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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio-Il Giornale-L'Opinione-La Repubblica-Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.11.2012 Legittima Difesa: Commenti
di Daniele Raineri,Giulio Meotti,Carlo Panella,Vittorio Dan Segre,Stefano Magni,Alberto Stabile,Sergio Romano

Testata:Il Foglio-Il Giornale-L'Opinione-La Repubblica-Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri-Giulio Meotti-Carlo Panella-Vittorio Dan Segre-Stefano Magni-Alberto Stabile-Sergio Romano
Titolo: «Vari»

In questa pagina i commenti:

Il Foglio-Daniele Raineri: " La diplomazia dei missili "

Israele si difende

Roma. La capacità militare di Hamas sta declinando. Ieri per la seconda notte consecutiva c’è stata una pausa di sette-otto ore nel lancio di razzi contro il sud di Israele dalla Striscia di Gaza. Il numero totale dei razzi sparati da Hamas e dagli altri gruppi scende ogni giorno: 250 sabato, 156 domenica, 121 ieri, al momento in cui questo giornale è andato in stampa. Al sesto giorno di attacchi, lo scemare dei lanci è il segno che la possibilità di Hamas di tenere testa alle ondate di bombardamenti che arrivano dall’aviazione israeliana sta venendo meno, ma il gruppo palestinese riesce ancora a colpire a caso i centri residenziali oltre il confine. Hamas sostiene anche di avere sparato dieci missili terra-aria contro gli aerei – è una novità tattica su cui ha investito speranze fortissime, tanto da avere già dato la notizia falsa dell’abbattimento di un caccia e di un elicottero. Una fonte non meglio qualificata da Gerusalemme parla al Times of Israel e usa una metafora immediata da comprendere per descrivere la dinamica dei negoziati che in queste ore procedono a tentoni al Cairo: “Hamas le sta prendendo sul serio e sta cercando una scala per scendere dall’albero. Le dichiarazioni di Meshaal (Khaled, capo del politburo di Hamas, ndr) su Israele che sta implorando il cessate il fuoco sono vere come quelle sull’abbattimento di un F-16 israeliano o sul razzo sparato contro la Knesset” (il Parlamento di Gerusalemme). Dopo più di 1.400 strike, il numero dei morti dentro la Striscia è salito a oltre 100 per al Jazeera, a 95 per la Bbc e a 91 per il New York Times, che cita come fonte il ministero della Sanità palestinese. L’operazione “Pilastro di Difesa” non è più così precisa come all’inizio nel distinguere i civili dai combattenti – un punto a cui i portavoce dell’esercito israeliano tengono con particolare orgoglio. Ci sono state più vittime negli ultimi due giorni che nei primi quattro, forse perché – è un’ipotesi – gli obiettivi nella Striscia non sono più quelli studiati con attenzione per mesi, la lista dei cosiddetti “quality target” si è ormai esaurita, ora la situazione cambia di continuo, l’aviazione si adatta a quello che succede sul terreno e la probabilità di errori sale. Nel primo pomeriggio di ieri, un bombardamento di precisione ha ucciso un leader del Jihad islamico che si nascondeva al secondo piano della Sunrise Tower, l’edificio alto che a Gaza ospita i media, anche quelli internazionali. La fazione del Jihad islamico potrebbe non obbedire a un cessate il fuoco ordinato da Hamas, perché segue istruzioni dal governo dell’Iran – che nel frattempo tenta di agitare gli abitanti della Striscia con notizie false. La tv di stato accusa l’emiro del Qatar di avere portato in dono ai leader di Hamas, durante la recente visita, oggetti con radiospie israeliane – così avrebbero ucciso il lader dell’ala militare Ahmed al Jaabari. Ieri ha soffiato sul fuoco della tensione dicendo anche che i soldati egiziani stanno ammassandosi al confine, ma nemmeno questo è vero. I lanci dei missili Fajr-5 contro Tel Aviv aprono una questione diplomatica, su cui per ora i media stanno sorvolando. I Fajr- 5 sono prodotti dalla Aerospace Industries Organization, o Gruppo industriale Sanam, un’industria di stato controllata dal ministero della Difesa dell’Iran. L’Iran ha negato di avere trasferito armi ai gruppi nella Striscia di Gaza, ma è stato smentito dai fatti – i Fajr lanciati verso nord – e anche dai proclami del Jihad islamico, che ha dichiarato a chiare lettere di averli usati. L’Iran trasferisce missili a lunga gittata a gruppi che Stati Uniti e Unione europea hanno dichiarato “terroristi”. Ma la questione per ora è come se fosse congelata. Vale anche per il Sudan, da cui i missili passano. Inoltre, come nota il New York Times, il Fajr-5 pesa una tonnellata ed è lungo 10 metri, “come può passare inosservato per ponti e posti di blocco in Egitto?

Il Foglio-Giulio Meotti: " I due grandi occhi di Israele"”.

 

Israele si difende

Roma. La guerra fra Israele e Hamas ha già stabilito numerosi record, come i missili su Gerusalemme che mancavano dal 1971. Non si ricordava neppure che le autorità israeliane dovessero modificare, come è stato ordinato ieri, le tratte dei voli di linea in arrivo e in partenza dall’aeroporto internazionale Ben Gurion. La minaccia missilistica da Gaza resta alta. Se tre anni fa, durante “Piombo Fuso”, Hamas lanciò 600 razzi in ventidue giorni di guerra, nei primi quattro giorni di “Pilastro di difesa” ne sono caduti su Israele già 550. E’ una guerra che Israele combatte con due occhi speciali, uno da terra e uno dal cielo. Dei Patriot americani gli israeliani non hanno una buona memoria: durante la prima guerra del Golfo, quando l’allora primo ministro Yitzhak Shamir si teneva la testa fra le mani corrucciato e il ministro degli Esteri Moshe Arens trattava con gli americani la possibilità che Gerusalemme compisse un gesto simbolico contro Saddam Hussein, i Patriot non riuscirono a distruggere nemmeno uno degli Scud che l’Iraq lanciò contro Tel Aviv. Vent’anni dopo, un nuovo sistema anti missile (“Iron Dome”, la cupola d’acciaio) ha già intercettato 351 missili palestinesi che altrimenti avrebbero provocato un gran numero di vittime civili. “E’ il nostro piccolo miracolo”, ha detto il colonnello Avi Minzer. La cupola ha avuto finora una riuscita dell’88 per cento. Una performance incredibile, considerato che è in funzione da meno di un anno. I militari israeliani addetti a questa missione sono anche noti come “cacciatori di missili”. Si calcola che se anche soltanto il dieci per cento dei missili intercettati fosse caduto nei centri abitati, Israele oggi conterebbe fra i 50 e i 60 morti. I tre morti a Kiryat Malakhi sarebbero stati la conseguenza di un malfunzionamento della cupola. Il maggiore giornale israeliano, Israel Hayom, ha scritto che la cupola sarebbe l’unico motivo per cui ancora il primo ministro, Benjamin Netanyahu, non ha ordinato l’invasione via terra.Iron Dome, che il premier ha chiamato “miracolo tecnologico”, costa un’eresia rispetto ai missili palestinesi: ogni proiettile di Iron Dome costa a Israele 50 mila dollari, mentre i razzi di Hamas non superano le poche centinaia di dollari (ogni batteria antimissile vale cinquanta milioni di dollari). Per questo il sistema entra in funzione soltanto quando calcola che il proiettile palestinese cadrà in una zona abitata. Iron Dome, paragonato alla fionda con cui – secondo la Bibbia – Davide sconfisse il gigante Golia, è un progetto congiunto dell’azienda parastatale israeliana Rafael – i cui profitti sono schizzati alle stelle nell’ultimo anno – e della Raytheon Company, la compagnia americana leader nei missili teleguidati. Iron Dome funziona così: un radar, costruito dalla Elta, avvisa del missile, poi un programma informatico calcola il luogo della caduta e a seconda della mappa tracciata il missile entra in funzione. Israele lo ha ribattezzato “Homa”, che in ebraico significa muraglia. Il cuore del progetto è nella base di Palmachim, sorge presso Ashdod e lì primi ministri e generali assistono ai test dietro alla “finestra di Golda”, dal nome dell’ex primo ministro israeliano Meir che amava prendere parte alle esercitazioni. L’altro “occhio” d’Israele nella guerra di Gaza è a dodicimila metri di altezza. E’ un drone noto in ebraico come “Eitan”, il robusto (“Heron Tp”, nella denominazione inglese). E’ il vanto della tecnologia israeliana. Da trent’anni Gerusalemme è all’avanguardia nella realizzazione di aerei senza pilota e il dottor David Harari ricorda ancora le risate nell’establishment militare israeliano quando lui sollevò per primo l’idea di velivoli senza pilota. Eitan è lungo tredici metri e ha una apertura alare di ventisei metri (come quella di un Boeing 737). Messo a punto per l’eventuale guerra contro l’Iran, il drone può raggiungere zone distanti centinaia di chilometri da Israele. Il drone raccoglie informazioni sulle piste di lancio di Hamas e le bombarda chirurgicamente. Il velivolo che ha ucciso Ahmed Jaabari, capo militare di Hamas, è l’evoluzione del modello usato nel 1992 per assassinare Abbas al Musawi, capo di Hezbollah, come rappresaglia per l’assassinio di tre reclute israeliane, sgozzate da un commando arabo. I droni sono scelti da Israele per le missioni “3D”: dull, dirty and dangerous. Cupe, sporche e pericolose. Non creano problemi di coscienza ai piloti che partecipano alle missioni di assassinio contro i capi di Hamas, con eventuali perdite di civili. Il drone israeliano è usato anche nelle montagne afghane per dare la caccia ai talebani.

Il Foglio-Carlo Panella:" Se Gerusalemme non vince le guerre"

Israele si difende

Roma. Tre guerre “non vinte” non sono tre sconfitte, ma pesano su un paese assediato come Israele. Pesano su tutte le forze politiche israeliane, che le hanno di volta in volta gestite. Nelle ore in cui si decide se la guerra deflagrerà, o sarà congelata sul nascere, il bilancio delle due guerre precedenti proietta un’ombra inquietante sul futuro. Israele “non vinse” la guerra del Libano scoppiata il 12 luglio 2006 e chiusa con l’accettazione della risoluzione dell’Onu 1.701. Il governo di Gerusalemme accettò per la prima volta, che la sicurezza a ridosso dei suoi confini fosse garantita da una forza internazionale. Fu una scelta obbligata dal momento che l’Idf non riuscì a schiantare la forza militare di Hezbollah. Il bilancio non è positivo per Israele nemmeno per quel che riguarda l’operazione Piombo Fuso del 2008: dopo tre anni, il Jihad islamico e Hamas hanno ricostruito gli arsenali e ora minacciano addirittura Gerusalemme e Tel Aviv. Lo stesso esito è prevedibile per l’operazione Pilastro di Difesa in corso, sia che prosegua sia che si arrivi a una tregua.Israele è in grado di fiaccare le aggressioni di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano soltanto per un arco di tempo limitato, ma la loro minaccia alla sicurezza di Israele è, allo stato attuale, ineliminabile. La responsabilità prima di questo scenario è della comunità internazionale che nulla ha fatto per imporre il disarmo di Hezbollah (è il fallimento di Unifil), come nulla ha fatto per imporre a Hamas la cessazione del lancio dei razzi su Israele (dodicimila dal 2006!). Il sigillo di questa responsabilità è stato messo dallo stesso presidente americano, Barack Obama, che ha ammesso il fallimento del suo piano di pace tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese che, verboso e confuso quale era, altra sorte non poteva avere. Israele non ha responsabilità di questo quadro intollerabile, perché chi minaccia lo stato ebraico non persegue affatto l’obiettivo strategico della nascita di uno stato palestinese – passibile di trattativa – ma l’“eliminazione dell’entità sionista”, come Hezbollah, Hamas e il filoiraniano Jihad islamico dichiarano senza equivoci. Israele ha un’unica responsabilità: col governo di Benjamin Netanyahu ha aumentato il suo isolamento internazionale, in primis a causa del veto del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, a chiudere la vicenda della Mavi Marmara con la Turchia (nel blitz delle forze israeliane sulla nave che voleva violare l’embargo di Gaza morirono nove persone), ex fondamentale alleato in campo islamico, come pure era stato concordato tra i due governi. La cronicità irrisolvibile delle minacce a Israele non è più tollerabile, nemmeno da un occidente ignavo. Un domani prossimo essa diventerà incontenibile e mortale con l’acquisizione da parte dell’Iran della bomba atomica, sotto il cui ombrello – anche se non venisse lanciata – l’aggressività militare di Hamas e di Hezbollah si moltiplicherà per mille. Questo è lo scenario immanente. Questa la questione di cui America ed Europa devono prendere atto: l’impossibilità per Israele di disarmare in modo risolutivo Hamas e Hezbollah – purtroppo verificata nei fatti – si replicherà anche dopo un suo eventuale “strike” contro i siti nucleari dell’Iran? Basteranno le pressioni di Stati Uniti e Unione europea sul presidente egiziano Mohammed Morsi – che pure, a oggi, nonostante l’aggressività verbale, si comporta in modo equilibrato – per garantire nei fatti, non a parole, quella sicurezza di Israele che le sue Forze armate non riescono a perseguire? Non basteranno, è ovvio. Israele è in pericolo. Come sempre, più di sempre. Se l’occidente non ne prende atto, si arriverà al dramma.

