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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio - Il Giornale - L'Opinione - Tg3 Rassegna Stampa
13.10.2011 Perchè Israele ha deciso di cedere 1027 terroristi in cambio di Gilad Shalit
Commenti di Giulio Meotti, Vittorio Dan Segre, Stefano Magni, Daniele Raineri

Testata:Il Foglio - Il Giornale - L'Opinione - Tg3
Autore: Giulio Meotti - Vittorio Dan Segre - Stefano Magni - Daniele Raineri
Titolo: «Morti o vivi, Israele ha promesso: nessun soldato resta indietro. Quale testa rotolerà al posto di Shalit? - Shalit, cosa c'è dietro l'intesa Israele-Hamas - La libertà di un cittadino israeliano vale quella di 1000 palestinesi - Checkpoint Cairo»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/10/2011, a pag. III, gli articoli di Giulio Meotti e Daniele Raineri titolati " Morti o vivi, Israele ha promesso: nessun soldato resta indietro. Quale testa rotolerà al posto di Shalit? " e " Checkpoint Cairo  ". Dal GIORNALE, a pag. 17, l'articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo " Shalit, cosa c'è dietro l'intesa Israele-Hamas ". Dall'OPINIONE, a pag. 5, l'articolo di Stefano Magni dal titolo " La libertà di un cittadino israeliano vale quella di 1000 palestinesi ".
(Nell'immagine a destra, la famiglia Shalit con Shimon Peres)


Registriamo che il TG3 di ieri,12/10/2011 delle 14,30,sostiene che Gilad Shalit "
è stato catturato a Gaza".
Shalit era sul suolo israeliano ed è stato rapito, non catturato. Sostenere che si trovasse a Gaza, significa dare per scontato che, in fondo, se l'è cercata.  Invitiamo i lettori di IC a scrivere al TG3 per chiedere che si documenti prima di diffondere servizi disinformanti per il pubblico.
tg3net@rai.it 
Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Morti o vivi, Israele ha promesso: nessun soldato resta indietro. Quale testa rotolerà al posto di Shalit? "


