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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
22.07.2022 Donbass: viaggio nel cuore della guerra
Cronache di Gianni Riotta, Rick Mave

Testata:La Repubblica - La Stampa
Autore: Gianni Riotta - Rick Mave
Titolo: «Sul fronte a Donetsk dove gli 'angeli' sfamano i dannati - Nel cuore della battaglia di Siversk: 'Basta guerra, ridateci le nostre vite'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/07/2022 a pag.22 con il titolo "Sul fronte a Donetsk dove gli 'angeli' sfamano i dannati", il commento di Gianni Riotta; dalla STAMPA, a pag. 19, con il titolo "Nel cuore della battaglia di Siversk: 'Basta guerra, ridateci le nostre vite' ", il commento di Rick Mave.

Ecco gli articoli:

Gianni Riotta: "Sul fronte a Donetsk dove gli 'angeli' sfamano i dannati"

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Gianni Riotta

«Lei ha letto Baudrillard?». La domanda del capitano Oleg Kirkitskiy arriva nitida, voce giovanile che i tonfi dell’artiglieria russa non smorzano. Le posizioni dei separatisti del Donbass e delle forze armate di Mosca nel Donetsk sono a mille metri dalla nostra, bombardata da giorni. La missione del capitano della polizia militare Kirkitskiy, 29 anni, è portare sotto il fuoco nemico cibo, acqua, medicine ai civili, bloccati nella terra di nessuno e anche oggi il suo gruppo viene attaccato, «quando sente l’eco sono i nostri a sparare -illustra Kirkitskiy, il tono di quando insegnava Scienze Politiche a Donetsk -altrimenti i russi. Proviamo a raggiungere il rifugio », ma prima che si riesca ad attraversare il vialetto di campagna, oltre la scuola, diroccata, dove vivono in cantina ventisette vecchi e bambini, Kirkitskiy incalza «Lei ha letto Huntington? E Fukuyama?». Sul cielo azzurro, fumo delle esplosioni grigio ferro. Le postazioni russe si intravedono dietro due collinette, che i soldati chiamano “Le Tette”, oltre russi, davanti ucraini. Per arrivare a Krasnohorivka e nel centro attiguo di Mariinka, il capitano Kirkitskiy e i suoi partono all’alba da Prokorsk, due camioncini pieni di viveri, contenitori d’acqua, farmaci, «difficile trovare insulina » e attraversano i campi di grano e girasoli, ad est, inceneriti dai missili. Praterie immense, punteggiate da proiettili infilzati nella terra nera, spighe bruciate in macabro pop corn, pane che mancherà in inverno. Kirkitskiy si inoltra cauto, «occhio alle mine, i russi non entrano, ma di notte i separatisti piazzano ordigni sui sentieri dei contadini». L’autista, Rustam Lukovsky, guida attento e, senza apparente motivo, sterza brusco via dall’asfalto, avventurandosi fuori strada, poi di botto torna sulla statale tortuosa evitando il viottolo di campagna. «Seguo gli alberi -sogghigna- i separatisti si proteggono tra i filari, se son troppo fitti devio». Un tornante li preoccupa, Rustam impugna la pistola guidando con la sinistra, Kirkitskiy un vecchio AK 47 sovietico, «più antichi sono meglio funzionano». Ha i caricatori decorati con nastri di colore diverso, secondo il tipo di pallottole, ma non fa sconti al generale sovietico Michail Timofeevi? Kalašnikov, che nel 1947 disegnò l’eterno Ak 47, «copiò i brevetti dai tedeschi, altro che genio». «Qui possono esserci agguati. Meglio prudenza, ma questa non è guerra da fucili. È guerra di artiglieria » dice il capitano e, come a punirlo per l’affronto a Kalašnikov, i russi sparano un colpo dopo l’altro. Sulla soglia del rifugio un cane abbaia, fedele ai profughi, si scende nello scantinato umido e buio. Plaid scozzesi coprono lettucci da campo, un lavabo, caricatori nelle prese multiple per tener viva l’esile connessione dei cellulari. Una anziana signora è stremata «non c’è gas, acqua, nulla, d’inverno geleremo o torneremo ai bracieri a carbone». Qui dimorano civili, ma l’artiglieria non si ferma, «basta che i droni vedano una nostra pattuglia passare tra gli alberi e ricominciano». Al primo silenzio torniamo fuori, Rustam Lukovsky raccoglie mele selvatiche e albicocche dagli alberi abbandonati, li divide ghiotto con i compagni, acidule le mele, dolci le albicocche, ma guai a dirlo, «la mela selvatica ucraina non ha pari!». Da una fattoria con il tetto crollato esce di corsa una ragazza, T-shirt Unicef, vive grazie ai pacchi di Rustam, «deve chiamarlo Angelo Bianco, gli ho dato io il soprannome, adesso lo chiamano tutti così». La divisione dei viveri, a Krasnohorivka eMariinka, si tiene sotto il bombardamento, una trentina di pensionati in coda a sobbalzare alle esplosioni, occhi sbarrati per le notti insonni, «acqua, acqua» invocano. Una vecchina curva, tremante, è l’ultima, i contenitori di plastica con l’acqua vitale