Ecco come i quotidiani di oggi, 03/02/2009, parlano della possibile tregua fra Israele e Hamas e dell'inchiesta aperta dalla Corte dell'Aja sui presunti crimini di guerra commessi da Israele:
L'UNITA' : L'articolo di Umberto De Giovannangeli "Hamas: sì a un anno di tregua. Israele, è scontro Barak-Livni" prima si sofferma sulle divisioni interne del governo israeliano prossimo alle elezioni, poi ricorda i feriti palestinesi di ieri (naturalmente la memoria precisissima di Udg non ricorda i cinque feriti israeliani), mette in luce le richieste di Hamas per accettare la tregua, dando per scontato che non ci siano serie motivazioni per rifiutarle. Il pezzo fa credere al lettore che, se la tregua non ci sarà, l'unico responsabile sarà Israele con le sue pretese.
Ecco il pezzo:
Umberto De Giovannangeli : " Hamas: sì a un anno di tregua. Israele, è scontro Barak-Livni "
Hamas dice sì a una tregua di un anno ma chiede che nell’intesa ci sia la riapertura dei valichi di frontiera. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak: non ci sarà una nuova offensiva. Ed è subito polemica.
Una tregua lunga un anno. È la speranza. Un presente di bombe e razzi. È la certezza. Si fanno più concreti, sul tavolo della diplomazia, i segnali d'un consolidamento a lunga gittata della malcerta tregua fra Israele e Hamas seguita alla sanguinosa guerra delle settimane scorse nella Striscia di Gaza. Ma sul terreno continuano imperterrite le violazioni e gli incidenti, mentre a complicare il lavoro dei mediatori egiziani ci si mettono pure i contrasti interni alle parti. Evidenti e minacciosi sul fronte palestinese; avvelenati dalla campagna elettorale per il voto del 10 su quello israeliano, dove le parole del ministro della Difesa e leader laburista, Ehud Barak, contro «un’operazione “Piombo Fuso numero 2», alimentano non solo le polemiche della destra nazionalista (favorita alle elezioni), ma anche dell’alleata di governo Tzipi Lvini, candidata premier di Kadima che insiste: «Trattare con Hamas significa legittimarlo. Dobbiamo mantenere forte la pressione militare».
INTEGRALISTI POSSIBILISTI
La novità di ieri, sullo sfondo dell’ennesima tornata di colloqui al Cairo da parte di una delegazione di Hamas incaricata di delineare una risposta alle ultime proposte egiziane, è giunta da Gaza City. Dove Fawzi Barhum, un portavoce del movimento islamico radicale al potere nella Striscia, ha confermato il sì di Hamas a «un accordo di principio» per il prolungamento del cessate il fuoco di un anno (o anche di un anno e mezzo), a condizione di vedere riaperti tutti i valichi che collegano Gaza col mondo esterno.
Un progresso che non significa tuttavia intesa definitiva. In primo luogo perché non sono stati ancora chiariti i nuovi meccanismi di controllo delle frontiere che Israele pretende prima del pieno sblocco dei passaggi per evitare il temuto riarmo del nemico. E poi perché resta aperta la questione del rilascio del caporale Ghilad Shalit (prigioniero dal 2006) che il governo israeliano vorrebbe legare alla tregua e per i palestinesi va invece discussa nel quadro d'uno scambio di prigionieri separato. Nel frattempo, sebbene sporadicamente, le armi continuano a far sentire la loro voce. Con le milizie islamiche della Striscia di Gaza in azione con altri lanci di razzi verso Sderot e di proiettili di mortaio sui campi del Neghev; e l'aviazione israeliana chiamata poche ore più tardi alla rappresaglia attraverso il lancio d'un missile a Rafah su un'automobile di presunti militanti del cosiddetti Comitati di resistenza popolare: con un bilancio di un morto e quattro feriti. E questo senza contare lo scontro avvenuto anche in Cisgiordania - la parte di territorio palestinese rimasta sotto la guida del presidente moderato dell'Autorità nazionale (Anp), Mahmud Abbas (Abu Mazen) dove a Hebron un secondo palestinese è stato ucciso dopo una sparatoria con una pattuglia israeliana.Il circolo vizioso di attacchi e reazioni non è del resto il solo ostacolo alla normalizzazione. A pesare sono pure le divergenze e i sospetti reciproci riemersi con forza nelle ultime ore tra Hamas (a sua volta sfilacciata fra gli irriducibili esponenti in esilio e i più pragmatici notabili di Gaza City) e l'Anp di Abu Mazen, la cui riconciliazione è considerata viceversa parte integrante dei piani di pace e di assestamento delle frontiere concepiti al Cairo.
