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Storia
1938: le mine su cui ha finito per saltare l’Europa, di Luciano Tas - seconda puntata

Per il Duce tra le opere più importanti del regime, che compie sedici anni, vanno annoverati il "passo romano" e il "voi" che obbligatoriamente sostituisce il "lei": così s'incomincia a "indurire" gli italiani
Nella prefazione agli "Atti del Gran Consiglio" fascista, redatto in occasione dei primi quindici anni della sua ascesa al potere, Mussolini scrive che fra le opere del regime "l'innovazione del passo romano è di una importanza eccezionale", almeno pari alla "aboli­zione del servile e straniero". Trattasi, scrive, di realizzazioni "del massimo rilievo". Non aggiunge, forse per eccesso di timidezza, tali da passare alla Storia, naturalmente con la "S" maiuscola.
Il passo romano non ha dunque nulla a che vedere con il passo dell'oca nazista. Ma della Germania non si cessa di pubblicare le lodi, anche se Mussolini, per impressionare davvero Hitler durante la sua permanenza italiana, non si limita a fargli vedere opere di cartone e mediocri scenari teatrali. Lo porta invece a Napoli dove si svolge una straordinaria esibizione della flotta, l'unica arma dav­vero efficiente del nostro paese, con navi moderne, bene attrezzate, con comandanti ed equipaggi preparati e di serietà indiscussa, an­che perché la Marina militare italiana è rimasta un po' defilata dal fascismo, o addirittura ne è fuori.
Non manca il "ritorno" pubblicitario, nei modesti antenati degli "spot". Un grande negozio di apparecchi radio compra uno spazio sui quotidiani dove, sotto una incerta foto, appare la scritta: "Per il di­scorso di Hitler, avete tutti la radio? Se non l'avete telefonate a...".
La pubblicità in questo 1938 è quasi agli albori, si capisce. E' di­messa, quasi patetica al ripercorrerla. Indicibili versi (quasi "ver­setti satanici") raccomandano un dentifricio o la doppia polverina per ottenere acqua minerale da quella del rubinetto, già di per sé non ancora inquinata e priva del gusto di disinfettante. Nelle case si chiama, chissà perché, "acqua di Vichy", prima che anche questa pa­rola diventasse proibita.

E c'è naturalmente la pubblicità della Fiat  che lancia ora la sua millecento a sei posti (comodissimi, dice l'annuncio). Il prezzo: 25.500 lire (con le "mille lire al mese" auspicate da un giovanotto nella famosa canzone sarebbero occorsi più di due anni per pagar­sela), incluse, vedi un po', "cinque ruote gommate".
I libri di cucina, spesso comprensivi di consigli d'arredamento e di galateo, suggeriscono sistemi di risparmio, per esempio con la "marmitta norvegese", una sorta di grande termos fatto in casa con cartonaggi e stracci di lana per continuare la cottura in pentole sot­tratte al soverchio consumo di gas o di carbone, o ricette autarchi­che.
Tra i prodotti autarchici c'è ora anche un tessuto di lana tratta dal latte. E' un brevetto della Snia Viscosa e si chiama Lanital. Chi fa battute sui pericoli della pioggia per questo tipo di stoffa se ne va dritto al confino. I giornali scrivono che si tratta di una clamorosa invenzione, tanto che il brevetto è comprato all'estero. Il bidone è tirato però solo al Giappone e al suo vassallo Manciukuo.
Dopo Napoli è la volta di Firenze ad essere visitata dal Fuehrer, che si commuove di fronte alle figure di certi quadri che gli ricor­dano amici e conoscenti. E' un sentimentale e gli italiani tutti (magari non proprio tutti) ne sono invaghiti, ma anche i tedeschi scoprono l'immenso amore per l'Italia fascista.
Al suo ritorno a Berlino, Hitler incontra un bagno di folla. La città "esultante acclama il Fuehrer - scrive il corrispondente in Germania di un nostro giornale - accomunando l'Italia e il Duce nel ricono­scente giubilo nazionale". Giubilo va bene, ma "riconoscente", chi e perché?
Nel giubilo e nella riconoscenza non rientrano i 3O27 soldati ita­liani morti e feriti nella battaglia dell'Ebro in Spagna. I giornali pubblicano il quattordicesimo elenco dei morti in quella guerra. E' una guerra che oltre alle perdite in vite umane dissangua l'era­rio, già dissanguato nell'avventura etiopica.

