domenica 05 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Giornale - L'Opinione Rassegna Stampa
07.03.2012 Bibi Netanyahu all'Aipac: il nucleare iraniano va fermato a qualunque costo
Commenti di Fiamma Nirenstein, Stefano Magni. Silenzio stampa dei giornaloni

Testata:Il Giornale - L'Opinione
Autore: Fiamma Nirenstein - Stefano Magni
Titolo: «L’attacco all’Iran è deciso. E Obama non può dire no - Israele non ha più tempo»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 07/03/2012, a pag. 16, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " L’attacco all’Iran è deciso. E Obama non può dire no ", preceduto dal nostro commento. Dall'OPINIONE, a pag. 6, l'articolo di Stefano Magni dal titolo "Israele non ha più tempo".

Per il video con il discorso di Bibi Netanyahu all'AIPAC (riportato sulla home page di IC di oggi), cliccare sul link sottostante
http://www.youtube.com/watch?v=4ufkFEU2kjw
29 standing ovation per Netanyahu (4 più di Obama), con 13.000 partecipanti, il numero maggiore mai avuto all'Aipac.

Registriamo il quasi totale silenzio dei media italiani riguardo il discorso di Bibi Netanyahu all'Aipac, fatta eccezione per i pezzi di Fiamma Nirenstein e Stefano Magni che seguono, silenzio stampa. Perchè?

Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " L’attacco all’Iran è deciso. E Obama non può dire no "


 Fiamma Nirenstein

Il catenaccio del pezzo recita : "il presidente cerca di rimandare l’intervento militare ma assicura fedeltà e aiuto a Tel Aviv. Che però preme per agire contro la minaccia atomica". Facciamo notare alla redazione del Giornale che la capitale israeliana è Gerusalemme, non Tel Aviv.
Ecco il pezzo:

È finito, in realtà, il tempo in cui «tutte le opzioni sono sul tavolo», come ha detto Obama. È finito alla conferenza annuale dell’Aipac, American Israel Public Affairs Committee, a Washington. Obama lo può ripete­re, e l’ha fatto di fronte a un pubbli­co di tredicimila amici d’Israele bollenti, la cui passione cercava di spingere senza troppo successo a dichiarazioni d’impegno definiti­vo: ma sì, Obama ha risposto, ma l’ha fatto volteggiando alla sua ma­niera spesso inconsistente, spes­so fascinosa, come un torero nella corrida, piroettando, sventolan­do una bandiera di speranza di fronte a un pubblico immenso che voleva comunque amarlo e farsi amare perché sa che sarà lui il prossimo presidente, di nuovo. E lui che voleva farsi amare e vota­re, più volte ha assicurato di avere a cuore Israele, di essere fedele più di ogni altro presidente al pat­to non scritto fra lo Stato ebraico e gli Usa, di avere difeso lo Stato ebraico all’Onu, di averlo sempre aiutato militarmente. E il patto c’è, sicuramente, ma non riguar­da ancora e forse non riguarderà mai il toro che scalpita giù nell’are­na, il toro nero di nome Iran che si prepara allo scontro. Invece per Israele il tempo è qui, è giunto, la dead line sembra non potere esse­re più allontanata: per Netan­yahu, come si è inteso bene nel di­s­corso notturno, con pochi e forza­ti sorri­si di vero affetto per la sua al­ma mater americana e pochi cen­ni a Obama, il contrasto fra chi vi­ve­nell’immediata ombra della mi­naccia e chi ancora vuole permet­tersi di stare a vedere segnerà il li­mite, il confine imposto dalla sto­ria.
Per il primo ministro d’Israele non si tratta di far politica, ma di vi­vere, e la grandiosità dei parati di gioia, colorati, risonanti di musi­che, per i due grandi ospiti dell’Ai­pac, le grida di affetto, la clacque che spingeva i due a gettarsi l’uno nelle braccia dell’altro, appariva­no t­anto volenterosi quando persi­no un po’ tristi di fronte a un desti­no che puzza di rischio mortale,
di sangue prossimo venturo. Oba­ma ha rivendicato la sua totale, in­discutibile devozione all’amici­zia immortale fra Israele e gli Usa con l’approvazione amorosa di uno Shimon Peres così affettuoso e così politico nei suoi complimen­ti (il «presidente più amichevole verso Israele che si sia mai visto» ha detto) e soprattutto nel capire che comunque Obama è già il vin­citore delle prossime elezioni. E Bibi l’ha messo alla prova: gli ha raccontato i quindici anni di osser­v­azione spietata della preparazio­ne del potere atomico dell’Iran nel silenzio del mondo, i dieci an­ni di sanzioni senza denti, il ri­schio che lo stato più criminale della storia dopo la Germania na­z­ista si impossessi di un’arma defi­nitiva e ricattatoria per il mondo intero. E che Israele, che esso di­chiara ogni giorno di volere fare a pezzi venga distrutto, mentre il Medio oriente si nuclearizza tutto intero.
È il tempo delle decisioni, ha detto triste e deciso Netanyahu: «Non lascerò mai che il mio popo­lo viva s­otto la minaccia dell’anni­chilimento,
il nostro destino deve restare interamente nelle mani del nostro popolo, siamo padroni della nostra vita che abbiamo dirit­to di difendere».
Questo è riuscito a mettere in scena l’Aipac con un fantastico sforzo, dimostrando che gli ebrei americani perlomeno sanno quel­lo che sta accadendo allo Stato ebraico: il rischio di essere distrut­to. Alla vigilia del supermartedì in
cui l’America decide del candida­to repubblicano, gli ebrei america­ni hanno comunque offerto a Oba­ma un palcoscenico gigantesco per ribadire ciò che tutto il mondo mette continuamente in discus­sione: la sua simpatia per Israele. Lui l’ha raccontata in lungo e in lar­go mentre il pubblico applaudiva, certo non immemore del fatto che Obama non ha ancora mai visita­to Israele nonostante sia stato al Cairo e in Turchia, nonostante le sue dichiarazioni di fiducia a lea­der come Erdogan che odiano Israele, o delle sue vecchie apertu­re ad Assad. Obama ha vantato il suo grande contributo alla sicu­rezza israeliana, ma si tratta di un vecchio piano settennale firmato da George W Bush: invece il conge­lamento delle costruzioni nei ter­ritori, invenzione tutta sua, è stato un pedaggio richiesto, ottenuto nel 2010 e mai retribuito. Pazien­za.
Oggi è buon giuoco di Bibi acco­gliere le dichiarazioni di amicizia
invincibile di Obama, perché i re­pubblicani non hanno, sembre­rebbe, nessuna alternativa atten­dibile. Obama ha detto che con l’Iran tutto è possibile, che biso­gna parlare tenendo in mano un grande bastone. Se intenda usar­lo, non l’ha promesso all’arena ru­tilante in cui il r­osso e il blu e il bian­co e il celeste delle due bandiere si intrecciavano in magnifici fregi, grandiosi come sanno fare a Washington.InIsraelec’è un det­to molto comune: «Questo è quel­lo che c’è, e con questo bisogna vincere». Bibi non se lo è certo di­menticato.
www.fiammanirenstein.com