son finiti, uno è caduto in terra, spaccandosi, e lei implora di prenderlo così, pieno a metà. Ma non riesce a portare lo scatolone con pasta, “macaroni”, lattine, riso, farina, troppo pesante, le sfugge di mano e si sfascia, scatolette a rotolare dispettose sul marciapiede. Piange, si aggiusta il fazzoletto da contadina sui capelli bianchi, una volontaria paziente raccoglie i viveri, li infila in una busta, solleva il flacone di acqua squarciato e la accompagna a casa, sguardo trepidante al cielo, eco colpi ucraini, niente eco colpi russi, ogni civile a scuola di artiglieria. «E allora, ha letto Baudrillard?» insiste il capitano Kirkitskiy in una pausa dell’attacco e stavolta sorrido io, gli parlo dei miei lontani studi di filosofia, quanto basta per ascoltare un’imprevedibile lezione in prima linea: «Per capire la politica di Putinvoi europei evocate Hitler o pensate a Stalin. Macché! Solo Baudrillard ha previsto la strategia del Cremlino, nel suo saggio “Simulacri e simulazioni” del 1981. Lo rilegga! Non conta la verità, non conta la realtà, contano i simulacri e le simulazioni che il Potere ne fa. “L’Ucraina è russa, i nazisti la governano, la Nato la spinge in guerra contro la Russia”, simulazioni, simulacri che i media del Cremlino rendono verosimili e che la disinformazione rilancia in Europa». Jean Baudrillard, arcano pensatore del mondo virtuale, e il suo pamphlet sui Simulacri tradotto da Pi-Greco, riappaiono d’incanto fra campi inceneriti, babushke affamate, Ak47, guerra. «Non lo dimentichi, fu Samuel Huntington stesso, lo studioso della “scontro di civiltà”, a dire che il primo conflitto culturale si combatté qui sul fiume Dnieper, la tregua di Andrusovo, 1667, la divisione con gli ortodossi. Guardi il fiume alle nostre spalle e la prima linea, dopo le Tette, ecco lo scontro di civiltà XXI secolo. Quanto a Fukuyama…» ma non c’è tempo per il teorico dellafine della Storia, Artem suona il clacson impaziente, mela in mano. A un posto di blocco i miliziani ci offrono pane e lardo, chiedo notizie, il caporale è sincero, «fronte stabile, offensiva russa critica sull’autostrada E40. Ci battiamo a Slovyansk e Bakhmut, dicono sia caduta non ci creda. Anche a Siversk e Lysychansk si combatte. Mancano armi. Dove sono? Mancano camion. Mandate aiuti! ». Non appena un soldato parla senza che lo sentano gli ufficiali, il bisbiglio è costante, «troppe armi son ferme tra Leopoli e Kiev, il presidente Zelensky le mandi subito qua, in prima linea». Dalle retrovie le polemiche politiche filtrano al fronte, rimpasto al governo a Kiev, guai degli alleati -chi avrebbe mai detto che tanti mi avrebbero chiesto se, caduto Draghi, i filorussi andranno al potere a Roma?-, l’attesa del contrattacco sperato prima dell’inverno. Alla stazione locale, un trenino imbarca profughi, Vitaliy, lacero, sporco, prova a salire, la guardia lo ferma “fai sempre storie, vai e poi torni, non sei mica in vacanza”, lui piagnucola, «a Lysychansk ho perso mamma e papà, sono invalido» poi bisbiglia «i nostri da Severodonetsk si ritiravano perché erano ubriachi…» e se la squaglia. Il tenente Y, «lasci perdere il mio nome», è in perlustrazione fra le rovine di Krasnohorivka e non la prende bene, «a Severodonetsk ho combattuto fino all’ordine di ritirarci, nessuno beveva, e sa cosa mi fa incazzare? Ho sfamato una famiglia, sbarrata in cantina, col mio rancio, per settimane, e da quando sono entrati i russi quelli postano sui social media “grazie, liberatori, fratelli”. Che farabutti». Ucraini e russi, prima e dopo l’Urss, vivono qui da generazioni, impossibile distinguerli. Sul sagrato di una Chiesa ortodossa russa, che mi chiedono di non identificare, il sacrestano riceve i militari ossequioso, «guardate i danni, tutto rovinato, le bombe…», ma appena gli girano le spalle spettegola «sono loro a colpirci, lavoro ucraino». Un soldato lo fissa storto, «entrassero i russi sarebbe lui il primo a portargli in omaggio pane e sale». Tra le rovine pencola una croce di legno, è nuda, senza fedeli. Quando rientriamo a Prokorsk, la capitana Oleksandra Havrylko si accerta sollecita che tutto sia ok, «ero a Mariupol durante l’assedio, poi mi hanno ordinato di partire. Avevo paura all’inizio della guerra, il nemico è formidabile, poi ho visto la terra bruciata, qui vecchine in bici per chilometri sotto le cannonate pur mettere insieme la cena e non ho più paura. Noi donne ufficiali possiamo chiedere di andare in retrovia, lavorando con Zoom. Ho deciso di rimanere al fronte. E lei, quando ritorna? ». In autunno spero, capitano. Oleksandra Havrylko si ravvia i capelli sospirando, «Autunno. Speriamo di esserci. Il Donbass ci sarà, speriamo anche noi».