Il 19 maggio 1938 si ha "la discussione sui bilanci alla Camera" che non si chiama più "dei deputati", bensì "dei Fasci e delle Corporazioni". E' una Camera più folkloristica che effettiva. Si riuni­sce una volta l'anno per approvare e applaudire, poi di nuovo tutti a casa.
"Saldezza finanziaria e disciplina di lavoro in un poderoso discorso del ministro Di Revel", si legge sulle gazzette. Chissà perché "pode­roso". "Un avanzo di 37 milioni previsto per il prossimo esercizio", si legge ancora. Ma quanto siano autentiche le cifre date dal ministro Thaon di Revel, quanto sincero sia quell'"avanzo", è assai dubbio per un paese come l'Italia che per alleviare le difficoltà del meridione e del nord-est - zone tra le più depresse - non aveva trovato di me­glio che cercare di spedire il maggior numero di persone possibile in Libia, in Etiopia e, i più giovani, "volontari" in Spagna.
In Libia i nostri contadini stanno facendo un buon lavoro. Davvero traggono pane dalla sabbia, mentre i nostri edili tracciano strade, costruiscono infrastrutture in quel paese ricco di un petrolio che il regime continua a ignorare e forse a disprezzare.
Oltre al brevetto del Lanital l'Italia ha altri e più concreti rapporti commerciali con il Giappone e con lo Stato-fantoccio del Manciukuo.

Anzi, è il momento non solo della Germania, ma del Giappone. Sempre a maggio del '38 i giapponesi travolgono e distruggono una sbandata armata cinese a Suchow. Alla vittoria fanno seguito altre efferatezze dei vincitori. Sono stragi a largo raggio, indiscrimi­nate. A centinaia, a migliaia, vengono catturate le giovani cinesi e destinate ai bordelli per i militari del Sol Levante. Anche per questo ci vorranno sessant'anni giusti prima che Tokio (ma non l'imperatore) chieda perdono.
Per i nostri giornali le grandi vittorie giapponesi sono spiegabili solo "perché esistono delle forze morali che centuplicano le forze materiali". Si tratta delle "forze della storia, le forze che innovano il mondo. Opporsi ad esse equivale ad opporsi alla vita che non può morire".

Inghiottita l'Austria con l'Anschluss, la Germania guarda con insaziata cupidigia alla Cecoslovacchia

