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Storia
Intervista a Michal Gans e Elise Haddad

Intervista a Michal Gans e Elise Haddad
di Lanfranco di Genio

 Michal Gans e Elise Haddad lavorano presso il Kibbutz beit Lohamei Haghetaot, dove è stato creato, nel 1949, dai superstiti dei combattenti dei ghetti, il Museo dei combattenti dei ghetti.

La Shoah ha una forte influenza nella società israeliana?

Sicuramente. Pur non essendo un elemento fondante, ma con alti e bassi, sin dalla nascita dello stato israeliano, la Shoah caratterizza e influenza l’insieme della società israeliana, a livello individuale e collettivo. Secondo i periodi questa influenza assume contorni e dimensioni diverse. Oggi, per esempio, l’influenza è esercitata su diversi fronti e settori. E’ una fase, questa, in cui la gioventù israeliana è consapevole che la generazione dei sopravvissuti sta, pian piano, scomparendo. In Israele, attualmente, ci sono circa 230.000 persone che hanno un legame personale e diretto con la Shoah. Non si tratta solo dei sopravvissuti ai campi di concentramento e di sterminio, ma di tutti coloro che, all’epoca, essendo bambini, furono nascosti e protetti, sfuggendo in questo modo alla morte. Tutte queste persone sono abbastanza anziane, in un’età compresa fra i 70 e i 95 anni. Per queste persone vengono organizzate diverse attività, affinché vengano messe in contatto con le giovani generazioni. Una di queste, rivolta ai soldati di leva, si chiama " Un fiore per ogni sopravvissuto " ; in occasione della giornata della Shoah, dei militari di leva consegnano un fiore a ogni sopravvissuto. Si tratta quindi di un’iniziativa collettiva, per fare incontrare le generazioni.

A livello individuale, cosa avviene?

Credo che oggi ci sia una più grande apertura al dialogo e alla discussione, su cosa sia stata la Shoah, affinché i giovani israeliani la assumano per costruire il futuro. In Israele ci sono state, in questi 60 anni, diverse fasi: da una prima, in cui predominarono il silenzio, il rifiuto e la rimozione, si passò poi alla sensibilizzazione per giungere alla piena consapevolezza, che vede oggi, oltre ai programmi scolastici, delle iniziative complementari, finalizzate a dei viaggi nell’Europa dell’Est, che includono, oltre alle visite dei campi di concentramento e di sterminio, una ricerca sulle tracce di una civiltà distrutta. Se una volta ci si limitava a visitare i luoghi di morte, oggi si sta dedicando una maggiore attenzione alla conoscenza della vita delle comunità ebraiche, prima della catastrofe. Tutto questo è legato ovviamente alle origini familiari d’ogni singolo cittadino israeliano. Per coloro che provengono dall’Europa occidentale, le visite nei campi di morte in Europa dell’Est, malgrado la solidarietà con tutto il mondo ebraico, non rivestono un carattere " culturale ", perché la loro comunità d’appartenenza è ancora viva nell’Europa occidentale. Per i giovani israeliani, invece, originari dei paesi dell’Est, si tratta anche di un viaggio sulle tracce di una civiltà assassinata. Si tratta di cercare i resti di mille anni di storia askenazi, andati letteralmente in fumo. Questi viaggi comprendono i paesi che vanno dalla Repubblica Ceca fino alla Russia. Non si sente l’esigenza di andare in Europa occidentale, poiché in questi paesi la vita ebraica continua, mentre all’Est è scomparsa con l’assassinio di intere comunità.

In che modo i giovani israeliani percepiscono la Shoah e che visione hanno dell’Europa? Hanno un’immagine negativa e ostile dell’Europa?

Dipende. Poiché l’immagine di Israele fra i mass media europei è molto spesso negativa, di conseguenza anche in Israele la reazione è altrettanto negativa nei confronti dell’Europa. E’ chiaro che, associata alla memoria della Shoah, l’immagine negativa dell’Europa può, in certi casi, rafforzarsi. Tuttavia, non si può parlare di un atteggiamento generale della società israeliana. Dipende dalle singole persone.

C’è chi sostiene che la Shoah rappresenti una specie di religione civile.

Per alcuni sicuramente, nel senso che è così grave e doloroso quanto avvenuto, che si ha quasi paura di toccarla. E’ come se fosse un oggetto sacro. In ogni caso si tratta di sentimenti in continua evoluzione, mai stabili, mai permanenti. Di conseguenza il rapporto con la Shoah muta costantemente.

Questo aspetto " religioso " riguarda in particolare i rituali, che si sono sviluppati e intensificati in questi anni, per mantenere viva la memoria. Vi sono due tipi di rituali: da una parte l’educazione e dall’altra i riti e le commemorazioni, che soprassiedono all’educazione. In un passato non molto lontano, effettivamente questi rituali avevano assunto aspetti religiosi, ma al giorno d’oggi non è più così. Oggi si tratta essenzialmente di un progetto educativo, dato che la discussione è molto aperta, priva di remore, sentimenti di colpa e completamente liberata da quel timore reverenziale di ferire o offendere le vittime, che caratterizzava i primi decenni dello stato israeliano.

Questo kibbutz si è sempre caratterizzato, sin dalla nascita, per il suo intento educativo, finalizzato al futuro e non al passato.

Questo kibbutz è nato con un duplice scopo: innanzitutto come luogo di vita, in cui lavorare, costruire delle case, coltivare la terra ed esistere. Nello stesso tempo i fondatori del kibbutz, sulla scorta della loro esperienza personale, hanno voluto creare un progetto educativo, rivolto ai giovani. Per educare occorre parlare ed instaurare un dialogo. I fondatori di questo kibbutz erano giovani, portatori di un’esperienza particolare, perché si erano battuti, avevano resistito in diversi modi e dunque erano animati da forti ideali, che desideravano trasmettere. Questa caratteristica li distinse da coloro, invece, che erano stati solo vittime inermi e sentivano dentro di sé una profonda umiliazione, di aver subito senza reagire.

Secondo voi c’è una differenza tra coloro che, scampati alla Shoah, sono venuti in Israele e quelli che invece sono rimasti in Europa?

Io credo di sì, ma si tratta solo di una mia opinione. Rispetto a coloro che sono rimasti in Europa, i superstiti che hanno deciso di trasferirsi in Israele, dovendo partecipare alla costruzione di un nuovo paese, di una nuova società, sono stati investiti da una spinta positiva, ad una sorte di rinascita collettiva. Per i superstiti invece rimasti in Europa l’impatto è stato sicuramente diverso, e ognuno ha dovuto gestire da solo, individualmente il proprio dolore e passato. Qualche superstite europeo mi ha detto che in Europa il ricordo della Shoah lo riporta dolorosamente indietro nel tempo, mentre in Israele il discorso sulla Shoah proietta verso il domani.

C’è una storica israeliana, Idith Zertal, che ha parlato di strumentalizzazione politica della Shoah.

Non si può parlare di una politica di strumentalizzazione. Può esserci qualcuno che lo fa, ma non c’è mai stata una politica di strumentalizzazione. Sono i nuovi storici, che sostengono questa tesi, per attaccare a tutti i costi il governo israeliano. E’ ovvio che questi storici in Europa vengano immediatamente accreditati e valorizzati. Questi storici applicano delle teorie a un contesto e ad un’epoca storica molto complessi e rischiano di travisare la realtà. Inoltre ritengono, a torto, che il governo israeliano usi la Shoah per suscitare panico e rafforzare la coscienza nazionale. La paura, invece che avvenga un’altra Shoah, è una paura reale, dentro di noi, che ogni israeliano ha, sin da bambino. La Shoah è un trauma profondo e, solo per questo motivo, è quasi impossibile strumentalizzarla. Quando questi storici accusano la politica israeliana di usare la Shoah in occasione delle guerre che, da 60 anni il nostro paese ha dovuto affrontare, sottovalutano se non addirittura ignorano quanto forte sia il trauma in ogni cittadino israeliano.

In Israele abbiamo paura che un altro genocidio possa ripetersi. Non c’è alcun bisogno di inculcare la paura perché c’è già. Per esempio, il nostro kibbutz organizza dei corsi sulla Shoah per i soldati di leva. Il programma educativo ha lo scopo di insegnare il rispetto, a comportarsi correttamente e soprattutto a controllare la propria forza, la violenza che potrebbe scaturire dal possesso delle armi. I nostri seminari vertono sulla nozione di dignità dell’uomo. Sulla dignità dell’uomo da rispettare in situazioni e contesti difficili. Ed è in questo senso che la storia della Shoah diventa istruttiva. Come poter rimanere umani in una situazione difficile? Come reagire in un contesto violento? E nonostante questo si è nella condizione di difendere il nostro paese perché è minacciato. La minaccia non ci deve però autorizzare ad abusare della nostra forza. L’esercito condivide il nostro progetto, altrimenti non invierebbe i soldati a seguire i nostri seminari. Inoltre la legge israeliana impone a ogni soldato la responsabilità delle proprie azioni, e prevede la libertà di coscienza e cioè la facoltà di disobbedire ad un ordine se questo è ritenuto immorale.