Il Giornale-Vittorio Dan Segre:" L'Egitto di Morsi ora vuole una 'tregua-lampo'

Israele si difende

Quando tuonano i cannoni non è saggio fare previsioni ma le forze in campo puntano a far tacere le ar­mi in 48 ore. Tanto che ieri sera il go­verno israelia­no si è riunito per esa­minare la proposta di tregua egizia­na.
Ma anche altri fatti vanno in questa direzione. Eccoli:
A Mentre l’ambasciatore
di Israe­le è tornato in patria un inviato è partito per il Cairo. Il canale di co­municazione e negoziato passa da quello diplomatico troppo visibile a quello dell’intelligence.
B La
notizia di un impegno preso da Netanyahu con Obama a non im­piegare le truppe di terra appare lo­gi­ca nonostante gli schieramenti of­fensivi. Farlo sarebbe per Israele perdere i vantaggi politici sinora ot­tenuti c­olpendo le infrastrutture mi­litari di Hamas.
Ma evitare l’invasio­ne diventa sempre più difficile. Mor­te e vendetta hanno una loro logica.
C Hamas sta cambiando la sua of­fensiva
psicologica. Dal momento che il «bombardamento» di Tel Aviv e di Gerusalemme si è rivelato inefficace (il traffico aereo all’aero­porto di Ben Gurion continua co­me il movimento turistico) non ba­stano più i simbolici lanci di missili su Tel Aviv e Gerusalemme. Ora lo scopo è quello di paralizzare il ne­mico obbligando milioni di israe­liani a vivere nei rifugi, colpendo l’economia. Cosa vera se il conflit­to si prolunga.
D L’azione diplomatica si concen­tra
ora sull’Egitto. Il rifiuto di Ha­mas ( e dei gruppi islamici in compe­tizione con i Fratelli musulmani) ha indebolito il presidente egizia­no che si dichiara protettore dei pa­lestinesi. Ha problemi maggiori e più immediati in casa col ritiro dei delegati laici e copti dalla commis­si­one per la redazione della costitu­zione.
Questo rinnova la tensione coi militari. Morsi ha bisogno di un successo palese e immediato.
E Obama
e Netanyahu sono d’ac­cordo nell’accordarglielo. Ma non sul prezzo. Hamas chiede in cambio del cessate il fuoco l’impegno israe­liano a cessare gli attacchi mirati contro i suoi leader. Israele chiede il diritto di portare a termine l’offensiva aerea (ci sono anco­ra almeno 200 «pun­ti » da distruggere) ed eventualmente di rilan­ciarla se il lancio dei missili da Gaza continua. Morsi vuole la cessa­zio­ne rapida dei bombardamenti ae­rei e forse la fine del blocco di Gaza.
F Il fronte arabo islamico non è riu­scito
come in passato ad ottenere una rapida convocazione del Con­siglio di sicurezza. Certi media anti israeliani sono meno aggressivi es­se­ndo riconosciuto il diritto di Isra­ele a difendersi, negato in passato. La rielezione di Obama così paven­tata da molti in Israele appare me­no pericolosa per la destra israelia­na che nel passato.
G L’effetto
del sistema missilistico ­anti missilistico sviluppato da Israele ha confermato la sua superiorità tec­nologica. Ha sostenuto il morale in­terno che i missili di Gaza sembrava­no incrinare; ha dimostrato a Hamas, a Hezbollah e so­prattuttoall’Iranladiffi­coltà di sviluppare la loro costosa strate­gia mis­silistica di an­nientamento del ne­mico sionista.
H Di nuovo in que­sto mo­mento c’è l’ar-roventata

discussio­ne - non solo in Egitto ­ fra i partigiani delle vecchie politiche anticolonialiste, anti oc­cidentali, anti israeliane e coloro che ritengono la promozione della causa palestinese pretesto dei vec­chi regimi per ritardare lo sviluppo economico e sociale delle masse.
È presto per sapere se da questo calderone in ebollizione nascerà qualcosa di positivo. Ma qualcosa di nuovo certo sì.