Con la "storica" visita di Hitler in Italia a maggio,  dopo l'annes­sione dell'Austria a marzo dello stesso 1938, sembra che tutte le nubi sul cielo d'Europa siano dissipate. Ma è solo per un momento. E' ora il cielo di Praga che va oscurandosi. E sono nubi ancora più nere.
Non è che passino molti giorni.
Il 22 maggio la stampa parla di "situazione critica in Cecoslovacchia", visto che "si moltiplicano i conflitti fra ceki e tede­schi nei Sudeti".
Com'è questa situazione nella regione cecoslovacca dei Sudeti?
L'origine della crisi va ricercata nelle decisioni prese alla fine della prima guerra mondiale dai vincitori che "inventavano" nazioni nuove, come la Jugoslavia e, appunto, la Cecoslovacchia, messa in­sieme con una regione slava, la Slovacchia, e due regioni occidentali, vero cuore della mitica "Mitteleuropa", la Boemia e la Moravia, con quel gioiello centrale che era ed è Praga, cuore del cuore ma d'in­certa identità, un po' come il suo figlio maggiore, Franz Kafka, cèco per i tedeschi, tedesco per i cèchi ed ebreo per tutti e due, mentre lui stesso si considerava praghese.
La zona montuosa dei Sudeti era indubbiamente abitata da tede­schi. Una miope politica nazionalista e accentratrice del governo ce­coslovacco mirava a costruire una identità nuova e comune a tutti i suoi nuovissimi cittadini, cancellando ogni identità periferica, come quella appunto dei tedeschi dei Sudeti che dopo l'avvento di Hitler al potere si misero a guardare sempre di più alla Germania.
A Hitler non resta dunque che cavalcare questa disposizione natu­rale dei tedeschi dei Sudeti per realizzare i suoi piani espansivi. Piani espansivi espliciti e giustificati con la necessità di uno "spazio vitale": in realtà l'obiettivo è la conquista dell'Europa per l'afferma­zione della "razza superiore", naturalmente tedesca.
Non sono affermazioni a posteriori, basta rileggersi il "Mein Kampf" hitleriano scritto già negli anni Venti.
Questa catena dei Sudeti, che si estende a sud della Polonia, è proclamata dalla Germania fin dal 1937 "territorio occupato". Ora Berlino infiltra in quel territorio agitatori e spie che incitano quelle popolazioni, peraltro pacifiche e di tutt'altro ansiose che di guai, a rivoltarsi contro il governo cèco, l'"occupante", per fornire eventualmente, con la produzione artificiale di eroi e martiri, buoni pretesti per un intervento militare, come quello di marzo in Austria, per esempio. E se possibile altrettanto privo di rischi.
La tattica nazista ha qualche successo. Quasi ogni giorno si regi­strano scontri tra la polizia cèca e gli abitanti dei Sudeti. Ci sono feriti e ci scappa anche il morto. O due, come il 22 maggio a Eger.
La stampa italiana, ricevuti precisi ordini in tal senso dal Minculpop, si compiace di registrare puntigliosamente questi inci­denti infiocchettando le veline ricevute. Ovviamente "tifa" per i te­deschi e sembra non preoccuparsi troppo per le possibili conse­guenze. Tanto ci penserà Hitler. E poi c'è Mussolini.
Tutti o quasi tutti tranquilli dunque.
E di nuovo riprende la vita di tutti i giorni, incanalata entro le sue solide e apparentemente tranquille, invalicabili sponde.
La cinematografia italiana conosce un momento felice, quantita­tivo, certo, ma in qualche caso anche qualitativo. C'è un augusto protettore di Cinecittà, ed anche dei tiepidi giovani frondisti italiani, un piede nel GUF (i Gruppi Universitari Fascisti) e l'altro in una op­posizione un po' di Sua Maestà, visto che il protettore è Vittorio Mussolini, sì, proprio lui, il figlio del Duce.
A Cinecittà si sta girando "Nonna Felicita", dall'omonima commedia di grande successo, e sono gli stessi attori teatrali - Dina Galli e Armando Falconi - che affrontano la pellicola. Ma poi sono i giovani che entrano nel mondo della celluloide e diventano veri e propri divi, visto anche che la produzione straniera, salvo quella tedesca, è soggetta a molte limitazioni. Nuovi protagonisti sono Alida Valli e Amedeo Nazzari, Eva Irasema Dilian e Doris Duranti, Adriano Rimoldi e Rossano Brazzi, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. E natural­mente Gino Cervi e Vittorio De Sica e Clara Calamai, il cui seno nudo lampeggerà per una frazione di secondo ne "La cena delle beffe", mentre si affaccia alla regia Luchino Visconti.
Si è appena finito di girare "L'amor mio non muore", insieme ad una quantità di film sbrigativamente detti "telefoni bianchi" per la loro ambizione di rappresentare un presunto mondo dei ricchi, commediole spesso insulse, quasi sempre inattendibili, che trovano la loro ambientazione in una improbabilissima Ungheria.
Film quasi sempre poco compatibili con le aspirazioni imperiali di Mussolini padre. Vero è che c'è bisogno anche di queste occasioni di distrazione per un paese che non è molto attratto dalle produzioni di propaganda come quelle di Gioacchino Forzano (dietro il quale si nasconde talvolta la penna non felicissima del Duce).
L'"uomo della strada", alle prese con i problemi di tutti i giorni e per il quale l'aspirazione massima non è lo spazio vitale, il posto al sole o il destino imperiale, ma semplicemente un impiego  da "mille lire a mese", una "casettina", una "mogliettina" e "io non ho pretese", come dice una fortunata canzone. E il suo sogno men che erotico è la ragazza "acqua e sapone", senza grilli per il capo, del cinema dei  “telefoni bianchi”.