Rick Mave: "Nel cuore della battaglia di Siversk: 'Basta guerra, ridateci le nostre vite' "

RickMavePhotography | Sedition
Rick Mave

Siversk è sotto assedio da giorni ma non cade, nonostante la propaganda dei separatisti della Repubblica popolare di Lugansk ne rivendichi il controllo. La nuova strategia degli ucraini è quella di svilire e stancare l'esercito nemico il più possibile, per poi scappare con mezzi e uomini come fatto a Severodonetsk e Lysychansk. Siversk è sotto attacco da nord-est, dove le truppe russe sono entrate in periferia, e da est dove cercano di arrivare alla strada che porta a Bakhmut - circa 40 chilometri di percorso in campo aperto - in modo da bloccarne i rifornimenti e asserragliare all'interno dell'area centinaia di militari ucraini nascosti tra gli edifici civili. Arrivare a Siversk è diventato sempre più pericoloso, ucraini e russi hanno intensificato i bombardamenti, la strada passa nel mezzo delle posizioni di artiglieria dei due contingenti; non ci sono più posti di blocco ucraini lungo il tragitto, si viaggia ad alta velocità. Man mano che ci si avvicina al paese – che prima della guerra contava circa undicimila abitanti e ora poche centinaia – il panorama cambia: mezzi blindati, autoambulanze e militari nascosti sotto gli alberi lungo la strada, campi di grano bruciati, un hangar ancora fumante con del grano visibile al suo interno e, forse, con delle armi nascoste. All'entrata del paese, dopo poche centinaia di metri, si arriva a un piccolo cimitero distrutto e a una pompa di benzina fatta a pezzi. Da qui si può andare in due direzioni: a sinistra verso la parte bassa, dove c'è il centro martoriato dall'artiglieria russa; a destra, dove, passato un piccolo ponte, ci si inerpica verso la parte collinare. Andiamo a trovare le persone che vivono negli scantinati – sono un centinaio e non vogliono andarsene – nella parte alta del paese, quella che si affaccia verso Lysychansk a nord-est, sulle posizioni dell'artiglieria russa. Qui non risuona più l'allarme antiaereo, la gente vive tra i sibili delle bombe; a nessuno interessa più da che lato arrivino, sono solo tutti attenti ad ascoltare quanto il loro «fischio» sia vicino per poter scappare nei rifugi. Si vive isolati dal mondo: da molti giorni manca qualsiasi connessione telefonica; in condizioni igieniche precarie: senza acqua corrente né potabile, non c'è elettricità né gas, si cucina per strada con della legna recuperata dalle macerie. Quando si chiede agli abitanti perché non scappino, rispondono che quella è casa loro e non avrebbero dove altro andare. C'è tanto fatalismo e poca retorica nelle loro parole, sono perlopiù persone anziane che vivono in cantine buie e umide da mesi, che non parteggiano più per russi o ucraini, ma solo per la fine di questa loro condizione di vita disumana. Certo, c'è anche chi aspetta i russi: un signore all'entrata di un rifugio dice che secondo lui sparano solo gli ucraini sia da un lato che dall'altro, e mentre lo dice fa una smorfia di fastidio verso il militare ucraino, giovanissimo, che gli allunga del pane. E c'è chi come Alina, che vive rifugiata nello scantinato della sua casa con due nipoti, ascolta la radio di continuo e quando le chiediamo se sia radio russa o ucraina, afferma con orgoglio: «Ucraina, solo Ucraina». Siversk non è cruciale per l'esercito ucraino e come confermato dai soldati della Guardia Nazionale incontrati a Bakhmut, il paese è strategicamente sacrificabile. L'aria tra i militari è tesa, mentre chiediamo loro della situazione, all'improvviso dicono di metterci al coperto sotto gli alberi per il passaggio sopra di noi di un drone russo; sono nervosi e stanchi, aspettano ordini, sanno che potrebbero cadere nella morsa dei russi qualora questi riuscissero a prendere possesso della strada a est del paese. D'improvviso un militare su di giri comincia a inveirci contro, con un sorriso beffardo; vorrebbe andassimo via. Ci viene in soccorso un giovane soldato – ex programmatore informatico –, i due discutono, ma è meglio allontanarsi. Torniamo a salutare i civili che abbiamo incontrato più volte e con cui, in un modo o nell'altro, si è instaurato un rapporto; stanno consumando una zuppa, ce ne offrono ma rifiutiamo, insistono per regalarci del lardo sotto sale, il famoso salo ucraino, che non possiamo non accettare; una donna ci affida un messaggio da inviare alla figlia a Kiev. Ci salutiamo. Ci aspettano quaranta chilometri sotto le bombe, ci dicono che è una lotteria; noi aspettiamo un momento di calma apparente per metterci in macchina e farci coraggio. Scendendo dalla parte alta ci fermiamo a salutare Alina: vorrebbe dello zucchero e del pane per la prossima volta.

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