ABU MAZEN ACCUSA
Una riconciliazione che lo stesso Abu Mazen - fermatosi nella capitale egiziana subito prima dell'arrivo della delegazione di Hamas - ha mostrato peraltro di valutare ancora con scetticismo, accusando Hamas di minare l'unità nazionale fondata sull’Olp e di aver in sostanza provocato l’offensiva israeliana contro Gaza. E che i portavoce del numero uno in esilio di Hamas, Khaled Meshaal (in visita di sfida ai padrini iraniani), hanno ribattuto da Damasco di non aver «nessuna fretta» di firmare se Abu Mazen «pensa di poter tornare a Gaza sulle torrette dei tank israeliani». O insiste nel rivendicare «una supremazia esclusiva sull'Olp». A gettare altra benzina sul fuoco è Al Fatah, il partito del presidente dell’Anp, che non ha esitato a diffondere ieri una lunga lista di propri simpatizzanti uccisi o feriti negli ultimi giorni nella Striscia dai «terroristi» di Hamas.
LA REPUBBLICA : Alberto Stabile (" Rappresaglia israeliana su Gaza. Hamas: pronti alla tregua ") cita i feriti palestinesi di ieri, tralasciando di citare quelli israeliani e dà per certa la disponibilità di Hamas ad accettare la tregua. Israele sarà quindi l'unica responsabile se la tregua non ci sarà per via delle sue pretese (la liberazione di Gilad Shalit e il controllo dei valichi di frontiera che collegano Gaza all'Egitto) e perchè il governo israeliano, in questi giorni, è troppo impegnato a litigare sulle elezioni per occuparsi del problema.
Il titolo dell'articolo è ancora più fuorviante, dipinge chiaramente Israele come l'aggressore e Hamas come la parte più ragionevole e disposta al compromesso. Anche se i razzi continuano ad essere sparati contro i civili israeliani, Gilad Shalit rimane sequestrato, e la richiesta di riapertura dei valichi è di fatto la rivendicazione da parte del gruppo islamista della libertà di riarmarsi.
Ecco il pezzo:
Alberto Stabile : " Rappresaglia israeliana su Gaza. Hamas: pronti alla tregua "
Gerusalemme - Non una guerra d´attrito, come vorrebbero le formazioni minori della guerriglia palestinese, ma neanche quella «risposta sproporzionata» minacciata dal premier Olmert. Ad una settimana dal voto, a meno di sgradite sorprese in arrivo da Gaza, il governo israeliano non sembra intenzionato a lanciare una nuova offensiva contro Hamas e i suoi satelliti. «Non è nostra intenzione avere un´operazione Piombo Fuso-2», ha tagliato corto il ministro della Difesa, Ehud Barak. Senza tuttavia con questo rinunciare alla rappresaglia.
E´ ciò che è successo anche ieri mattina. Dopo che due bombe di mortaio sono state sparate contro il Negev, un velivolo dell´aviazione israeliana ha dato la caccia ai miliziani che avevano fatto fuoco. Un missile ha centrato la macchina sulla quale in quattro cercavano di fuggire. Risultato: un morto e tre feriti gravi. Pare che appartenessero al braccio armato dei Comitati di Resistenza Popolare.
Sono queste le convulsioni finali prima che la tregua mediata dall´Egitto scenda al confine tra Gaza e Israele, o si tratta degli ultimi chiodi piantati sulla bara destinata a raccogliere i resti del nobile tentativo diplomatico egiziano? Nelle posizioni espresse pubblicamente dalle parti affiora una certa disponibilità ad accantonare le armi ma non s´intravede ancora la svolta che può far dire: «E´ fatta, la tregua ci sarà». Ieri, ad esempio, un portavoce di Hamas, Fawzi Barhum, ha ribadito che il movimento islamico è pronto a cessare tutte le ostilità per un anno, un anno e mezzo, se Israele accetterà di aprire i valichi di frontiera che collegano Gaza al mondo esterno. Ma in questa posizione non c´è nulla di nuovo. E comunque, non è quello che vuole Israele. Per il governo israeliano, invece, i valichi dovranno restare chiusi finchè Hamas non s´impegna a liberare il soldato Gilad Shalit, da oltre 31 mesi ostaggio del Movimento Islamico.
E qui c´è il rischio di tornare tutti alla casella zero, perché, per Hamas, Shalit è una questione a parte che non a niente a che vedere con la tregua e l´apertura dei valichi ma con la presenza nelle carceri israeliani di oltre diecimila detenuti politici palestinesi. Da qui la richiesta di uno scambio di prigionieri: uno contro 1000, compresi circa 450 reclusi condannati per sanguinosi atti terroristici.
