Riprendiamo da RIFLESSI di MENORAH l'intervista di Massimiliano Boni a David Meghnagi dal titolo "Ridiamo all’ebraismo italiano la Gloria che merita".
Massimiliano Boni
David Meghnagi
David, da molti anni lavori per contribuire alla crescita del mondo ebraico italiano. Quando comincia la tua “storia italiana”? Sono arrivato da Tripoli nel 1967, dopo un sanguinoso pogrom: il terzo in ventidue anni. A Tripoli ero Chazan dall’età di 14 anni e in Italia mi era stata offerta la possibilità di completare la formazione rabbinica. Sognavo di trasferirmi in un Kibbutz. Decisi diversamente, dedicandomi alla professione di psicanalista e docente universitario. In Italia mi dovetti confrontare con una realtà diversa da quella da cui provenivo. Davo lezioni di ebraico e latino. L’ebraico lo avevo appreso traducendo la Bibbia, dopo averne memorizzato intere parti. Erano anni complicati, pieni di speranze, ma anche cariche di angosce. In breve tempo mi familiarizzai con tutto quello che non avevo avuto la possibilità di leggere a Tripoli: Freud, Marx, Hegel, Durkheim, Piaget, Scholem, Borochov, Kafka, Benjamin…
In questa consiliatura, iniziata nel 2016, tu sei stato assessore alla cultura. Ora che il Consiglio dell’Ucei è prossimo al rinnovo, puoi riassumere le linee di attività su cui si è mossa la tua azione? Fin dalla mia nomina ho cercato, assieme a tutto il gruppo di Menorah – a rappresentarla siamo, oltre a me, Livia Ottolenghi, Guido Coen, Hamos Guetta, e Victor Magiar – di tracciare un’azione condivisa da tutto il consiglio. Purtroppo lamento che la mia azione non abbia avuto un deciso e chiaro supporto da parte dell’istituzione – ad esempio non ho ricevuto deleghe, ad eccezione dell’organizzazione degli eventi di Moked, realizzati insieme a grazie a rav Roberto Della Rocca, e sono stato ammesso ai lavori della giunta solo dopo due anni – ma in ogni caso non mi sono tirato indietro, avviando diversi progetti all’interno e all’esterno dell’Ucei.
Puoi farci un elenco delle iniziative più importanti? Ne indico quattro. La prima è stata la valorizzazione della storia degli ebrei della Libia, che ha portato a numerose iniziative tra cui la serata al teatro Argentina, curata da Hamos Guetta, e soprattutto un film da me ideato e realizzato con l’amico Gabbai (che ha firmato la regia), che ha avuto una buona ricaduta ed è stato presentato in Canada, Israele, New York, e infine trasmesso in Tv in prima serata. Dietro questo progetto c’era un’idea precisa: contribuire a modificare una falsa e unilaterale narrazione sul Vicino Oriente che si affermata nel dopoguerra di matrice panaraba, sovietica e terzomondista.
Di che si tratta? La storia più recente del Vicino Oriente è particolarmente complessa e intricata. Nessuno dei problemi rimasti aperti dopo la fine della Prima guerra mondiale è stato adeguatamente affrontato e politicamente risolto. Il rifiuto antiebraico nel Mondo arabo comincia molto prima del conflitto arabo israeliano. Nel corso della seconda guerra mondiale Radio Bari e Radio Berlino trasmettevano in arabo proclami antisemiti che identificavano Hitler con il Mahdi, una figura messianica islamica. A dirigere le trasmissioni erano i seguaci del Muftì di Gerusalemme, che aveva contribuito a costituire nel Balcani un corpo di SS islamiche che hanno fatto strage di ebrei e serbi. Il progetto di Hitler era di attaccare le forze alleate attraverso il Caucaso e attraverso la Libia, un’azione che fu bloccata con la vittoria sovietica a Stalingrado e poi con quella degli alleati a El Alamein. L’Yshuv e l’intero ebraismo del mondo arabo vissero momenti di grande pericolo. Nel 1941 ci fu un colpo di stato filonazista a Bagdad cui seguì un violento pogrom che segnò l’inizio della fuga degli ebrei dall’Irak. Per fare emergere questa complessità, che va compresa per sapere leggere i fenomeni odierni che ci riguardano, nel 2016 ho chiesto e ottenuto un’audizione alla Camera, cui è seguita quella al Senato nel 2017, che hanno fatto seguito a una precedente audizione avuta nel 2009 e a una giornata di studio nel 2010. L’audizione del 21 luglio scorso l’ho presa in rappresentanza del Comitato academico europeo istituito con Amos Luzzatto nel 2005.
