A 20 anni dal ritiro dal Libano 3200 libanesi in Israele: intervista con Julie Abou Arraj
Analisi di Giovanni Quer
A destra: Julie Abou Arraj
I 18 anni di presenza militare israeliana in Libano hanno segnato le vite di libanesi e israeliani, alleati nel combattere un comune nemico, che prima era rappresentato dalle organizzazioni palestinesi e poi da Hezbollah. Israele è stata dapprima accolta sia dai cristiani sia dai musulmani sciiti come il salvatore che avrebbe impedito ai palestinesi di costituire uno Stato nel Sud del Libano. Alcuni errori strategici hanno presto inimicato la popolazione sciita, sulla quale già stava lavorando Teheran che ha costituito Hezbollah. Israele ha dapprima collaborato con diverse milizie locali, per poi decidere di costituire una forza militare sostenuta e formata dall’esercito israeliano: il South Lebanon Army, Tzadal (acronimo in ebraico di Tzva Drom Levanon). Le continue morti di soldati israeliani e libanesi per mano di Hezbollah, il basso morale dell’esercito e i movimenti sociali di protesta hanno portato nel 2000 Ehud Barak a decidere per un repentino ritiro, avvenuto nel giro di una notte e un giorno il 24 maggio 2000. All’inizio di maggio Nasrallah aveva dato due possibilità ai “collaborazionisti”: andarsene in Israele o morire da traditori. Assieme agli israeliani circa 8,000 libanesi, tra soldati di Tzadal e le loro famiglie hanno attraversato la “buona barriera” verso Israele, abbandonando casa e famiglia verso un futuro incerto. Circa 3,200 sono rimasti in Israele divenendo cittadini con l’obbligo del servizio militare. Tra loro anche Julie Abou Arraj, portavoce della comunità Tzadal in Israele. “Il 22 maggio 2000, mia mamma ci ha detto: ‘fate i bagagli, dobbiamo attraversare la barriera perché gli israeliani se ne vanno.’ Gli israeliani se ne stavano andando e Hezbollah stava già entrando nei villaggi con parate bandiere,” così hanno deciso di rifugiarsi in Israele. “Chi è rimasto ha subito le violenze di Hezbollah, e chi è ritornato è ancora visto come un traditore”.

Terroristi di Hezbollah
“Io mi sento 100% libanese e 100% israeliana, e le due identità sono come i miei due occhi,” dice Julie, che come molti giovani libanesi cresciuti in Israele vive le due identità in perfetta armonia. “Viviamo in Israele come pieni cittadini e come tutti gli altri combattiamo per i nostri diritti”.
A vent’anni dal ritiro dal Libano, i veterani dell’esercito israeliano chiedono il riconoscimento ufficiale delle operazioni militari come una guerra, mentre le famiglie di Tzadal chiedono il livellamento delle iniquità. “Quando siamo venuti in Israele, le famiglie degli ufficiali sono state trattate dal Ministero della Difesa, mentre quelle dei soldati semplici dal Ministero dell’Assorbimento” con sperequi sostanziali nei supporti finanziari che pesano sulla prima generazione di rifugiati. La guerra avrebbe già un nome, “Buon Vicinato” e i due gruppi, veterani israeliani e famiglie dei veterani libanesi, hanno incominciato a collaborare per il ricordo congiunto. I libanesi parlano arabo, ma l’identità libanese è un’alternativa a quella araba. “Noi non siamo arabi, siamo libanesi, siamo diversi per lingua, cultura e mentalità.”
Oltre allo stile di vita, “anche il dialetto che parliamo non è pienamente arabo ed ha molte parole dall’aramaico e dal francese.” La diversità linguistica è per Julie parte dell’apertura dei libanesi. “La generazione che è cresciuta in Israele mantiene l’arabo in casa, con i genitori, ma l’ebraico è la lingua principale che si mescola all’arabo. In Libano ho imparato il francese; abbiamo sempre parlato più lingue”. L’ebraico è diventata la lingua principale soprattutto perché le famiglie Tzadal vivono in un contesto prevalentemente ebraico “quando siamo arrivati potevamo scegliere dove vivere. La maggior parte delle famiglie ha scelto cittadine ebraiche".
Le comunità arabe li hanno accolti come traditori e pur essendo per la maggior parete cristiani non sono stati accettati nelle scuole private. D’altra parte sono spesso considerati “arabi” per la lingua che parlano. “Io non ho mai vissuto personalmente episodi di razzismo, ma a mia nipote a scuola hanno detto ‘sei araba’. Così sono andata a parlare ai suoi compagni di classe, faceva la quinta elementare, e ho spiegato chi siamo noi libanesi. Gli israeliani ci hanno accolti come fratelli”.
Oltre al non esser arabi, il forte legame con Israele creatosi durante la guerra in Libano è diventato parte dell’identità delle comunità Tzadal, che avanzano richieste al governo israeliano per esser ricordati non come “diversi” ma come parte della storia di Israele. “Noi vogliamo esser ricordati come parte della memoria storica di Israele. Abbiamo il nostro giorno del ricordo dei caduti” ma il desiderio è che siano ricordati assieme agli altri caduti di guerra israeliani. Nel 2017 è stata posata la prima pietra del memoriale ancora da costruire per i caduti di Tzadal a Metula, la cittadina al confine nord di Israele. La nuova generazione è pienamente integrata, con gli stessi problemi di chi vive in periferia, ma è sradicata, senza famiglia allargata. “La comunità di Tzadal è diventata una grande famiglia, perché qui siamo soli. Non abbiamo nonni, che magari possono aiutare, né abbiamo una famiglia allargata da invitare a eventi”. Prevalentemente i libanesi-israeliani si sposano fra di loro, anche se i più giovani si sposano con ebrei e con parte dei cristiani, quelli che si integrano e magari fanno l’esercito.

Giovanni Quer (1983), direttore del Centro Kantor per lo studio dell'Ebraismo Europeo Contemporaneo e dell'antisemitismo, Università di Tel Aviv.