Nonostante le distanze tra le parti, è tuttavia circolata voce che il Movimento islamico sarebbe disposto anche ad accettare una presenza ai valichi degli uomini fedeli al presidente palestinese Mahmud Abbas come suggerito da non pochi rappresentanti della comunità internazionale. Se fosse vero, sarebbe un importante passo avanti, non soltanto per creare le condizioni per la tregua, ma anche nel processo di riconciliazione tra al Fatah e Hamas, dopo la guerra civile che, nel giugno 2007, ha consegnato la Striscia di Gaza al movimento islamico e relegato l´autorità di Abu Mazen alla sola Cisgiordania. Ma proprio Abu Mazen, ieri, ha alzato la posta chiedendo ad Hamas di accettare l´autorità dell´Olp, come unica e legittima rappresentate del popolo palestinese. Sprezzante, Hamas ha risposto che Abu Mazen vorrebbe tornare a Gaza su un carro armato israeliano.
La verità, però è un´altra, e cioè che nessuno dei maggiori contendenti alle elezioni israeliane sembra particolarmente sensibile alla sorte del presidente palestinese. Ieri, ad esempio Hamas ha annunciato, trionfalmente, di aver pagato gli stipendi ai dipendenti pubblici di Gaza sotto la sua tutela. Israele, di contro, continua a bloccare i soldi che Abu Mazen manda ogni mese da Ramallah ai dipendenti dell´Autorità palestinese di Gaza che gli sono rimasti fedeli. In questa gara elettorale a flettere i muscoli, non passa giorno che tra il ministro della Difesa Barak e la ministra degli Esteri Tzipi Livni non vi sia uno scambio di stoccate. Livni ha accusato Barak di voler legittimare Hamas come partner di un accordo e di volersi tirare indietro rispetto alla strategia d´attacco scelta dal governo. Barak ha risposto ieri accusando la Livni e Netanyahu di aver lasciato per anni, e nonostante rivestissero importanti incarichi di governo, che Hamas crescesse e si rafforzasse. Finchè non è arrivato lui a mettere le cose a posto. Poi, proiettandosi in un futuro che oggi appare assai lontano, ha proposto di costruire un tunnel di 48 chilometri che possa collegare Gaza alla Cisgiordania occupata, in modo da garantire ai palestinesi libertà di circolazione tra i due tronconi di Palestina. Un tunnel, ovviamente, sotto responsabilità israeliana.
CORRIERE della SERA : Francesco Battistini scrive un articolo ( " Crimini di guerra a Gaza - L'Aja apre un dossier su Israele ") sull'inchiesta che la Corte dell'Aja ha aperto sui presunti crimini di guerra commessi da Israele nel quale fa notare che Israele, dal momento che non ha mai ratificato lo Statuto di Roma (che aveva istituito la Corte dell'Aja), non ne riconosce l'autorità e che chi ha "intentato la causa" sia Hamas, organismo non riconosciuto a livello internazionale. Forse è per questo che a nessuno è venuto in mente di indagare anche sui crimini commessi da Hamas, come per esempio quello di lanciare razzi contro i civili.
Sempre sul CORRIERE della SERA l'intervista a Eyal Benvenisti ( professore di diritto internazionale presso l'università di Tel Aviv ) di Lorenzo Cremonesi ricorda che il tribunale dell'Aja non ha giurisdizione su Israele e che Israele stessa ha già avviato una inchiesta su eventuali crimini di guerra commessi dall'esercito.
Per misurare la differenza tra gli standard di comportamento e tra i codici morali di Israele e di Hamas, i nostri lettori possono vedere il filmato sulla home page di Informazione Corretta di oggi, 03/02/2009
http://www.informazionecorretta.com/
Ecco i due articoli:
Francesco Battistini : "Crimini di guerra a Gaza: L'Aja apre un dossier su Israele "
GERUSALEMME — Si può fare. I palestinesi ci speravano. Il governo israeliano lo temeva. Adesso la Corte dell'Aja lo dice: sì, stiamo esaminando le denunce per i presunti crimini di guerra commessi a Gaza. L'uomo che indagò sui desaparecidos, l'avvocato argentino Luis Moreno- Ocampo, l'unico procuratore generale che abbia mai chiesto l'arresto per genocidio d'un presidente in carica (il sudanese Omar Al Bashir), l'altro giorno stava a Davos. Un giornalista inglese gli ha chiesto lumi. E lui, uomo di riflettori non meno della cacciatrice di boia balcanici Carla Del Ponte o di Baltazar Garzon, il giudice spagnolo che perseguì Pinochet, non s'è tirato indietro. Non abbiamo giurisdizione su Israele o su Gaza, dice, ed esaminare il caso non significa che le accuse siano fondate. Ma il dossier è lì: «È un caso molto complicato», le obiezioni citano solo la giurisprudenza, mentre «io faccio un'analisi diversa: potrà richiedere molto tempo, ma voglio arrivare a una decisione secondo legge».
