorrono le pagine di un'epica quasi mitologica, e da lettore ti domandi quanto ancora l'esperimento socialista del kibbutz potrà resistere all'avanzata del benessere. Non fai a tempo a chiedertelo, che ecco comparire un immigrato con in spalla il primo televisore: i kibbutzim gli ordinano di sbarazzarsene per non infettare la comunità, ma intanto i fertilizzanti nei loro campi sono diventati chimici, e appositi macchinari li inondano di antiparassitari. Da lì alla privatizzazione il passo è breve, e inevitabile. Inbari ne stigmatizza la svolta in quelle tre sillabe della parola manager che incardina tutto il senso di un passaggio radicale. Nessuno conosce più nessuno, fra gli affittuari che entrano ed escono dai nuovissimi appartamenti di Afikim... era un luogo nato come un sogno, ora semplicemente, per tanti, è solo un domicilio.

Stefano Massini - La Repubblica
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