Al-Quds, al-Aqsa e sempre al-Quds, al-Aqsa
Analisi di Giovanni Quer
L’ultima escalation di tensione con Gaza è l’ennesimo messaggio da parte di Hamas che la “Resistenza Islamica” può far quel che vuole, quando vuole e come vuole. Mentre la deterrenza dell’ultima operazione militare si sta dissipando, l’entusiasmo delle celebrazioni talebane ha galvanizzato di nuovo gli animi jihadisti. Il 21 agosto Hamas ha organizzato una manifestazione alla barriera di confine tra Gaza e Israele in ricordo del tentato incendio alla Moschea di al-Aqsa appiccato dall’australiano Denis Michael Rohan nel 1969. Il giorno successivo, le manifestazioni per “al-Aqsa” si sono trasformate in scontri a fuoco - ieri è morto il soldato israeliano ferito da un cecchino palestinese. Israele ha ridotto il flusso verso Gaza; l’Egitto ha chiuso i confini. Hamas si era impegnato a confini tranquilli, mentre Israele si era rassicurata di un periodo di deterrenza dopo l’ultima operazione militare.
Ma a Gaza non sono arrivati i soldi del Qatar e la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate dalla guerra è per ora ritardata; i confini sono ancora chiusi, e la popolazione è insofferente. L’escalation può esser uno dei soliti messaggi di Hamas che riprende con il lancio dei missili, dei palloni incendiari e con le manifestazioni al confine quando i soldi non arrivano, ma questa volta il contesto è diverso, sia per la ricorrenza sia per l’eco afghano. La scelta di celebrare la data dell’incendio appiccato da un australiano cristiano ha un doppio significato. Per i palestinesi la chiamata alle armi per la liberazione di al-Aqsa è un tema religioso e nazionale attorno al quale si uniscono le fazioni più svariate - già nel 2017, le manifestazioni al confine nominate “La grande marcia” erano state organizzate con lo slogan di proteggere al-Aqsa. Per il mondo islamico in generale, la chiamata a proteggere al-Aqsa ha un profondo significato - dopo l’episodio del tentato incendio è stata fondata l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, proprio con l’obiettivo di creare una coalizione islamica mondiale per la protezione dei luoghi sacri islamici a partire da al-Aqsa. In secondo luogo, i disordini al confine sono ora fomentati dagli echi di trionfo che arrivano da Kabul. I leader di Hamas, che si sono sin dall’inizio complimentati con i talebani per aver “cacciato” gli americani, tracciano un parallelo con la tanto sperata cacciata dei sionisti. Un certo cambiamento si può notare anche nei toni delle proteste: l’altro ieri Ramze al-‘Okk, il cantante condannato per terrorismo e liberato con l’accordo Shalit, ha partecipato alle proteste brandendo una spada e inneggiando alla liberazione di al-Aqsa, alla guerra e all’eccidio dei nemici con lame affilate.
In Israele c’è chi ritiene un’operazione militare di terra strettamente necessaria per indebolire Hamas, con dei costi umani che non si possono nemmeno immaginare e che la società israeliana non è pronta a pagare. Altri sostengono che è il momento di arrivare a un accordo politico con Gaza, da considerarsi uno quasi-Stato jihadista. Quale accordo potrebbe esser però valido con Hamas, che per un’ideologia radicata in condizioni politico-teologiche ha come primario obiettivo la liberazione di al-Quds, cioè la fine di Israele? I talebani da Kabul hanno rinvigorito il respiro jihadista in tutto il mondo e la relazioni intrecciate negli ultimi anni dalla dirigenza talebana a Doha non hanno di certo escluso Hamas.

Giovanni Quer (1983), ricercatore presso il Centro Kantor per lo studio dell'Ebraismo Europeo Contemporaneo e dell'antisemitismo, Università di Tel Aviv.