L'Opinione-Stefano Magni:" Le prospettive"

Israele si difende

In questo fine settimana, il governo israeliano ha fatto di tutto per contenere la reazione militare. Nonostante la mobilitazione di 30mila riservisti, per tre giorni non è scattata l’offensiva di terra contro Gaza, pur di fronte ad una sempre più aggressiva campagna di bombardamenti condotta da Hamas, con razzi che arrivano sino a Tel Aviv e Gerusalemme. Ai razzi, l’aviazione risponde con le bombe. Anche ieri sono stati colpiti 80 obiettivi nella Striscia di Gaza. In totale sono 1350 i raid aerei dall’inizio delle ostilità, uno dei quali ha portato alla distruzione dello stato maggiore di Hamas. Contenendo la reazione alla sola campagna aerea, Israele conta che la diplomazia produca una tregua. Ma i segnali degli Stati vicini non sono incoraggianti. L’opinione pubblica araba (e gran parte di quella occidentale) è bombardata da una potente campagna mediatica filo-palestinese: si mostrano le immagini solo delle distruzioni e delle vittime civili a Gaza (95 i morti, ma non sono tutti civili), si parla dei raid aerei israeliani come di un “genocidio”, mentre vengono chirurgicamente rimossi i lanci di razzi di Hamas. Già sono stati scovati casi di vera e propria disinformazione. Giusto per fare un solo esempio significativo: la foto di tre bambini “di Gaza” morti e coperti di sangue, in realtà, era stata scattata in Siria nei mesi scorsi. In senso lato: si sta affermando una narrativa in cui l’aggressore e l’aggredito sono scambiati. Si spaccia Israele per attaccante, volendo dimenticare che quella dello Stato ebraico è una reazione seguita a un intenso e costante lancio di razzi palestinesi. Questa martellante campagna di informazione e disinformazione filo-palestinese è sia la causa che l’effetto dell’odio contro lo Stato ebraico, condiviso soprattutto dai Paesi mediorientali. Non c’è voluta molta opera di persuasione per indurre il premier islamico della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, a definire pubblicamente Israele «uno Stato terrorista». Lo ha fatto, comunque, per accontentare un’opinione pubblica sempre più inferocita contro l’ex alleato israeliano. L’Egitto è al lavoro per far cessare le ostilità. Ma anche da quelle parti, l’opinione pubblica è sempre più violentemente anti-sionista, tanto da voler la guerra contro il vicino orientale. Un sondaggio condotto da Israel Project rivela infatti che il 77% degli egiziani voglia cestinare il trattato di pace con Gerusalemme: «Il trattato di pace con Israele non è più utile e deve essere dissolto». Fino a tre anni fa, solo il 25% degli egiziani pensava in questi termini. Dallo stesso sondaggio risulta anche che l’87% degli intervistati (contro il 41% di tre anni fa) voglia che l’Egitto si doti della bomba atomica, il 62% vorrebbe un’alleanza con l’Iran e giudica “un amico” il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Il 61% vorrebbe che il Cairo aiutasse Teheran a costruirsi le sue armi nucleari. Questo sondaggio suggerisce che, dopo la rivoluzione contro Mubarak, gli egiziani vedrebbero di buon occhio una nuova guerra contro Israele. Anche nucleare se dovesse essere il,caso.

 

La Repubblica-Alberto Stabile: " Alla guerra prima del voto la scommessa di Netanyahu apre il fronte delle elezioni"

 

 Israele si difende

Che  Alberto Stabile soffra di antipatiia nei confronti di Israele non è una novità. Lo dimostra  il commento di oggi, astioso e fazioso quanto altri mai. In quanto all'ultra destro Lieberman, come lui lo chiama, si legga l'analisi di Boffa sul Foglio di oggi, così almeno apprende qualcosa sulle capacità del Ministro degli Esteri israeliano, visti i risultati del suo incontro con Putin. E valuti anche il sondaggio di Haartez, l'84% dei cittadini israeliani è con Bibi.

GERUSALEMME
— Il Consiglio dei Nove, il gabinetto ristretto che aveva deciso in gran segreto la guerra contro Hamas, s’è ritrovato durante la notte per valutare la tregua. Perfino Avigdor Lieberman, l’ultradestro ministro degli Esteri, dice di preferire a questo punto una “soluzione politica”. L’opinione pubblica comincia a farsi sentire. Gli editorialisti temono che l’operazione di terra non serva che a versare altro sangue e stavolta, inevitabilmente, anche quello dei soldati israeliani. I gruppi pacifisti si mobilitano contro “la guerra elettorale” di Netanyahu. Il premier che s’è vantato di non aver mai mobilitato l’esercito durante il suo mandato cominciasi a sentire la pressione.
Eppure, con l’84% degli israeliani al proprio fianco, secondo un freschissimo sondaggio di Haaretz, e la totalità della classe politica al seguito, Benyamin Netanyahu potrebbe trasformare il tempo che resta fino alle elezioni del 22 gennaio in una marcia trionfale. Ma c’è un ostacolo assai rischioso sul suo cammino: anche se nelle ultime ore si sono moltiplicate le voci di una tregua imminente, la seconda guerra di Gaza contro Hamas non è finita. Il
Consiglio dei Nove (lui Barak, Lieberman, il ministro dell’Interno Ishay, quello degli Affari strategici Moshè Yaalon, più il capo di Stato Maggiore Katz e i responsabili dei 3 principali servizi di sicurezza) devono trovare il mondo di uscirne senza dare l’impressione di una precipitosa marcia indietro.
Si contavano i minuti mancanti all’invasione, i carri armati avevano già accesso i motori, ma piuttosto che il campo di battaglia di Gaza, s’è aperto quello che un grande giornalista israeliano, Nahum Barnea, ha definito il “terzo fronte” della guerra: non quello in cui i due nemici si affrontano armi alla mano, né quello interno delle vittime civili, ma il fronte politico, dove le operazioni militari producono i loro effetti e incidono anche sulle fortune personali
di chi le ha decise. «In termini politici — sostiene Barnea — una manovra militare è sempre un rischio. Quello che appare come un’azione gloriosa può trasformarsi in un disastro elettorale». In parole povere, la sua “guerra elettorale” Netanyahu l’ha decisa, ordinando l’uccisione del capo militare di Hamas, Ahmed Jaabari, adesso è costretto a cercare una tregua altrettanto elettorale, possibilmente alzando le dita a V in segno di vittoria. Guerra ed elezioni, dunque, una coincidenza che in un paese come Israele s’è presentata molte volte.
Per restare nell’arco dell’ultima generazione, si potrebbe cominciare citando il caso delle elezioni del giugno 1981 che videro il leader laburista Shimon Peres, l’attuale presidente, sfidare il premier conservatore Menachem Begin. Il voto era stato fissato per la fine di giugno. Peres conduceva nei sondaggi. Tre settimane prima, il 7 giugno Begin ordinò l’Operazione “Babilonia”, con cui venne chiamato in codice il bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osyrak. Begin stravinse il duello elettorale.
Nel 1996 Shimon Peres, succe-duto provvisoriamente a Yitzhak Rabin, ucciso il 5 Novembre dell’anno prima, deve affrontare l’astro nascente del Likud, un Netanyahu che non ha ancora 45 anni. Il paese è sconvolto da un’ondata di attentati suicidi, la strategia di Hamas contro lo Stato ebraico, ma anche contro gli accordi di Oslo firmati da Yasser Arafat. Per tacitare l’opinione pubblica allarmata, l’11 aprile Peres ordina l’operazione “Grapes of Wrath”, i frutti dell’ira, contro gli Hezbollah libanesi.
Ecco un esempio di quel fattore di rischio, d’imprevedibilità della guerra di cui parla Barnea. Il 18 Aprile l’artiglieria israeliana bombarda il campo profughi di Cana, gestito dalle Nazioni Unite, muoiono 111 rifugiati, e l’operazione si conclude in un disastro politico-diplomatico. Netanyahu vince per soli 15mila voti.
Neanche il consenso popolare che accompagna, all’inizio, certe operazioni militari può essere considerato una garanzia. All’inizio della Seconda guerra del Libano (luglio-agosto 2006), la decisione presa dal primi ministro del tempo, Ehud Olmert,godeva dell’80% dei consensi. Un mese dopo di quel consenso non c’era più traccia. Pesava, invece, la morte di oltre 100 soldati.
Talvolta, la “tenuta” politica non è garantita neanche in caso di vittoria. La prima guerra contro Hamas e contro Gaza, voluta da Ehud Olmert, non segnò certo una sconfitta militare per Israele. Ma i risultati sul piano dell’immagine furono disastrosi. Allora, come ora, i drammi delle vittime civili documentati dalle tv commossero e indignarono l’opinione pubblica. Il governo israeliano dovette acconsentire al una tregua che non ha certo risolto il conflitto, né diminuito la capacità offensiva di Hamas. E da allora la stella di Olmert cominciò a tramontare.

