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La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
22.01.2022 Lo Stato islamico assalta una prigione in Siria
Cronaca di Gabriella Colarusso, analisi di Daniele Raineri

Testata:La Repubblica - Il Foglio
Autore: Gabriella Colarusso - Daniele Raineri
Titolo: «Siria, l’Isis va all’assalto del carcere dei jihadisti. Oltre sessanta i morti - Cosa vuol dire quando lo Stato islamico attacca una prigione in Siria»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/01/2021, a pag.12, con il titolo "Siria, l’Isis va all’assalto del carcere dei jihadisti. Oltre sessanta i morti", la cronaca di Gabriella Colarusso; dal FOGLIO, a pag. 2, con il titolo "Cosa vuol dire quando lo Stato islamico attacca una prigione in Siria", l'analisi di Daniele Raineri.

Ecco gli articoli:

L'Isis attacca la prigione di Gweiran in Siria, decine di morti (fgje)
La prigione Al Sinaa di Gweiran

LA REPUBBLICA - Gabriella Colarusso: "Siria, l’Isis va all’assalto del carcere dei jihadisti. Oltre sessanta i morti"

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Gabriella Colarusso

Sconfitto tre anni fa con una massiccia campagna di combattimenti di terra e bombardamenti, lo Stato Islamico è tornato a farsi sentire, ieri, in Siria, in quella che secondo gli osservatori più attenti è stata la maggiore operazione militare del gruppo terroristico dalla battaglia di Baghuz, sua ultima ridotta. Nella notte tra giovedì e venerdì, decine di jihadisti, secondo fonti curde, hanno assaltato la prigione Al Sinaa di Gweiran, un paio di chilometri a Sud della città di Hassakeh, nel Nord-Est della Siria: è una scuola che era diventata base dell’Isis e poi è stata convertita in carcere dai curdi delle Sdf, le Forze democratiche siriane, che da quasi tre anni gestiscono con pochi mezzi circa 12mila prigionieri jihadisti. Ad Al Sinaa ce ne sono più di 3mila, è la prigione con la più alta concentrazione di terroristi in Medio Oriente, vivono ammassati in celle senza servizi igienici né spazi adeguati, isolati dal mondo, in attesa di processi che non si sa se saranno celebrati e da chi. Sono per lo più stranieri, francesi, britannici, tunisini, sauditi, ma sono politicamente radioattivi e nessun governo li rivuole indietro. Già a novembre i curdi avevano sventato un tentativo di assalto per liberarli. L’operazione di venerdì è stata meglio organizzata. I jihadisti hanno piazzato un’autobomba davanti al carcere mentre i detenuti all’interno inscenavano una rivolta. A centinaia sono riusciti a fuggire, non è chiaro quanti, le Sdf dicono di averne ri-catturati 110. Per tutta la giornata di ieri sono andati avanti combattimenti tra curdi e miliziani dell’Isis nascosti in decine di abitazioni civili nei quartieri a ridosso della prigione, ci sono voluti i raid aerei della Coalizione per liberare molte case. Il bilancio delle vittime è ancora incerto, secondo l’osservatorio siriano per i diritti umani con sede in Gran Bretagna sarebbe di almeno 67 morti, 23 tra le forze di sicurezza curde, 39 tra militanti dell’Isis e cinque tra i civili. Più o meno nelle stesse ore dell’attacco ad Hassakeh, un’altra cellula assaltava una caserma dell’esercito a nord di Baghdad, in Iraq, uccidendo 11 soldati iracheni. Le Sdf e la coalizione anti-Daesh a guida americana hanno spazzato via la pretesa fanatica di costruire uno Stato islamico, ma non l’ideologia jihadista. In diverse zone della Siria e dell’Iraq resistono decine di cellule dormienti e negli ultimi mesi hanno intensificato gli attacchi. Per gli esperti di antiterrorismo, uno di problemi principali sono proprio i miliziani detenuti nelle prigioni. L’attacco a Sinaa è un messaggio ai “fratelli”: l’Isis non si è dimenticato di voi, tornerà per liberarvi. Tra il 2012 e il 2013, l’allora Stato Islamico dell’Iraq condusse una pressante campagna per liberare dalle prigioni irachene decine di miliziani, si chiamava “Abbattere i muri”. Fu il preludio alla conquista di Mosul e alla nascita del cosiddetto Califfato che ha ridotto in povertà e macerie vaste zone dell’Iraq e della Siria prima di essere sconfitto.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Cosa vuol dire quando lo Stato islamico attacca una prigione in Siria"

