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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
27.06.2012 Egitto: con i Fratelli Musulmani niente democrazia
commento di Bernard-Henri Lévy, cronaca di Ibrahim Refat, intervista a Hernando de Soto di Paolo Mastrolilli

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Bernard-Henri Lévy - Ibrahim Refat - Paolo Mastrolilli
Titolo: «L'ideologia oscurantista dei Fratelli Musulmani - Una donna e un cristiano come vice - Insieme con la Fratellanza farò dell’Egitto un Paese ricco»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/06/2012, a pag. 16, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " L'ideologia oscurantista dei Fratelli Musulmani ". Dalla STAMPA, a pag. 17, l'articolo di Ibrahim Refat dal titolo " Una donna e un cristiano come vice ", l'intervista di Paolo Mastrolilli a Hernando De Soto dal titolo "Insieme con la Fratellanza farò dell’Egitto un Paese ricco".

Il pezzo di Bernard-Henri Lévy è la risposta migliore all'intervista a Hernando de Soto,il quale elude le domande di Mastrolilli circa la trasformazione dell'Egitto in dittatura islamista definendosi 'pragmatico'. Essere pragmatici non significa chiudere gli occhi su quanto sta succedendo.
Hernando de Soto diffonde propaganda pro Fratelli Musulmani.
Il fatto che Morsi si scelga un copto o una donna come vice presidente non cambia la realtà. E' solo propaganda.

Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " L'ideologia oscurantista dei Fratelli Musulmani "


Bernard-Henri Lévy

Non raccontiamoci storie. I Fratelli musulmani, il cui candidato ha vinto l'elezione presidenziale in Egitto, non sono una organizzazione democratica. Non erano sulla piazza Tahrir, al Cairo, agli inizi della rivoluzione. I Fratelli musulmani, impegnati in uno strano gioco dove i militari, pur di essere lasciati liberi di trafficare (in campo economico, finanziario...), avevano già abbandonato loro tutta una parte delle prerogative (sanità, educazione...) normalmente attribuite a uno Stato, hanno cominciato a fare di tutto per frenare il movimento di piazza.
Ricordo — era ancora il 20 febbraio — un edificante incontro nel loro Quartier generale, in via El-Malek El-Saleh, con Saad al-Hoseiny, membro della direzione strategica della Fratellanza, la cui prudenza, per non dire l'ambivalenza o addirittura l'ostilità, saltavano agli occhi davanti alla domanda di diritti e di libertà che si elevava dal popolo insorto. Peggio ancora, non verrà ricordato mai abbastanza che l'organizzazione, di cui un pallido apparatchik sta accedendo alla testa della più grande nazione araba, è nata, alla fine degli anni Venti, come una setta totalitaria, di ispirazione nazista, e che il suo fondatore, Hassan al-Banna, non perdeva occasione di includere Adolf Hitler, dopo Saladino, Abu Bakr o Abdelaziz al-Saud, nella dinastia dei «riformatori» che con la loro «pazienza, fermezza, saggezza e ostinazione» hanno saputo guidare l'umanità.
Lungi dall'esser lavato con il passare del tempo, questo «peccato di gioventù» ha continuato ad essere reiterato, confermato, teorizzato: Yusuf al-Qaradawi, guida attuale dei Fratelli musulmani e maestro, fra l'altro, di un certo Tariq Ramadan, non ha forse, nel gennaio del 2009 — in un intervento su Al-Jazeera, scoperto e diffuso dall'eccellente Middle East Media Research Institute (Memri) — presentato Adolf Hitler come l'ultimo nato dei «rappresentanti di Allah», che scendono regolarmente sulla Terra al fine di «punire» gli «ebrei» per la loro elevata «corruzione»? Desidero sottolineare, insomma, che ogni velleità di presentare l'elezione di Mohammed Morsi come il segno, in un modo o in un altro, di una «avanzata democratica» o di un «progresso», sarebbe sconveniente o odiosa. Nel migliore dei casi, è la riproposizione del patto stretto, sotto Mubarak, fra le due forze che, da decenni, assoggettavano l'Egitto e, nel peggiore, il trionfo di una linea «islamo-fascista» che il neopresidente ha tenuto a riaffermare, qualche ora prima dell'annuncio ufficiale della sua vittoria, dando un'intervista all'agenzia iraniana Fars, in cui prometteva un nuovo «equilibrio strategico regionale»; cioè, per parlare chiaro, l'instaurazione di un asse con l'Iran e Hamas. Che dire di più?
Ma nello stesso tempo... senza voler minimizzare la portata simbolica dell'evento, non sono sicuro, tuttavia, che esso significhi la fine della primavera egiziana. Per due ragioni.
Sorvoliamo sul fatto che Mohammed Morsi abbia ereditato una presidenza di cui sta al Consiglio supremo delle forze armate definire profilo e poteri e che, al traguardo, finirà molto probabilmente con l'esser ridotta a una conchiglia vuota. C'è un primo elemento che sembra sfuggire ai commentatori catastrofisti del dopo-elezione: una buona metà dell'elettorato ha rifiutato, al secondo turno, di scegliere fra la peste post-Mubarak e il colera islamista new look. E c'è un secondo elemento, correlativo: il peso, al primo turno, dei tre candidati (Hamdeen Sabahi, Amr Mussa, Abul Futouh) che, nel momento stesso della scelta, esprimevano il doppio rifiuto, nettissimo da parte dei primi, più incerto da parte dell'ultimo, di un ordine politico in cui la sinistra eredità di al-Banna non faceva più legge.
Concretamente, questo vuol dire che l'islamismo sedicente «moderato» del presidente eletto rappresenta poco più del quarto degli iscritti. O meglio: che nell'odierno Egitto esiste un ampio «partito moderno» che, per quanto diviso, attraversato da contraddizioni, rappresenta la metà dell'elettorato. Meglio ancora: che è in corso una battaglia di cui nessuno conosce l'esito e che, come al solito, vedrà da un lato il blocco militare-islamista e dall'altro il blocco inedito che, sebbene in ordine sparso, non rinuncia allo spirito, alla speranza, della Comune di Tahrir.
Le rivoluzioni non sono eventi ma processi. Questi processi sono lunghi, conflittuali, disseminati di avanzate improvvise e indietreggiamenti scoraggianti. Ma nulla dice che nell'Egitto di questo inizio secolo non si verificherà quanto già accaduto in altri grandi Paesi, eredi di civiltà immense e che hanno trovato il tempo necessario per generare il loro avvenire: la Francia, per esempio, che dovette sottomettersi a un Terrore, a un contro-Terrore, a due Imperi, a una Comune repressa nel sangue, prima di veder nascere la Repubblica. O i Paesi usciti dal lungo coma comunista e che procedono a tentoni verso una democrazia la cui prima tappa è stata il ritorno al potere, attraverso le urne, di un Partito comunista o, peggio, l'apparizione di una chimera chiamata Putin, sinonimo di crimini che non hanno nulla da invidiare a quelli degli zar rossi del secolo scorso.
Dovremmo rimpiangere la caduta del Muro, a causa della guerra in Cecenia? Il 1789 e la gloriosa Gironda, a causa dei massacri del Settembre 1792? Certo che no. Per questo, le «lezioni di tenebra» che ci arrivano attualmente dal Cairo non mi fanno rimpiangere il soffio della primavera di Tahrir. La promessa è sempre viva. La lotta continua.