La crisi cèca ricorda la storia del lupo e dell'agnello (la Germania non è l'agnello) ma da noi si scrive che "la colpa è solo del Fronte Popolare francese"

La situazione in Cecoslovacchia si aggrava. Praga richiama due di­visioni.
Un corsivo di prima pagina di un nostro quotidiano titola: "Adagio!". E si legge: "Se la situazione in Cecoslovacchia non migliora, anzi tende a peggiorare, la colpa è tutta ed esclusivamente di quella parte della stampa francese che fa capo al Fronte Popolare".
La tremenda colpa di quella stampa - i giornalisti dei paesi demo­cratici si sa hanno sempre torto - è di "essere insorta in modo ad­dirittura scandaloso contro la Germania".
Insomma, la Germania minaccia d'invadere la Cecoslovacchia per "liberare" i fratelli tedeschi dei Sudeti oppressi e la colpa è della stampa francese "che fa capo al Fronte Popolare", cioè di sinistra. Davvero curioso. Soprattutto perché aggiunge che se la situazione non è precipitata "il merito è esclusivamente della Germania" che perciò, come si dice, se le canta e se le suona.
Merito doppio poiché, si legge ancora in quel corsivo, "le mino­ranze tedesche da venti anni subiscono ogni sorta di prepotenze e di umiliazioni".
Ora per davvero c'è un fantasma che percorre l'Europa ed è quello di una Germania le cui intenzioni vanno chiarendosi anche a quanti - Francia in primo luogo - mettono la testa sotto la sabbia per non vedere.
Sono in molti adesso a ritenere che dopo l'Austria, la cui invasione era stata preceduta da una serie di violazioni tedesche del trattato di pace seguito alla prima guerra mondiale (riarmo, occupazione della Saar, militarizzazione della Renania), potrebbe essere la volta della Cecoslovacchia. Il disagio è avvertito soprattutto dalla Polonia, ma la sua reazione è singolare: anziché fare quadrato con la vicina Cecoslovacchia, che in questo senso effettua qualche sondaggio discreto, assume una posizione opposta. Infatti, scrive sempre il corsivista del nostro quotidiano, "è bastata una secca messa a punto della Polonia per calmare gli improvvisi bollori".
Quando arriverà il momento, al banchetto cèco parteciperanno an­che Polonia e Ungheria.
Quanto a noi, ostentiamo calma e fiducia. Ma intanto a giugno viene annunciato che i prezzi resteranno bloccati per due anni, fino al giugno 1940. I prezzi, che riguardano affitti, acqua, gas, elettri­cità, trasporti in primo luogo, non terranno però conto degli an­nunci.
A dare un'occhiata come vanno le cose in Italia calano a Roma i dirigenti dell'Ufficio politico tedesco della razza. Vengono ricevuti dal Segretario del partito nazionale fascista. Impara l'arte.
E' un'arte che per qualche settimana viene messa da parte.
La squadra di calcio nazionale infatti, che aveva vinto il prece­dente campionato del mondo, si laurea di nuovo campione nel 1938, dopo avere battuto la carneade Norvegia per due a uno (ai tempi supplementari) e poi la Francia (3-1), il Brasile (2-1) e infine per quattro a due la grande Ungheria, che non è solo la scenografia per i nostri film dei telefoni bianchi.
E' dunque festa grande che fa passare sotto silenzio il ferimento di altri due "sudetici" da parte di un militare cèco.