L'OPINIONE - Stefano Magni : "Israele non ha più tempo"


Stefano Magni

A Washington DC, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto il pieno di visite e di rassicurazioni. Ha anche incontrato, a margine dell’Aipac (il principale gruppo di pressione filo-sionista in America) il presidente della Camera Gianfranco Fini, che gli ha ribadito “la profonda amicizia che lega l'Italia all' unica vera democrazia del Medio Oriente che è garanzia di libertà e pluralismo per tutti i popoli”. “Israele non è sola” è il leitmotiv di tutta la conferenza dell’Aipac. Lo dichiara il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Lo riconferma il suo (finora) principale avversario repubblicano Mitt Romney. Ma Israele, oltre a sentirsi rassicurare che “non è sola”, ha fretta. Non ha più tempo da attendere. Perché gli iraniani stanno facendo passi da gigante verso la loro prima bomba atomica. E lo Stato ebraico “vive nell’ombra dell’annientamento”, come ha dichiarato lo stesso Netanyahu nel suo potente discorso all’Aipac. Obama, al contrario, ritiene di avere ancora molto tempo a disposizione. “Bisogna lasciare ancora spazio alla diplomazia”, ha detto al premier israeliano, durante l’incontro alla Casa Bianca. Ma “Israele ha aspettato che la diplomazia agisse, ha aspettato che le sanzioni producessero qualche effetto. Ma nessuno di noi può permettersi di attendere ancora”, gli ha risposto indirettamente Netanyahu all’Aipac. Quel che per Netanyahu è una questione di vita o di morte, per l’inquilino della Casa Bianca è solo un dossier internazionale difficile. In questi tre anni e mezzo di amministrazione democratica, Obama ha dedicato più tempo ed energie per contenere la costruzione di insediamenti ebraici a Gerusalemme e in Cisgiordania, che non per cercare di fermare il programma nucleare iraniano. Anzi, per tutto il 2009, Obama ha perseverato nella sua politica della “mano tesa”. E’ solo nel 2010, dopo il fallimento manifesto della diplomazia, che gli Usa sono tornati al braccio di ferro. E nel frattempo avevano già sprecato l’occasione dell’Onda Verde, l’unica grande ribellione popolare contro il regime degli ayatollah nell’ultimo decennio. E’ dunque più che comprensibile questa insistenza israeliana sui tempi: “Lo Stato ebraico non permetterà a coloro che cercano di distruggerci di raggiungere il loro scopo. Un Iran nucleare deve essere fermato”, ha dichiarato Netanyahu all’Aipac. E ha mostrato al pubblico un documento del 1944: il rifiuto, da parte del Dipartimento di Stato Usa, di bombardare Auschwitz, dietro il pretesto che un simile atto avrebbe “provocato ancora più azioni vendicative da parte della Germania nazista”. “Oggi abbiamo il nostro Stato. E lo scopo dello Stato ebraico è prima di tutto la difesa della vita degli ebrei e la sicurezza del loro futuro”. Non c’è molto da interpretare: o gli Usa si muovono (e il 53% degli americani sarebbe favorevole anche a un’azione militare preventiva) o Israele dovrà agire da sola.

Per inviare il proprio parere all'Opinione, cliccare sull'e-mail sottostante


segreteria@ilgiornale.it
diaconale@opinione.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT