Dopo il G-7, il D-10: la nuova Alleanza delle Democrazie Analisi di Gianni Vernetti
Testata:Huffington Post Autore: Gianni Vernetti Titolo: «Dopo il G-7, il D-10: la nuova Alleanza delle Democrazie»
Riprendiamo da HUFFINGTON POST l'articolo di Gianni Vernetti dal titolo "Dopo il G-7, il D-10: la nuova Alleanza delle Democrazie".
Gianni Vernetti
La crisi globale del coronavirus sta cambiando il nostro stile di vita in modo radicale. Milioni di esseri umani hanno dovuto modificare profondamente le proprie abitudini in famiglia, nei luoghi di lavoro e le proprie modalità relazionali. È cambiato tutto: lavoro, scuola, università, sport, viaggi, modo di produrre e di consumare. Ma se da un lato è chiaro quale sia stato l’impatto della crisi pandemica sulla vita di miliardi di individui, sono meno evidenti gli effetti di lunga durata che questa crisi produrrà nei confronti della governance globale e delle organizzazioni che, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, la comunità internazionale ha utilizzato per dirimere i conflitti, definire obiettivi comuni di sviluppo, lanciare sfide ambiziose. La crisi pandemica avrebbe dovuto inaugurare una nuova stagione di cooperazione e di interdipendenza per sconfiggere un virus sconosciuto e per sua natura irrispettoso dei confini fra gli stati. Purtroppo, la pandemia ha fin qui, invece, aumentato la competizione fra gli stati, accresciuto il divario fra autocrazie e democrazie e contemporaneamente contribuito a indebolire e accelerare la crisi di molti dei tradizionali strumenti del multilateralismo, a cominciare dalle Nazioni Unite. L’organismo preposto alla “governance” globale della salute, la “World Health Organisation” (Organizzazione Mondiale della Salute), è stato il più evidente indicatore della crisi delle organizzazioni internazionali durante la primi crisi pandemica globale. L’eccesso di deferenza nei confronti della Cina da parte dell’OMS ha rallentato la risposta globale alla pandemia, legittimando in molti paesi (inclusa l’Italia) quell’insieme di posizioni “minimizzanti” e persino “negazioniste”, che hanno fatto perdere settimane preziose nella lotta al coronavirus. Il multilateralismo come lo abbiamo conosciuto in questi anni rischia poi di essere travolto da autocrazie sempre più assertive e da un confronto sempre più accesso non soltanto fra Usa e Cina, ma più generale fra mondo libero e regimi dittatoriali. Pensiamo soltanto a come Russia, Cina e Turchia hanno usato la pandemia per ottenere vantaggi nel proprio posizionamento geo-politico. La Russia ha messo in cantiere una molteplicità di azioni per screditare l’occidente, costruendo una narrativa per farlo apparire come debole e disorganizzato nel fronteggiare la pandemia. Le fabbriche di fake news nuovamente in azione e la missione militare di aiuti nel Nord Italia, ne sono stati la traduzione pratica. La Cina ha cercato fin dall’inizio della crisi di proporsi come leader globale nel contrasto alla pandemia, proponendo un modello autoritario di gestione della crisi più efficace del “lassismo” occidentale e contemporaneamente ha mutato la propria politica estera inaugurando una stagione di forte assertività e di sfida aperta nei confronti dell’occidente: la risoluzione della crisi di Hong Kong con il pugno di ferro della nuova legge sulla Sicurezza Nazionale; il linguaggio sempre più assertivo della propria rete diplomatica (i “wolf warriors”); le esercitazioni militari nello stretto di Taiwan; la tensione militare con l’India in Ladakh. La Turchia è diventata, nei lunghi mesi della prima crisi pandemica globale, il principale fattore di destabilizzazione nel Mediterraneo rendendo sempre più complessa e imbarazzante la propria permanenza nell’Alleanza Atlantica. La svolta neo-ottomana, autoritaria e islamista di Recep Tayyip Erdogan ha prodotto un radicale riposizionamento geopolitico della Turchia, sempre più distante dall’ancoraggio atlantico e impegnata nella costruzione di un sistema di alleanze spregiudicate fra Mosca, Teheran, Damasco e Tripoli. Negli ultimi mesi, poi, il regime di Ankara ha minacciato militarmente la Grecia, rivendicando ampie porzioni del Mar Egeo a cominciare dall’isola greca di Kastellorizo; ha proseguito la sua politica spregiudicato nello scacchiere libico; ha soffiato sul fuoco del conflitto armeno-azero inviando in Azerbaijan diverse centinaia di miliziani jihadisti dall’enclave siriana di Idlib, sotto tutela nei fatti dell’esercito turco. La crisi pandemica sta dunque disegnando un nuovo sistema di relazioni internazionali nel quale il multilateralismo e le sue storiche organizzazioni internazionali sono fortemente indebolite e contemporaneamente le principali autocrazie del pianeta sono sempre più assertive. Tale contesto in rapida evoluzione rende anche necessario un ripensamento delle modalità con le quali l’occidente e le democrazie liberali si organizzano per coordinare le proprie azioni e le proprie policies globali. E tale ripensamento non potrà non coinvolgere le organizzazioni costruire con questo obiettivo, che dovranno naturalmente evolversi e mutare pelle. Primo fra tutte, il G-7. Il 46mo vertice