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Daniele Raineri

Un preambolo che parte da dieci anni fa per arrivare a una notizia di due notti fa in Siria, ma si capirà il perché. Nell'estate 2012 in Iraq l'allora capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, lanciò una campagna grandiosa per risollevare le sorti del gruppo che comandava - che ancora non si era ripreso dalla crisi profonda del 2010. La campagna si chiamava "Rompere i muri" e consisteva in una serie di attacchi organizzati alle prigioni irachene per liberare i "fratelli" detenuti. La campagna aveva un doppio scopo: andarsi a riprendere i combattenti permetteva allo Stato islamico di riempire i vuoti nei suoi ranghi con persone esperte e motivate e questo era un bene, perché le reclute erano poche e acerbe, e inoltre dava un senso di sicurezza agli uomini di Baghdadi, perché lo Stato islamico non abbandonava i condannati nelle celle, li andava a liberare appena le condizioni lo permettevano. La campagna coincise con l'ascesa dello Stato islamico e culminò nel luglio 2013 con un assalto di grandi proporzioni alla prigione di Abu Ghraib, resa famosa quasi dieci anni prima dallo scandalo delle foto delle torture americane -ma ormai non c'erano più soldati americani da tempo in quella regione. Lo Stato islamico assaltò la prigione con due autobomba e una squadra mortai, liberò in massa i detenuti e filmò tutto per uno di quei video di propaganda che in quegli anni attiravano nuove reclute da tutto il mondo.

Da allora gli attacchi alle prigioni sono il segnale che lo Stato islamico nel suo oscillare perpetuo fra i periodi di clandestinità e i periodi di trionfo ha di nuovo raggiunto un livello operativo da temere. Giovedì notte la fazione terroristica ha attaccato con un'autobomba e alcuni gruppi di fuoco il carcere di al Hasake, nella Siria orientale, dove le forze curde sorvegliano quasi quattromila irriducibili dello Stato islamico catturati durante la battaglia finale di Baghouz nel marzo 2019 - di almeno cinquanta nazionalità diverse, europei inclusi. All'inizio i curdi hanno detto che tutto era sotto controllo e che non c'era stata alcuna evasione, ma non era così. Almeno ottanta prigionieri sono fuggiti, tra loro anche tre leader di primo piano, i combattimenti sono durati tutta la notte e anche tutto ieri. Quando il Foglio aveva visitato la prigione, nel febbraio 2020, i detenuti ammassati nelle celle avevano detto che le regole della prigione impedivano alle notizie dall'esterno di filtrare fino a loro. Erano del tutto all'oscuro di quello che succedeva fuori. A volte, raccontavano le guardie curde, uomini dello Stato islamico si avvicinavano in automobile a portata d'orecchio dal carcere e sparavano colpi in aria, come a dire a chi era dentro: resistete, prima o poi arriveremo.

E' successo. I gruppi di fuoco dello Stato islamico che sono rimasti nella zona avevano il compito di dare tempo ai detenuti di fuggire. Il terreno attorno a al Hasake è arido e pianeggiante, non è facile trovare un nascondiglio. La scelta di gennaio per l'assalto sembra ovvia. D'estate quella pianura sarebbe asfissiante per gli evasi in fuga. Dopo poco sono arrivati gli elicotteri Apache degli americani, a sparare bengala per illuminare l'area e a prendere di mira gli uomini dello Stato islamico che nel frattempo si erano trincerati nelle case attorno alla prigione e ci sono stati anche raid aerei con bombe. Le forze curde hanno chiesto a tutti gli abitanti della città di restare chiusi in casa, per facilitare le operazioni. Nei combattimenti, durati tutta la giornata, sono morti almeno quaranta terroristi e venti curdi. L'occasione è così speciale che lo Stato islamico non ha pubblicato il suo bollettino settimanale che di solito esce il giovedì sera, al Naba, perché è probabile che voglia pubblicare un'edizione speciale con le notizie sull'operazione. Lo Stato islamico in Siria da mesi tiene un profilo basso e rinuncia a rivendicare molte operazioni, per dare una finta impressione di debolezza. Dal punto di vista della lotta al terrorismo quest'attacco alla prigione di al Hasake è come una fuga radioattiva da un reattore, un evento che non doveva succedere. Ma è dal 2019 che i curdi dicono di non potersi assumere la responsabilità di fare la guardia a migliaia di terroristi molto pericolosi in mezzo a un'area non sicura.

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