Il caso è complicato, anche perché i dossier s'aprono inarrestabili come finestre di Windows. Ci sono le denunce che otto ong israeliane, B'Tselem in testa, hanno presentato alla giustizia israeliana. Poi le indagini che l'Onu ha commissionato al suo ufficio di Ramallah, cinque edifici Onu colpiti, materiale da girare al finlandese Martti Ahtisaari (se sarà lui l'investigatore). All'Aja, invece, pendono le istruttorie d'organizzazioni palestinesi, di Amnesty international e dei governi della Lega araba. Non ci sono nuovi episodi incriminati, che si sappia: l'uso di fosforo bianco, che l'esercito di Tsahal prima ha negato e poi riconosciuto, a carico d'un gruppo di soldati (c'è un'indagine militare in corso) e poi in casi ammessi dalla Convenzione di Ginevra; i bombardamenti di moschee, ospedali, scuole a Beit Lahiya e Jabaliya, decine di morti, che secondo Israele erano scudi per proteggere Hamas; diverse denunce di fuoco aperto «senza ragione» su civili inermi...
Il caso è complicato, anche perché la Corte non ha giurisdizione: Israele non ha mai ratificato lo Statuto di Roma che istituì il tribunale, non ne riconosce la legittimità. Nei loro ricorsi, però, gli avvocati fanno notare che a contare è il luogo in cui i crimini sarebbero stati commessi, ovvero la Striscia da cui Israele si ritirò nel 2006, e quindi importa chi oggi comanda lì: in teoria l'Autorità palestinese, governo senza Stato, che sarebbe titolare di un'azione legale; in realtà Hamas, che non ha però riconoscimento internazionale. Per Moreno-Ocampo, anche il Darfur e la Costa d'Avorio erano in simili situazioni di vuoto, eppure una soluzione si trovò. L'ideale sarebbe un ok da Gerusalemme — «indagate pure sui nostri» — al momento impensabile: Israele nega qualsiasi responsabilità penale, ha consigliato ai suoi ufficiali di non viaggiare all'estero e di non dare generalità alla stampa. Qualche giorno fa, il premier Ehud Olmert ha promesso che «i militari spediti a Gaza saranno al riparo da ogni tribunale, lo Stato li proteggerà come loro ci hanno protetto coi loro corpi». Un
habeas corpus, la paga del soldato.
Lorenzo Cremonesi : " C'è poco da condannare, pensiamo alla Nato in Kosovo nel '99 "
«No. La Corte Penale Internazionale dell'Aja non ha giurisdizione su Israele. E comunque avrebbe ben poco da condannare: l'operato dei soldati israeliani a Gaza appare meno grave di quello dei militari Nato in Kosovo nel 1999».
Lascia poco spazio ai giudici internazionali Eyal Benvenisti. Professore di diritto internazionale all'università di Tel Aviv, autore di pubblicazioni sullo status giuridico di Cisgiordania e Gaza, ha firmato un articolo sul quotidiano Haaretz il 28 gennaio in cui sosteneva la necessità di un'inchiesta interna israeliana.
Professore, dunque i giudici dell'Aja non potranno intervenire?
«No, per vari motivi. Israele non è parte degli Stati firmatari del trattato che ha creato quel tribunale. E le zone palestinesi non sono ancora uno Stato, i loro rappresentanti non possono presentarsi come parte lesa. Ma soprattutto le autorità giuridiche israeliane hanno già avviato una loro inchiesta interna».
Va dunque atteso l'esito dell'inchiesta israeliana?
«Assolutamente sì. Il nostro sistema giuridico ha tutti gli strumenti per investigare l'operato del nostro esercito».
Potrebbe avvenire come l'inchiesta israeliana dopo i massacri di Sabra e Chatila in Libano nel 1982, quando l'allora ministro della Difesa Sharon fu costretto alle dimissioni?
«Non credo. Penso che manchino i termini per incriminazioni serie. Mi sembra che i nostri comandi abbiano fatto del loro meglio per avvisare i civili palestinesi prima dell'attacco.
Nel 1999 la Nato in Kosovo si preoccupò molto di più della vita dei suoi soldati a scapito dei civili locali».
Esclude l'accusa di crimine di guerra?
«E' presto per tirare conclusioni. Lasciamo che i giudici israeliani finiscano il loro lavoro».
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