Più rumore produce la notizia che forse Greta Garbo ("Dammi una sigaretta") verrà a girare un film in Italia. Per la storia: non se ne farà più niente.
Che la Cecoslovacchia emani già un odore di cadavere è dimo­strato dal fatto che ora le rivendicazioni non partono più soltanto dalla Germania. Anche la Polonia e l'Ungheria vanno facendo la voce grossa come il maestro tedesco. Anche loro scoprono zone po­lacche e ungheresi occupate dai cèchi che maltrattano i poveri loro cittadini polacchi e ungheresi. Di colpo anche per Varsavia e Budapest la situazione, di cui pare che si siano accorti di colpo, di­venta intollerabile.
Ma Polonia e Ungheria aspetteranno che il cadavere sia proprio freddo prima di agire.
E noi? Noi amiamo tanto la Germania, almeno secondo le veline ministeriali sviluppate diligentemente da direttori e giornalisti, da fare scrivere - è l'11 giugno 1938 - che era Germanico "il più amato fra i condottieri italiani". Averlo saputo, c'era da anticipare uno spot sulle cucine.
Ma se era Germanico il condottiero più amato dagli italiani, ora questo primato non è dubbio. E' lui, è Mussolini, è il Duce l'uomo più amato dagli italiani.
Non lo dice soltanto Margherita Sarfatti nel suo "Dux", giunto or­mai alla ventesima edizione, ma ecco uscire nel '38 un "Realtà e mito di Mussolini" che fa capire come già da vivo il Duce sia assurto all'Olimpo. Non manca che chiederne la beatificazione. Non è peraltro che si legga molto da noi, in questo 1938. Più o meno quanto si leggerà settanta anni dopo.
Si leggono, a parte l'immortale Liala e i suoi molti imitatori, Salvator Gotta, Willy Diaz. A parte naturalmente i sempre odiati classici. 
 Questo per gli italiani. Degli stranieri vanno molto gli ungheresi, come Kormendi e Zilai (prima che vengano discretamente tolti dalla circolazione appena si saprà che sono ebrei). Anche "I ragazzi della via Paal", un apologo della condizione ebraica che sfuggirà alla cen­sura fascista, è molto amato e non solo dai ragazzi.
E poi ci sono gli americani, i romanzi-fiume della Mondadori. E Somerset Maugham e quello che riesce sempre a far ridere, Wodehouse, con i suoi Jeeves e Berto.
Anche lo sport è molto seguito. Qualche volta diventa fatto politico. Come quando allo Yankee Stadium di New York gli occhi di Hitler sono puntati al match per il campionato del mondo dei pesi massimi, il tedesco Schmeling contro l'americano Joe Louis, il "bombardiere nero".
Già, perché Louis è nero e nell'incontro non è in palio solo la co­rona mondiale, ma per Hitler la supremazia razziale. Per lui la razza superiore è quella ariana, quella nera è "inferiore".

Schmeling deve vincere.

Ma le cose non vanno proprio come aveva sperato Hitler, che ap­pena due anni prima aveva avuto in proposito un'altra delusione in merito, quando alle Olimpiadi in Germania proprio un atleta nero, Jesse Owens, aveva fatto incetta di medaglie d'oro e lui, il Fuehrer, era uscito dallo stadio per non dovere stringergli la mano.
Il 19 giugno a New York Schmeling vola al tappeto diverse volte già alla prima ripresa. Poi l'arbitro decreterà il K.O., il fuori combat­timento tecnico.
Per questa volta l'"ariano" ha perduto. Schmeling si rifarà più tardi, ma come paracadutista in guerra.


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