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Giovanni Quer
Medio Oriente politica e società
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IC7 - Il commento di Giovanni Quer: Elezioni e tensioni 03/10/2022
IC7 - Il commento di Giovanni Quer: Elezioni e tensioni
Dal 25 settembre al 2 ottobre 2022

Israele si prepara alle elezioni con i partiti e le coalizioni che vanno definendosi, mentre le tensioni in Cisgiordania confermano il consolidamento di Hamas. Le rivolte popolari in Iran non fermano la politica del regime devota alla causa della resistenza islamica, sostenendo Hamas nella regione e continuando a colpire i curdi in Iraq.

Tra un mese, Israele andrà di nuovo alle urne con una lotta elettorale che riflette il cambiamento della politica israeliana. Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Maariv il 29 settembre, il gruppo capeggiato da Benyamin Netanyahu avrebbe una risicata maggioranza di 62 seggi rispetto ai 58 del gruppo cappeggiato da Yair Lapid.

La strategia elettorale di Netanyahu è quella di rivolgersi alla destra e alla destra estrema, con un accordo che è riuscito a suggellare tra Betzalel Smutrich e Itamar Ben-Gvir, che tentano di barcamenarsi tra estremismo e politica mainstream. La loro lista, “Sionismo Religioso”, avrebbe 11 seggi. Netanyahu non ha voluto rinunciare nemmeno al più marginale “Noam", un gruppo dall’agenda politica prevalentemente anti-LGBT. Altra parte fondamentale di una possibile coalizione capeggiata da Netanyahu è quella dei partiti ultra-ortodossi che rimangono con 7 seggi per il partito "Ebraismo della Torah” e 9 per Shas.

120 Project: Israel Elections 2022 – Israel Policy Forum

L’ala “jabotinskiana" del Likud, che si è progressivamente allontanata da Netanyahu, non ha per ora intenzione di tornare ad accordi politici con un leader che sembra volere garantire il ritorno alla guida del Paese con i voti dell’estrema destra.

La lista elettorale “Yamina", capeggiata da Ayelet Shaked, non passerebbe nemmeno la soglia di sbarramento. Altro colpo al gruppo di Netanyahu è la squalificazione di Amichai Chikli che era stato eletto con Yamina, da cui è fuoriuscito senza mai abbandonare il proprio seggio parlamentare. Ora è candidato nella lista del Likud. Su richiesta del partito socialista Meretz, Chikli è stato squalificato dalle elezioni per inottemperanza al regolamento che prevede la dimissione di un parlamentare che abbandona un partito prima di passare ad altra lista elettorale. In un tentativo di salvare la propria immagine, Chikli gioca ora la carta dei brogli elettorali che secondo lui si verificheranno non dovesse esserci un chiaro vincitore alle prossime elezioni.

La sinistra è ancora più debole, con 4 seggi per il Labour e 4 per Meretz. Gli altri seggi che confluirebbero nella coalizione di Lapid, la cui lista avrebbe 23 seggi, sono quelli della lista di Benny Gantz (13 seggi) e il partito di Avigdor Lieberman (che ha un consolidato voto tra il pubblico russo, con 6 seggi).

Altro cambiamento si verifica anche tra il pubblico arabo. Il partito Balad è stato anche squalificato dalle elezioni su un richiesta presentata dal gruppo di Benny Gantz, accusato di non riconoscere l’esistenza di Israele come Stato ebraico e democratico. Dovesse la Corte Suprema permetterne la partecipazione alle elezioni, non passarebbe la soglia di sbarramento.

In un sondaggio pubblicato dalla TV araba “Makan”, solo il 39% degli aventi diritto tra i cittadini arabi si presenteranno alle urne. Tra questi il voto andrebbe ad Ayman Oudeh (con una coalizione socialista arabo-ebraica), alla lista del partito islamista Ra’am e al Likud. Lo scontento e la frustrazione del pubblico arabo si riflettono anche nella decisione di non votare, che in parte è anche dovuta alla presa di posizione anti-sionista di boicottare le elezioni.

Il mese prima delle elezioni è periodo delle festività ebraiche, che come ogni anno reca instabilità e tensioni soprattutto nella West Bank, con attacchi contro obiettivi israeliani e scontri tra miliziani, manifestanti palestinesi e forze di sicurezza. In un raid israeliano vicino a Belemme tre giorni fa è morto un bambino, Rayan Suleiman, a quanto pare per un eccesso di adrenalina indotto dalla paura per la presenza dei soldati israeliani.

La rabbia popolare è aggravata anche dalla risposta dell'Autorità Palestinese ai disordini, fomentati per lo più da Hamas. A Nablus, le forze di sicurezza di Ramallah hanno arrestato il 20 settembre Musab Shatyyeh e Amid Tbaileh, attivisti di Hamas ricercati da Israele, assieme a decine di altri miliziani arrestati a Jenin e in altre zone della Cisgiordania. Il giorno successivo le varie milizie e l'Autorità Palestinese sono entrate in un accordo di tregua, ma la popolazione vede Abu Mazen come un collaborazionista e ed più attenta alla propaganda di Hamas la cui presenza in Cisgiordania si consolida in ogni periodo di tensione.

A Gaza invece è relativa calma. Hamas è impegnata in una campagna regionale di rafforzamento delle alleanze. Con la negoziazione dell’Iran, Hamas ha ripreso ufficialmente i rapporti con il regime di Assad, interrotti dal 2011 quando l’organizzazione palestinese aveva difeso i ribelli. Così si è nuovamente instaurato l’asse pro-iraniano che circonda Israele: Hezbollah, regime di Assad, Hamas e Jihad Islamico Palestinese.

L’Iran non manca di impegnare le proprie risorse per rafforzare le alleanze regionali, mentre il Paese è in fiamme in un’ondata di rivolte di piazza scatenate dalla morte di Mahsa Amini dopo l’arresto da parte della polizia morale. Iniziate come proteste contro le violenze misogine delle forze di sicurezza, le proteste hanno catalizzato la generale rabbia popolare contro il regime. Da due settimane le coraggiose e i coraggiosi giovani manifestano per le strade di tutto il Paese urlando slogan come “zan, zendegi, âzâdi” (donne, vita e libertà) o “marg bar diktator” (morte al dittatore).

Nel caos delle proteste, l’Iran ha colpito i gruppi curdi nel nord dell’Iraq, accusati di fomentare le proteste (visto che Mahsa Amini era curda) con missili e droni, uccidendo solo la settimana scorsa 14 persone. A dire di Mohammed Bagheri, capo delle forze di sicurezza del regime, i “nemici dell’Iran” colpirebbero le flotte di droni della Repubblica Islamica, minacciando ritorsioni contro gli Stati Uniti dovessero i misteriosi attacchi continuare. Il Presidente Ebrahim Raisi accusa anche gli Stati Uniti di fomentare le proteste, mentre altre figure del regime puntano il dito contro gli artisti esiliati.

Le folle in furia che distruggono i simboli del regime e attacco le forze di polizia non fermano la propaganda del regime. La solidarietà con il popolo iraniano in rivolta, con gli esiliati che sperano di ritornare in un Paese libero e con i curdi vittime di nuovi attacchi non potrà forse esser l’ingrediente per la caduta del regime, ma è il minimo che il mondo libero possa fare per dare forza a chi ha il coraggio di rischiare la vita per la libertà.


Giovanni Quer, ricercatore al Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies all'Università di Tel Aviv

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