Il tuo secondo impegno dove si è diretto? Nell’azione volta a fronteggiare il pericolo rappresentato dal Bds. La campagna di boicottaggio contro Israele esiste fin dagli anni 50, avviata dai Paesi arabi, ma adesso ha acquisto per così dire una certa “rispettabilità” nella cultura di sinistra. Il movimento è una realtà variegata che ha come sfondo la delegittimazione politica e morale dell’esistenza di Israele. Non è qui in discussione il diritto alla critica a questa o quella scelta di questo o di quel governo israeliano. Il diritto alla critica è il sale della democrazia. Sono qui in discussione il doppio standard e la delegittimazione. Per non parlare della demonizzazione e della trasformazione dello Stato degli ebrei nell’Ebreo degli Stati, su cui proiettare le immagini negative che l’antisemitismo religioso e razzista rivolgeva agli ebrei come comunità e come individui.
Come si risponde al Bds? Introducendo delle buone pratiche e stando nei processi in cui si formano le idee, nei campus e nelle università, partecipando al dibattito per la ricerca di una composizione politica dei conflitti che lacerano la regione, sviluppando il dialogo e la cooperazione fra le due sponde del Mediterraneo contro ogni forma di boicottaggio. A tal fine, fin dal 2003, assieme ad Amos Luzzatto, ho costituito Il Comitato accademico europeo per la lotta all’antisemitismo e la cooperazione nel mediterraneo. Abbiamo così ottenuti molti risultati, impedendo il boicottaggio degli accademici e delle istituzioni universitarie israeliane e contribuendo a implementare la cooperazione accademica e la circolazione degli studiosi fra le due sponde del Mediterraneo. Un esempio concreto di buone pratiche che si è affermato a Roma Tre, dove ho promosso e diretto dal 2005 il primo Master in Europa per la formazione e la ricerca sulla Shoah, è stato il divieto di utilizzo del logo di Ateneo per iniziative collegate ad attività ispirate al boicottaggio. Altri esempi sono stati i seminari che hanno coinvolto diversi Atenei italiani (tra cui quello di Torino).
E il terzo progetto cui ti sei dedicato? Siamo riusciti a ricostruire la vicenda della persecuzione dei docenti ebrei nel 1938. Nel 2018 si è realizzata la mappatura totale di quello che è successo nelle università; gli atti sono ancora da pubblicare, ma su Trauman memory, da me diretta, sono apparsi diversi saggi. Da qui si deve partire per estendere la ricerca sulla mappatura degli studenti. In questo contesto va ricordato il convegno autofinanziato sulla figura di Enzo Bonaventura a Firenze, Roma e Tel Aviv. Bonaventura trovò rifugio a Gerusalemme dove gettò le basi del Dipartimento di psicologia delle Hebrew University. Una figura tragica e luminosa, assassinato nell’aprile del 1948 insieme a una settantina di persone nel convoglio dell’Hadassah. Il Comune e l’Università di Firenze da me contattati hanno accolto la proposta di dedicare alla sua memoria il giardino di Via Capponi.
Infine, c’è l’ultimo progetto. Di che si tratta? È lo studio, la riscoperta e la valorizzazione della Hazanut. Anche in questo caso, per la verità, ho svolto la mia attività al di fuori dei canali ufficiali dell’Ucei. Sono grato al rabbinato di Roma e di Milano per l’aiuto, che ha portato tra l’altro a un convegno sulla Tefillah, tenuto a Parma e Bologna (realizzato all’interno delle attività culturali dell’Ucei con la collaborazione di Rav Della Rocca, Rav Gadi Piperno e il Maestro Moretti, Presidente della Comunità di Parma). Il progetto hazanuth è portato avanti insieme a Enrico Fink e Rav Yoseph Levi.
Vista la tua grande esperienza, che giudizio dai sull’ebraismo italiano? Per evitare il declino, l’ebraismo italiano ha bisogno di idee nuove, di iniziative che ne valorizzino il patrimonio culturale, artistico e religioso come strumento di vita e di rinascita.
Cosa intendi? Il calo demografico è stato compensato negli anni cinquanta e sessanta dall’arrivo dei profughi ebrei dall’Europa centro orientale, dal mondo arabo e dopo la guerra del 1967 dagli ebrei di Libia. Una buona parte degli ebrei italiani sono figli di profughi (se non loro stessi) fuggiti dai Paesi arabi e degli ebrei di origine persiana che hanno contribuito al rinnovamento e allo sviluppo delle rispettive Comunità di adozione. Si tratta di un cambiamento profondo che, nella rappresentazione che l’ebraismo italiano ha di sé, non è stato adeguatamente valorizzato nei suoi aspetti simbolici. Nella storia e nella memoria più recente dell’ebraismo italiano accanto al Risorgimento e alla tragedia del nazismo, c’è anche la difficile e affascinante storia di sopravvivenza degli ebrei di Mashad, la storia dei pogrom in Libia, le spogliazioni degli ebrei fuggiti dall’Egitto e dal Mashraq. Quando nel Congresso Ucei del 1998 lanciai l’idea di costituire una Fondazione per la tutela dei beni visibili e invisibili degli Ebrei del Mediterraneo, fui guardato come se fossi un marziano. Gli accordi di Abramo dimostrano che eravamo nel giusto.
Dunque gli ebrei della Libia non come semplici immigrati, ma come ebrei italiani a tutti gli effetti. Sì. Gli ebrei di Libia erano nell’Unione delle comunità israelitiche fin dal 1911. L’omaggio degli ebrei di Libia di Primo Levi in una splendida pagina di Se questo è un uomo è una grande testimonianza. Ma non ci sono solo gli ebrei di origine libica. Si pensi alla Tunisia dove c’era una importante colonia di origine livornese o all’Egitto. Per non parlare poi del sionismo di matrice sefardita che ha avuto tra i suoi rappresentanti più importanti la figura di Montefiore. C’è poi da recuperare la storia più antica, legata alla storia del Meridione.
Ora che è prossimo il rinnovo dell’Ucei, che priorità deve darsi l’ebraismo italiano? Per rivitalizzare le piccole comunità si potrebbe pensare a delle convenzioni con le grandi realtà americane e israeliane. Attraverso dei programmi condivisi i giovani israeliani e americani interessati alla storia ebraica e dell’arte potrebbero passare uno o due anni nelle piccole comunità contribuendo a farle rivivere. Basterebbero una decina di studenti per comunità per fare la differenza. Nel caso della Comunità di Firenze si potrebbe implementare il rapporto con l’Università americana. In questa prospettiva occorrerebbe promuovere dei grandi eventi in cui le singole comunità si specializzino, trasformandosi in poli di attrazione culturale. Pensa a Mantova, Firenze, Padova, Livorno, Ancona e Venezia. Per non parlare delle altre comunità. In questa prospettiva la polemica che oppone le grandi comunità alle piccole non avrebbe più alcun senso. Se le piccole comunità non esistessero, bisognerebbe inventarle, per il semplice motivo che il vuoto sarebbe occupato da altri, come per esempio è accaduto per il Sud.
Infine, se dovessi pensare a un ideale passaggio di consegne con il prossimo assessore alla cultura, cosa gli diresti? L’ebraismo italiano ha una storia così ricca che nella tradizione mistica ha trovato una grande accoglienza. Non per caso la tradizione ebraica italiana era accostata simbolicamente alla Sefirah di Tiferet. Un accostamento non da poco: la Gloria come esito dell’incontro fra la Giustizia e la Misericordia.