del “Group of Seven (G-7)” si sarebbe dovuto svolgere lo scorso mese di giugno a Camp David in Maryland, ma la pandemia di COVID-19 ha costretto i paesi membri ad annullare il summit, spostato una prima volta a settembre e poi fissato definitivamente dopo le elezioni presidenziali americane del prossimo novembre. Il G7 è da sempre il forum delle grandi economie mondiali che da sole rappresentano quasi il 50% del PIL globale: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti, più l’Unione Europea, ma è anche il forum più autorevole delle democrazie liberali. L’allargamento alla Russia fra il 1997 e il 2014, con la nascita del G-8, rappresentò il tentativo di chiudere definitivamente la stagione della Guerra Fredda, includendo la Federazione Russa nel consesso più autorevole fra le grandi economie e le democrazie mondiali. Le deriva autoritaria di Putin e l’invasione della Crimea e dell’est dell’Ucraina hanno fatto naufragare definitivamente il progetto ed il Gruppo degli Otto è stato consegnato alla storia. Ma oggi anche il G-7 non è più lo strumento adeguato per affrontare le nuove crisi globali e per affrontare le nuove sfide geo-politiche. Prima di tutto, perché è sostanzialmente un club “euro-atlantico”. A parte la presenza del Giappone, tutti gli altri membri rappresentano sostanzialmente la dorsale euro-atlantica sulla quale sono state costruite le intese e gli equilibri fra le grandi democrazie fra le due sponde dell’Oceano Atlantico a partire dal dopoguerra. Il centro gravitazionale delle crisi e delle opportunità si è però progressivamente spostato verso oriente nell’area dell’Indo-Pacifico, motivo per il quale nel 1999 nacque il G-20 come forum di concertazione prevalentemente economica fra i paesi che esprimevano oltre l’80% del PIL globale. Ma la presenza di Turchia, Cina e Russia rende il formato G-20 (che sarà anche guidato perla prima volta dall’Italia nel 2021), poco interessante in un mondo nel quale non è più possibile separare scelte economiche e tecnologiche con modelli di governance e geo-politica. E dunque in piena crisi COVID ha cominciato a farsi largo l’idea di sostituire il G-7 con un nuovo D-10, ampliando il format del Gruppo dei Sette a India, Australia e Corea del Sud per riunire le grandi democrazie del pianeta in un unico Forum, embrione di una più ampia Alleanza delle Democrazie. Questa estate aveva rotto il ghiaccio il Primo Ministro britannico Boris Johnson proponendo esattamente questo formato per coordinare le politiche relative alla nuova tecnologia 5G e alla possibilità di costruire un network globale in grado di competere e non dipendere dalle infrastrutture e dalle tecnologie cinesi. L’idea è stata poi ripresa dall’Atlantic Council, think tank di Washington DC, che già da alcuni anni promuove incontri annuali fra diplomatici dei 10 paesi e anche dall’ex Segretario Generale della NATO, che pochi mesi fa ha creato la fondazione “Alliance of Democracies”, con l’obiettivo di rafforzare la rete globale delle democrazie per far fronte alle nuove minacce poste dai regimi dittatoriali. Ma dopo le prime riflessioni sostanzialmente legate al 5G e al tema del come ridurre la dipendenza nei confronti della Cina per l’approvvigionamento farmaceutico e per le tecnologie bio-medicali, l’ipotesi di di un “G-7 allargato” per trasformarsi in un “D-10”, il Gruppo delle grandi Democrazie, ha iniziato a riscuotere molto interesse in Asia e fra le due parti dell’Oceano. Il Primo Ministro Narendra Modi vedrebbe in tal modo confermata la bontà della scelta strategica di rafforzare la partnership fra India, Stati Uniti e occidente in generale, e al tempo stesso permetterebbe all’India di diventare il pilastro asiatico sul quale poggiare la nuova alleanza nell’Indo-Pacifico. L’Australia è sempre più uno dei protagonisti chiave delle nuove architetture di sicurezza nell’Oceano Indiano, dal Quadrilateral Security Dialogue, alla Free and Open Pacific Initiative. La Corea del Sud, leader mondiale della lotta contro il COVID e con un economia seconda solo al Giappone nell’intero continente, vedrebbe accrescere il proprio status politico in estremo oriente. In più il D-10 potrebbe essere la piattaforma ideale per implementare la nuova politica estera del possibile presidente Joe Biden, affiancando alle priorità economiche, il tema della democrazia e della difesa dei diritti umani. Il D-10 potrebbe diventare in breve tempo un forum ideale per difendere le democrazie dalle interferenze russe e cinesi, per coordinare le azioni per tutelare la libertà e la sicurezza della Rete, per implementare politiche comuni per il contrasto dei cambiamenti climatici, per costruire un sistema collettivo di sicurezza in grado far fronte alle nuove sfide dell’Indo-Pacifico. La prima crisi pandemica ha aumentato il disordine globale ed una cooperazione multilaterale efficace è più necessaria che mai: le grandi democrazie del pianeta non possono rimanere bloccate e devono trovare nuove vie innovative per affrontare le sfide più urgenti. Il D-10 può essere una soluzione. I tempi di un’Alleanza Trans-Atlantica e Trans-Pacifica fra le Democrazie sembrano dunque essere maturi.