La STAMPA - Ibrahim Refat : " Una donna e un cristiano come vice "


Mohamed Morsi

Conto alla rovescia per il presidente Mohammed Morsi. Sabato dovrà prestare giuramento davanti alla Corte Costituzionale prima di prendere in pieno le sue funzione. Il nuovo raìss sta lavorando alla composizione del team presidenziale e alla scelta del suo vice per poi passare alla designazione della compagine di governo. Secondo il suo consigliere politico, Ahmed Dif, i vice presidente saranno due: un copto e una donna.

Una scelta audace da parte di un presidente conservatore, cresciuto nella culla dell’integralismo musulmano. Se fosse vera questa dichiarazione sarà la prima volta che una donna viene nominata nella storia dell’Egitto repubblicano a questo incarico così prestigioso ma sarà anche la prima di un vice copto in una paese a maggioranza musulmana.

Sarà l’effetto magico della primavera araba a costringere Morsi a rompere le regole in una società tradizionalista come quella egiziana oppure sarà perché il nuovo presidente, eletto con una maggioranza risicata del 51%, vuole gettare un ponte verso coloro che non lo hanno eletto, cioè la minoranza cristiana ma anche alle altre forze politiche liberali e di sinistra, e diventare «il presidente di tutti gli egiziani» come aveva promesso nel suo primo discorso televisivo alla nazione dell’altro ieri.

Sui nomi della squadra presidenziale si sa ben poco ma sulla componente copta circolano il nome del dimissionario ministro del Turismo, Munir Fakri Abdel-Nour, wafdista e liberale della prima ora, e quella di Amir Iskander, ex deputato nasseriano di sinistra. Ma su quella del premier designato girano diversi nomi: Mohammed El-Baradei, l’ex direttore dell’Aiea e premio Nobel, l’economista e ex ministro Hazem el-Biblawi, e l’economista Ahmed Bahaeddin, ex capo dell’Ente per gli investimenti. Le voci che circolano al Cairo danno per certa la necessità di affidare il governo a un tecnocrate visto le difficoltà economiche in cui si dibatte il paese. La cui crescita prevista per quest’anno sarà dell’un per cento.

Negli ambienti politici della capitale egiziana circolano pure voci secondo cui i Fratelli musulmani, contrariamente alla fase precedente, non intendono fagocitare il gabinetto dei ministri. Si limiteranno a due o al massimo tre dicasteri tra cui quello chiave degli Approvvigionamenti (responsabile del distribuzione dei prodotti di largo consumo) allo scopo di accrescere la loro popolarità in netto calo negli ultimi tempi.

