Riprendiamo da HUFFINGTON POST l'articolo di Gianni Vernetti dal titolo "La normalizzazione fra Marocco e Israele può cambiare il Maghreb".
da Huffington Post
Gianni Vernetti
Dopo gli Emirati Arabi Uniti, Il Bahrein e il Sudan, il re del Marocco Mohammed VI ha annunciato la ripresa delle relazioni diplomatiche con Israele. Per Israele è stato un motivo in più per festeggiare il primo giorno di Hanukkah, la festa delle luci e la vittoria della rivolta dei Maccabei contro il regime oppressivo degli Elleni nel II secolo A.C. L’Accordo annunciato ieri è per il Marocco anche un modo per riconciliarsi con la propria storia: per secoli, la comunità ebraica marocchina è stata una delle più grandi della diaspora, arrivando a contare fino a 300.000 membri, rappresentando una componente importante e molto attiva e integrata nella società. Dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948, gran parte del movimento nazionalista in Marocco promosse una dura campagna contro la comunità ebraica in nome del panarabismo, che culminò con i pogrom di Oujdah e di Jerada, che provocarono il massiccio esodo della comunità ebraica verso lo stato di Israele, gli Usa e il Canada. Ma la comunità ebraica non è mai scomparsa del tutto in Marocco: oggi vivono ancora 8.000 ebrei in tutto il paese e uno degli esponenti più importanti della comunità, Andrè Azoulay (padre della direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay, ndr) è stato per lunghi anni consigliere prima del re Hasan II e oggi del re Muhamad VI, contribuendo in modo determinante a tenere sempre aperti i canali di comunicazione fra lo stato di Israele e la monarchia costituzionale marocchina. L’annuncio di ieri rappresenta dunque un fatto storico, ma non è certamente una sorpresa. Anche nel caso del Marocco, l’Iran è una delle chiavi per comprendere la recente accelerazione verso la normalizzazione con lo stato ebraico. Nel 2018 Rabat interruppe unilateralmente i rapporti diplomatici con Teheran, richiamò l’ambasciatore e chiuse la sua ambasciata, dopo l’ennesima scoperta di un continuo flusso di armamenti, anche sofisticati, fra la repubblica islamica ed i guerriglieri del Fronte Polisario attivi nella parte sud-occidentale dell’Algeria lungo il confine con il Sahara Occidentale, occupato da 30 anni dal Marocco. La politica di esportazione di terrorismo e di instabilità del regime degli Ayatollah, come giù successo nel caso di Emirati Arabi Uniti e Bahrein, ha rappresentato anche in questo caso, uno degli elementi importanti per accelerare il processo di normalizzazione delle relazioni fra Rabat e Gerusalemme. Il nuovo accordo avrà un impatto molto forte sull’interscambio economico e commerciale e nel settore turistico. Ieri la compagna aerea privata Israir ha già annunciato di essere pronta a promuovere un collegamento diretto fra Tel Aviv e Casablanca entro i prossimi due mesi.
Donald Trump
Il presidente uscente Donald Trump, nell’annunciare il nuovo “deal” con un tweet, si è spinto anche oltre, dichiarando che gli Usa sono pronti a riconoscere la sovranità marocchina sul territorio conteso dell’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale, occupata dal Marocco alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Il tema è molto controverso, essendo ancora in corso una negoziazione, sotto l’egida delle Nazioni Unite, fra Marocco e Fronte Polisario e l’area è ancora oggetto di una missione di peacekeeping (Minurso), dislocata nell’area per monitorare il cessate il fuoco. Ma l’intera questione sarà affrontato a breve dal Presidente eletto Joe Biden che fin dalla prima intesa fra Israele e Emirati, ha confermato il proprio sostegno agli Accordi di Abramo ed alla nuova stagione di pace che è stata inaugurata nella vasta area compresa fra il Maghreb, il Medio Oriente e l’Africa Sub-sahariana. Quanto sta accadendo in queste settimane fra Abu Dhabi, Manama, Khartoum e Rabat dimostra che la bilancia del conflitto nel mondo sunnita fra modernità riformatrice e conservazione islamista, sta pendendo decisamene a favore dei primi. Marocco ed Emirati Arabi Uniti, insieme, possono essere un fattore trainante in grado di archiviare definitivamente la stagione del conflitto permanente e della minaccia islamista del network internazionale dei Fratelli Musulmani. Gli Accordi di Abramo contribuiranno anche a “contenere” la Turchia autoritaria e islamista di Recep Tayyip Erdogan e le sue ambizioni neo-ottomane di esportazione di instabilità nel Mare Egeo, nel Maghreb e nel Golfo. Tra poche settimane sarà dunque compito del presidente Joe Biden e del Segretario di Stato Anthony Blinken rilanciare il processo degli Accordi di Abramo per farvi aderire nuovi paesi arabi e per inserire in quel contesto anche la ripresa del dialogo israelo-palestinese. Ma ora che il tabù delle relazioni con Israele è stato definitivamente infranto, la lista dei paesi che potrebbe unirsi agli Accordi di Abramo inizia ad essere molto significativa. L’incontro di due settimane fa nella new town di Neom sul Mar Rosso, a poche decine di chilometri da Israele, fra il Segretario di Stato Mike Pompeo, il premier Netanyahu e il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, sono la conferma che il negoziato fra Israele e la monarchia saudita è molto avanzato. Ma il processo di normalizzazione con l’Arabia Saudita deve ancora fare i conti con la componente più tradizionale del regno, a cominciare dal 84enne reggente Re Salman, che vorrebbe subordinare la pace con Israele da un riconoscimento della Palestina entro i confini del 1967. Ma le esigenze di contenimento di Iran, Turchia e Fratelli Musulmani, spingono la monarchia saudita verso un accordo con Israele e la questione palestinese non è più la precondizione obbligatoria per parlarsi e giungere ad un accordo duraturo.