All’estero l’immagine di Israele e del suo esercito è però molto diversa.

Lo sappiamo. All’estero purtroppo ci considerano alla stregua degli americani, come dei rambo e a veicolare questa immagine ci pensano addirittura alcuni israeliani i quali non si degnano nemmeno di citare tutti i programmi educativi svolti per creare un esercito responsabile e controllato, in una situazione di tensione e paura costanti. Bastava trovarsi qui, l’estate scorsa, nel nostro kibbutz, a 30 km dal confine con il Libano, in cui sono piombati più di 4.000 missili, per rendersi conto della nostra paura e della nostra fragilità.

David Grossman dice che gli israeliani dovrebbero smettere di pensare di vivere circondati da un mondo loro perennemente ostile.

Ha ragione, ma è facile a dirsi. Noi sentiamo la minaccia, noi sentiamo il pericolo costante. Sentiamo la fragilità dell’esistenza d’Israele. Pur tra i meno paurosi si vive questa sensazione d’instabilità, di precarietà, come se da un momento all’altro, per non si sa quale motivo, l’irreparabile potrebbe avvenire. Si tratta di un’inquietudine che influenza i nostri comportamenti e i nostri stati d’animo.

Nel vostro Kibbutz la Shoah è studiata per avviare un dialogo tra le varie comunità della regione: israeliana, araba e cristiana.

Noi studiamo la Shoah non solo come evento storico. Ci soffermiamo sul processo che ha portato alla Shoah, per essere in grado di riconoscere i segnali premonitori che anticipano eventi del genere. Se si riesce ad essere tutti d’accordo sui segnali, si può condividere un determinato comportamento umano da tenere e da adottare. La partecipazione ai nostri seminari è volontaria e completamente gratuita. Agli alunni delle scuole, che vengono a visitare il museo Hagetaoth, viene proposto un programma complementare, gratuito, facoltativo per favorire l’incontro, e lo scambio intercomunitario tra i giovani della Galilea. Questo progetto è rivolto a tutte le scuole israeliane, sia arabe che ebraiche. La stragrande maggioranza dei giovani vive vite separate ed è qui da noi che incontra fisicamente per la prima volta "l’altro". Attualmente sono 25 le scuole della Galilea che collaborano con noi. Si tratta di scuole arabe, ebraiche e cristiane. I giovani, che accolgono la nostra proposta e si impegnano quindi a dedicare gran parte del loro tempo libero a seguire i nostri seminari, dimostrano una curiosità personale e una disponibilità a mettersi in gioco ed a confrontarsi. Questa disponibilità naturale, non indotta e non coercitiva è un segnale estremamente positivo.

Noi proponiamo un programma pedagogico a lungo termine, che ha come obiettivo di favorire l’ incontro fra i giovani, di farli lavorare intorno ad una piattaforma comune, che implica, partendo dalla storia della Shoah, il riconoscimento dell’altro e del rispettivo dolore. Uno dei primi scogli da superare è quello di saper ascoltare l’altro, saperlo ascoltare quando dice cose spiacevoli, e per questo è necessario adottare una metodologia appropriata, che prevede anche tanta pazienza. Se nel corso di un dibattito emergono discorsi violenti, l’obiettivo non consiste nel censurare l’espressione violenta, ma di ragionare sulle cause della violenza, per dirimerla e superarla. E’ un metodo che, alla lunga, funziona. Ci sono però alcuni paletti da rispettare sin dall’inizio, per esempio è vietato dire: " Ti voglio uccidere ". Tutto è ammissibile, tranne questo. I professori arabi sono molto sensibili al nostro progetto, perché si rendono conto che viene dato spazio al loro disagio. Per l’elaborazione di questo specifico programma pedagogico è nato, all’interno del kibbutz, il centro " democrazia e umanesimo". Non sempre si ottengono i risultati sperati. Non tutti seguono fino alla fine il nostro programma, poiché la nostra impostazione disturba il loro modo di pensare e le loro convinzioni. Si tratta però di una minoranza, poiché la maggioranza va fino in fondo. Molto dipende dal contesto in cui vivono. Tuttavia, per tutti quelli che restano, è interessante e importante notare i cambiamenti radicali che avvengono nella percezione dell’altro. Questo riguarda tutti i giovani, ebrei, arabi e cristiani. Molto spesso i giovani entrano in conflitto con i propri genitori, con la propria comunità di appartenenza, poiché sia i giovani ebrei che i giovani arabi, che frequentano il centro democrazia e umanesimo, non sono più disposti, una volta rientrati a casa, a rispettare i codici di appartenenza e gli slogan che incitano alla violenza contro l’altro, del tipo : " A morte gli arabi " e, dall’altra, " a morte gli ebrei". Poiché con il loro esempio tentano di modificare la situazione, questi giovani diventano dei traditori, e a noi del centro ci accusano di fare il lavaggio del cervello. Per coloro che vivono addirittura in ambienti estremisti, la vita è ancora più difficile, perché la comunità ha tendenza ad isolarli, in quanto mettono in crisi le loro idee preconcette. Per noi, invece, è un piccolo successo. Si avanza a piccoli passi, ma si avanza. Tuttavia, noi siamo solo una piccola "minoranza". Si tratta di un investimento per il futuro e la nostra speranza è che questi giovani, una volta diventati adulti, sappiano diffondere questo modo di pensare e riescano ad operare dei cambiamenti nelle mentalità delle proprie comunità d’appartenenza. Questo è l’unico centro, in Israele, che parte dalla Shoah per impostare un dialogo interculturale tra le varie comunità della Galilea. Esistono altre comunità e centri in cui sono stati avviati progetti di dialogo intercomunitario, ma senza affrontare la Shoah.