Corriere della Sera-Sergio Romano: " I razzi di Gaza contro Israele e la questione palestinese "

Israele si difende

Il commento di oggi di Sergio Romano non è nè peggio nè meglio del solito. Da notare le previsioni del CIPMO, sbagliate come  tutte le analisi pacifinte che questo centro sforna a ripetizione, nella beata illusione che le 'due parti' non aspettino altro che fare la pace.

Non trova che quanto sta avvenendo al confine tra Gaza e Israele fosse, in qualche modo, prevedibile? Per troppo tempo, infatti, sia le tanto auspicate primavere arabe che la fratricida guerra civile siriana hanno visto lo Stato ebraico come semplice spettatore, anche se necessariamente interessato. Ma a chi potrebbe convenire un possibile intervento armato dell'esercito di Tel Aviv nel convulso scenario medio-orientale? A un Assad dato per soccombente e al suo alleato iraniano ormai messo ai margini dal conflitto "musulmano" tra sciti e sunniti? Ai nuovi regimi arabi per distrarre i propri cittadini dai mancati cambiamenti interni? O a chi altri? Ma, soprattutto, perché mai i vertici israeliani si dovrebbero prestare a questo coinvolgimento?

Mario Taliani
mtali@tin.it


Caro Taliani,
Negli scorsi giorni il Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente) ha organizzato alla Camera di Commercio di Milano un incontro sulla situazione del Mediterraneo dopo la conferma di Barack Obama alla Casa Bianca. Alcune delle persone intervenute in quella occasione hanno constatato che tutto sembrava muoversi nella regione fuorché la questione palestinese. I negoziati fra Israele e l'Autorità nazionale di Mahmud Abbas erano finiti da tempo su un binario morto. La riconciliazione fra l'Olp e Hamas appariva sempre più improbabile. A Ramallah, capitale della Cisgiordania, come a Gaza, sembrava esistere ormai un partito dello «status quo», composto da quei ceti burocratici che, all'interno delle due società palestinesi, hanno interesse a conservare posizioni acquisite e salari modesti ma abbastanza sicuri. E il presidente degli Stati Uniti, infine, avrebbe dovuto concentrare ogni suo sforzo, prima di trattare altre questioni, sulla soluzione dei problemi finanziari dell'America. Mentre il Nord Africa e il Levante erano ancora agitati dai soprassalti delle rivolte arabe, la questione palestinese era afflitta da una sorta di morbosa sonnolenza.
È probabile che i razzi delle Brigate Al Qassam volessero per l'appunto rompere il sonno e rimettere i problemi della Palestina all'ordine del giorno. L'ala militare di Hamas e Jihad islamica sapevano che i missili iraniani non avrebbero intaccato la forza militare israeliana. Ma si proponevano altri obiettivi. Davano per scontato che Benjamin Netanyahu, alla vigilia di nuove elezioni, avrebbe reagito e che la reazione avrebbe provocato vittime molto più numerose a Gaza di quante i loro razzi potessero provocarne nel campo israeliano. Speravano che il divario fra il numero dei morti avrebbe suscitato, come in occasione di «Piombo fuso» (l'operazione militare israeliana contro Gaza del dicembre 2008), l'indignazione di una buona parte della società internazionale. Volevano mettere alla prova i nuovi leader musulmani della regione, spesso usciti dai ranghi della stessa famiglia politico-religiosa (la Fratellanza musulmana) a cui Hamas appartiene. Che cosa avrebbe fatto il presidente egiziano Mohamed Morsi? Che cosa avrebbe fatto il premier turco Recep Tayyip Erdogan? Che cosa avrebbero fatto la Russia di Putin e l'Iran di Ahmadinejad? E, infine, che cosa avrebbe fatto il presidente degli Stati Uniti, ormai libero di regolare un conto in sospeso con Netanyahu? Non so se dietro i razzi vi sia una strategia di più lungo respiro. Ma il primo obiettivo — mettere tutti in grande imbarazzo — è stato raggiunto.

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