L’Oman è una delle monarchie del Golfo tradizionalmente più aperte e tolleranti, ha già ospitato diverse visite di alto livello fra i due paesi, incluso il Primo Ministro Netanyahu che visitò Muscat nell’ottobre del 2018, e sarà uno dei prossimi paesi ad entrare nel club degli “Accordi di Abramo”. Nell’Africa sub-sahariana Mauritania e Ciad sono i più probabili candidati ad una normalizzazione dei rapporti con Gerusalemme. La crescente minaccia jihadista in tutto il Sahel rende sempre più vulnerabili i già instabili paesi dell’intera fascia sub-sahariana, incrementando il loro interesse ad una cooperazione a tutto campo con Israele e gli Emirati. La Mauritania già nel 1999, in seguito ad una forte offensiva diplomatica guidata dall’allora Segretario di Stato Madeleine Albright, riconobbe Israele, per poi rompere nuovamente le relazioni nel 2008. Oggi il Presidente Mohammed Ould Ghazouani è fortemente tentato di unirsi al nuovo processo di pace con Tel Aviv, con un forte interesse per la possibile nuova stagione di scambi economici e commerciali e per ricevere aiuti e cooperazione militare per il contrasto delle milizie jihadiste che controllano ancora una parte rilevante del paese. Sulla stessa strada si è già incamminato, con circa un anno di anticipo rispetto agli Accordi di Abramo, il Ciad. Il presidente Idriss Déby ha siglato nel 2019 con Benyamin Netanyahu diversi accordi di cooperazione nel settore dell’agricoltura e della sicurezza. Per il Ciad la minaccia dei terroristi jihadisti di Boko Haram è una sfida esistenziale e la cooperazione con Israele potrebbe cambiare in modo significativo la capacità di deterrenza dello stato sub-sahariano.
Israele ed Emirati Arabi Uniti hanno poi nell’ultimo anno aumentato in modo significativo la cooperazione nel Corno d’Africa, l’imbocco strategico di tutte le rotte marittime verso il Canale di Suez e naturalmente anche verso il porto di Aqaba, l’unico accesso del paese ebraico nel Mar Rosso. Il Corno d’Africa, oramai da trent’anni in condizione di instabilità permanente a causa del conflitto in Somalia, potrebbe riservare molte sorprese con l’apertura di relazioni commerciai, di sicurezza e persino politiche fra Israele e il Somaliland, la parte della Somalia ex britannica, dichiaratasi indipendente oltre 20 anni fa (e non riconosciuta al momento da nessun paese), che ha raggiunto un livello di stabilità e sicurezza inimmaginabile nella vicina Somalia. La capitale Hargeisa è già oggi irriconoscibile rispetto a Mogadiscio: voli regolari con diverse capitali africane, un governo e parlamento pienamente legittimanti e funzionanti, un vivace sistema multipartitico, una banca centrale ed un esercito che controlla il territorio e impedisce le infiltrazioni delle milizie islamiste di Al Shaabab. Israele e Emirati Arabi Uniti sono interessati a promuovere una cooperazione a tutto campo con il Somaliland a partire dal rilancio del porto di Berbera, che potrebbe diventare nei prossimi anni l’avamposto economico e di sicurezza della nuova alleanza fra Israele e il mondo sunnita riformatore, che sta cambiando in modo così profondo la geopolitica mediorientale e africana.