C’è stata, a vostro avviso, una riconciliazione fra il popolo ebraico e l’Europa?

Penso che non ci sia stato ancora un lavoro approfondito a livello storico e educativo, il quale permetterebbe una riconciliazione completa e sincera. L’Europa è condizionata negativamente dal senso di colpa e dalla visione negativa d’Israele, a causa dell’attuale conflitto israelo-palestinese. L’Europa potrebbe liberarsi dal proprio senso di colpa, assumendo completamente la memoria della Shoah, ma in maniera produttiva, istruttiva e agendo quindi su un piano educativo proiettato verso il futuro, e non verso il passato. Si tratta però di un processo lungo e difficile, che implicherebbe una serie di passaggi, che ancora non sono stati compiuti. La Shoah, soprattutto quando la si affronta con persone non direttamente coinvolte, e soprattutto giovani, deve essere insegnata e trasmessa con mezzi idonei, atti a creare dei ponti di comunicazione. In particolare, nell’ affrontare la Shoah con la comunità araba, che sia in Israele o in Europa, si è di fronte a una serie di ostacoli: la propaganda antisionista, che accusa gli ebrei di strumentalizzare la Shoah per legittimare l’esistenza d’Israele; i tentativi negazionisti, sempre tesi a delegittimare Israele; coloro infine, che ritengono che si tratti di una faccenda e di una colpa europea e quindi non accettano che a pagarne le conseguenze siano gli arabi del Medio-Oriente.Tutti questi fattori rappresentano delle notevoli difficoltà, perché condizionano fortemente il modo di pensare delle persone.

Gli israeliani provano, nonostante tutte le loro buone ragioni, un certo disagio nei confronti della popolazione araba, a cui hanno dovuto, per forza di cose, usurpare qualcosa?

E’ una questione molto complessa. La maggioranza dei villaggi e kibbutz sorti in questa regione, la Galilea, sono nati su terre acquistate ai turchi ad un prezzo molto più elevato del loro valore reale. I kibbutz e gli insediamenti nati in queste terre non hanno soppiantato o cacciato alcuna comunità araba preesistente. Ci sono due o tre casi in cui ciò è avvenuto, ma la popolazione araba è stata dislocata a pochi km di distanza, e la loro vita è continuata come prima. Tuttavia, queste persone ritengono di essere state cacciate da casa loro. Dall’altra parte, alcuni ebrei sopravvissuti, arrivati nel 1948, sostengono che loro, dopo la Shoah, non sapevano dove andare – rimaneva loro solo il mare - , mentre gli arabi avrebbero sempre potuto trovare asilo da qualche parte, nei paesi arabi vicini. C’è un libro a questo proposito dal titolo "Le dernier rivage". Tutti sono pronti a riconoscere che sia stata commessa una qualche ingiustizia, il problema consiste però nello stabilire rispetto a cosa ?

Negli anni ’50, proprio qui in Galilea, una proprietaria di una piccola fattoria, per irrigare i propri terreni dovette "appropriarsi" di un pozzo che apparteneva ad un contadino arabo. Questo contadino, pur possedendo un altro pozzo, non poteva capacitarsi a dover lasciare il proprio pozzo, e allo stesso tempo la contadina israeliana non poteva fare a meno di quel pozzo per poter irrigare le proprie terre. Era perfettamente consapevole che quel pozzo l’aveva usurpato…..

pubblicata originariamente sulla rivista "Una Città di Forlì"


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