L’orientamento è quello di dare vita a un governo di unità nazionale aperto a tutto. Anche perché così Morsi potrà ridurre le pressioni dei generali della giunta al potere e creare un blocco contrapposto. Del resto i militari hanno annunciato che spetta a loro scegliere il ministro degli Esteri e quello dell’Interni. Quello della Difesa ce l’hanno già: il capo della giunta, generale Tantawi.

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Insieme con la Fratellanza farò dell’Egitto un Paese ricco"


Hernando de Soto

Se questa operazione va in porto, non solo rilanceremo l’economia egiziana, ma risolveremo il problema che ha provocato l’intera Primavera araba, aprendo la porta alla pace sociale e alla stabilità in tutta la regione».

La fiducia in se stesso non è mai mancata ad Hernando de Soto, l’economista peruviano fondatore dell’InstituteforLibertyandDemocracy,ma stavolta si gioca davvero tutto. I Fratelli Musulmani lo hanno ingaggiato come consigliere, per realizzare il suo programma di legalizzazione delle proprietà e dell’economia sommersa. Lui pensa che possa essere una svolta storica per l’intero Medio Oriente.

Come è entrato in contatto con la Fratellanza Musulmana?

«Mi hanno cercato loro. Avevo fatto uno studio per il governo precedente, che non ha applicato le riforme proposte. Lo hanno giudicato interessante e mi hanno chiamato».

Chi ha visto per primo?

«Khairat el Shater, la vice guida spirituale del movimento. E’ stato un incontro sorprendente».

Non teme di collaborare con un movimento intollerante che punta a creare uno Stato islamico?

«Io sono un tecnico, che cerca di risolvere in maniera pragmatica un problema pratico. Il loro approccio è molto professionale, per nulla ideologico. Le persone con cui ho parlato sono tutti uomini d’affari, molto preparati, spesso istruiti all’estero. Volevano solo una cosa: le prove concrete, statistiche, sull’efficacia della mia proposta per rilanciare l’economia e risollevare le classi più povere, integrandole nel processo produttivo».

Lei cosa ha suggerito?

«Abbiamo calcolato che in Egitto l’economia informale, cioè quella non registrata ufficialmente in modo legale, vale 360 miliardi di dollari per il solo settore edilizio. Significa sei volte il totale degli investimenti diretti fatti nel Paese da quando andò via Napoleone fino ad oggi. Sono soldi che appartengono ai poveri, ma formalmente non esistono. Proprietà che potrebbero servire per ottenere prestiti e avviare imprese, ma nessuno può usarle perché nel 92% dei casi non ci sono i titoli. Intendiamo registrarle tutte, in modo da far emergere questo sommerso e metterlo in circolazione sul mercato».

Quali sarebbero i vantaggi?

«Milioni di persone attualmente povere si ritroverebbero nelle mani dei capitali mobili da usare. E il governo potrebbe raggiungerle per dare elettricità, acqua, e tutti i servizi necessari all’impresa. Oltre al problema economico, poi, si favorirebbe la pace sociale».

Perché?

«Questa incertezza economica, questa emarginazione, sono alla radice dell’intera Primavera araba. Abbiamo studiato il caso di Mohamed Bouazizi, il piccolo venditore ambulante tunisino che scatenò la rivolta, dandosi fuoco il 17 dicembre del 2010. Non aveva motivazioni politiche o religiose: era esasperato dalla discriminazione economica, dalla privazione dei suoi diritti. Nel nostro studio, che è ancora inedito e lo rivelo a voi per la prima volta, abbiamo scoperto che durante lo stesso periodo di tempo sono avvenuti 49 suicidi con motivazioni simili in tutto il mondo arabo. Immolandosi, questa gente non ha fatto dichiarazioni di fede, ma ha lamentato l’hogra, il disprezzo che sentivano verso di loro. Secondo i nostri calcoli, circa 200 milioni di persone vivono nel mondo arabo nelle stesse condizioni di Bouazizi. Perciò lui ha ispirato la rivolta: la gente si è identificata con la sua indignazione. La rivoluzione non si fermerà, fino a quando non risponderemo a questa sua causa profonda».

Lei ci sta provando?

«Gli occidentali non lo capiscono: a Deauville hanno approvato un programma di aiuti basato sulla solita assistenza. Gli arabi, invece, vogliono emanciparsi e costruire un futuro autonomo. Per fortuna Tunisia, Algeria e Libia ci hanno chiesto di fare lo stesso lavoro avviato in Egitto».

Cosa ci guadagnano i giovani di Piazza Tahrir, che hanno perso le elezioni?

«Sono istruiti e intelligenti: se l’economia nazionale cresce e diventa più libera, saranno i primi a trarne vantaggi».

Quali sono i prossimi passi operativi da compiere ?

«I Fratelli Musulmani ci avevano chiamato quando avevano la maggioranza in Parlamento, per legiferare. Ora dobbiamo adeguarci alla nuova situazione, con la presidenza. Siamo già sul campo, però, pronti a cominciare il lavoro: la gente vuole le riforme».

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