Giulio Meotti   Gilad Shalit

Figlio mio, torna a casa presto, stiamo diventando vecchi”, ha detto il padre di Yehuda Katz, uno dei tanti avieri israeliani “missing”, scomparsi nelle mani dei terroristi che guerreggiano con Israele. L’angoscia di questo padre è oggi il risvolto della gioia composta con cui Noam Shalit ha accolto l’imminente liberazione del figlio Gilad. Il generale canadese E. M. Burns, capo della missione Onu in medio oriente negli anni Cinquanta, disse che non riusciva a comprendere come un intero paese, Israele, potesse “impazzire” per un proprio soldato prigioniero.
Lo stato ebraico lo sa anche troppo bene. Secondo un calcolo di fonte israeliana, dal 1982 a oggi il totale degli scambi tra prigionieri ammonta a settemila palestinesi contro diciannove israeliani. Israele oggi detiene 8.500 palestinesi in carcere per terrorismo. Si appresta a liberarne più di 1.000 in cambio di Shalit. Un ottavo del totale. Una dismisura inconcepibile per chi non conosce la minaccia quotidiana e il disprezzo razzista a cui è sottoposto Israele. Tre anni fa Israele riportò “a casa” due soldati, Ehud Goldwasser e Eldad Regev, ma solo per essere seppelliti in terra d’Israele, in una bara. In cambio Israele rispedì nelle mani di Hezbollah Samir Kuntar, un druso tagliagole che uccise un padre e sua figlia in Israele e che oggi è riverito come un eroe dalle massime cariche politiche a Beirut.
Difficilissimo per un italiano capire perché si scambino assassini vivi con soldati morti o con semplici informazioni su soldati morti. Ma da questi baratti si capisce tantissimo di un paese che è insieme in pace e in guerra, che cresce i figli in una cultura della vita e li porta agli “hug” di danza e di piano, ma anche un paese che deve per forza vivere in stato di guerra. Per vivere questa tragica, dissanguante duplicità, unica al mondo, Israele ha come bisogno di un pegno straordinario, che si esemplifica nel giuramento di riportare a casa i ragazzi, di non abbandonarli mai e per nessuna ragione, vivi o morti e dovunque siano. Ogni ragazzo israeliano che serve nell’esercito per tre anni, fra pericoli che la società occidentale neppure immagina, sa che può essere rapito, sotterrato vivo, diventare moneta di scambio con chi di fatto vuole la tua morte e quella di tutta la tua parte.
Per questo ogni soldato e con lui la sua mamma e suo padre portano dentro di sé, quando il giovane e la giovane vanno nell’esercito, la promessa che non saranno mai abbandonati. Gilad Shalit ha vissuto cinque anni di orribile solitudine, un tempo indicibile per una madre, un padre e dei fratelli che non hanno avuto la possibilità neppure di avere notizie sulla salute del proprio ragazzo, in contravvenzione a ogni diritto internazionale tradito dalle note ong indifferenti a Shalit. Gilad è il pegno vivente di un abisso che separa un paese che santifica la vita e l’ideologia di morte che spira in medio oriente. Non c’è principio più importante per l’esercito e la società israeliane del “Pidyon Shvuyim”, il salvataggio dei soldati. In parte Israele trae quest’ossessione dalla Shoah.
Come ha scritto un columnist, Herb Keinon, “l’ethos israeliano di non abbandonare mai un soldato non serve soltanto per infondere coraggio ai soldati in battaglia. Nasce anche, in non piccola misura, da un senso di responsabilità collettivo legato alla Shoah: il sentimento per cui ovunque degli ebrei si trovino in pericolo, si dovrà fare tutto, ma proprio tutto per cercare di salvarli. Se non altro, perché allora invece fu fatto così poco”. Uno stato che ha fatto di tutto persino per riportare in patria parte delle ceneri dei santi morti nell’Olocausto. Così, dalla Polonia venne trasferita a Gerusalemme una valigia con quanto restava delle vittime delle camere a gas di Chelmno e la cantante russa Nehamah Lifshitz portò le ceneri delle vittime fucilate nella foresta di Ponari. C’era un tempo in cui i terroristi pagavano un prezzo altissimo per il rapimento di israeliani.
Ma quella ferrigna deterrenza in parte si è persa e oggi gli islamisti sanno che più a lungo tengono sottoterra un soldato ebreo più alto sarà il prezzo che Gerusalemme sarà disposta a pagare. “David Ben Gurion non lo avrebbe mai fatto”, ha detto Benny Morris. Secondo lo storico israeliano tutto è iniziato ai tempi dell’invasione in Libano del 1982, “quando fu evidente che la società israeliana stava diventando sempre più occidentale, consumista, benestante, centrata più sul benessere individuale che non su quello della collettività”. Il primo scambio di prigionieri di massa avvenne infatti nel 1983, quando per pochi soldati israeliani vennero liberati migliaia e migliaia di prigionieri palestinesi e libanesi. Due anni dopo in cambio di tre israeliani vennero rilasciati 1.150 palestinesi, molti dei quali sarebbero diventati i quadri della prima Intifada. Il premier Benjamin Netanyahu sapeva chi fossero i terroristi che usciranno in cambio di Shalit.
Donne diaboliche come Amana Muna, l’assassina di Ophir Rahum, un ebreo di sedici anni adescato su Internet e portato a Ramallah, dove fu torturato e ucciso. Amana si è dichiarata sempre fiera della sua azione. Con lei sarà scarcerata Ahlan Tanimi, che portò la bomba che uccise sedici ebrei alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme, o Kahira Sa’adi, madre di quattro figli, che portò un terrorista suicida nella via King George dove si fece saltare in aria uccidendo tre israeliani. Terroristi e terroriste che torneranno sempre a fare quello che sanno fare meglio: massacrare ebrei innocenti. L’associazione delle vittime del terrorismo, Almagor, che ieri ha condannato lo scambio, ha scritto che negli ultimi cinque anni 177 israeliani sono morti per mano di ex prigionieri usati come merce di scambio. Netanyahu ne ha già liberati a centinaia di terroristi. Nel 1997 scarcerò persino il guru di Hamas, Ahmed Yassin, il mentore dei kamikaze (poi saltato in aria in un’esecuzione extragiudiziale). Tragica è questa perpetua scelta di Israele, perché promette a chiunque voglia intraprendere rapimenti di israeliani che essi saranno fruttosi, che coaguleranno la umma islamica e che si può uccidere il rapito perché comunque si ottiene in cambio ciò che si desidera. Quale testa rotolerà al posto di Shalit? Questa domanda angoscia oggi Israele e spiega perché una buona parte della società israeliana è accanitamente contro lo scambio e grida al “tradimento” e alla “resa al terrorismo”.
E’ un dramma che riguarda le famiglie. Del soldato rapito. Ma anche dei familiari delle vittime del terrore. L’intera società israeliana si fa garante dello scambio, perché tutto il paese è un fronte e ogni famiglia ha militari che rischiano la vita ogni giorno. Eroici sono così i genitori di Shalit che hanno vissuto in una tenda per mesi, in attesa di riavere il figlio. Eroici sono anche Roni Karman, Yossi Mendelevich, Yossi Tzur, i genitori di tre ragazzi uccisi sull’autobus 37 di Haifa e che si oppongono alla liberazione. E’ giusto che la vita di un soldato valga il disperdere per il mondo una simile ferocia? Forse la risposta sta nel nome dell’aviere Ron Arad.
Di lui ci resta qualche foto: emaciato, barba lunga e sguardo smarrito, reduce da torture a Teheran, ha occhi che dicono del momento in cui baciò la moglie e la figlia prima di partire per l’ultima missione e dei diciannove soldati mai rientrati dalla guerra del 1973. C’è anche un breve, penosissimo, filmato, in cui Ron dice, con la erre arrotata del sabra: “Sono un soldato israeliano”.

Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " Shalit, cosa c'è dietro l'intesa Israele-Hamas "


Vittorio Dan Segre, Hamas

Accettando di trattare con Ha­mas e ottenendo la liberazione del soldato Shalit, Netanyahu ha realizzato un colpo da maestro di­mostrando la validità del princi­pio: il nemico del tuo nemico è il tuo amico.
Con questo accordo ha certo concesso un grosso successo a Ha­mas. Ma ha inferto un serio colpo ad Abu Mazen punendolo per la domanda all’Onu di riconoscere uno Stato palestinese. Fra i mille e più prigionieri palestinesi che la­sceranno le carceri israeliane ci sono decine di attivisti di Hamas. In parte sono stati arrestati nel cor­so degli anni dall­e forze di sicurez­za israeliane che operano nelle zo­ne occupate della Cisgiordania. Ma in parte sono stati catturati da­gli uomini di al Fatah oppure in collaborazione con le truppe isra­eliane. Questo è ciò che ha fatto de­nunciare Abu Mazen da parte dei dirigenti di Hamas come un dop­pio traditore: traditore della soli­darietà nazionale palestinese e traditore della «democrazia», in quanto Abu Mazen si presenta co­me presidente dei palestinesi es­sendo invece solo il presidente di al Fatah che governa in Cisgiorda­nia. Cosa farà ora Abu Mazen? Li arresterà di nuovo distruggendo il poco prestigio guadagnato fra i palestinesi andando all’Onu?Op­pure li lascerà liberi di riorganizza­re Hamas in Cisgiordania in vista delle prossime elezioni presiden­ziali? Allo schiaffo Netanyahu ha aggiunto l'insulto: ha liberato ter­roristi di Hamas con «le mani in­sanguinate » ma mantenuto in pri­gione Marwan Barghuti, il solo leader di al Fatah capace di rialza­re le sorti del vecchio movimento di liberazione palestinese di Ara­fat.
Ci sono altri aspetti interessanti in questo accordo «fra nemici». C’è il ruolo del mediatore tedesco che ha soppiantato il coinvolgi­mento di un’amministrazione americana che Netanyahu spera di veder battuta alle elezioni presi­denziali di fine 2012. C’è il ruolo di mediazione di primo piano accor­dato all’Egitto a dimostrazione
che i rapporti fra Gerusalemme e il Cairo restano operativi. Ci sono le probabili ricadute in politica in­terna che il premier israeliano rac­c­oglie con la liberazione di un sol­dato diventato simbolo di una tra­gedia nazionale.
Ammesso - ma non concesso perché si ignora cosa sia avvenuto dietro le quinte - che l’accordo con Hamas non contenga elemen­ti nuovi, per quale ragione il gover­no
di Gerusalemme ha accettato un accordo i cui termini erano no­ti da anni e­perché Shalit non è sta­to liberato prima? È probabile che la «rivolta delle tende» in Israele e la rinascita del partito laburista con a capo una nuova potenziale «Golda» - la combattiva giornali­sta Jakimovich - abbia convinto Netanyahu che il clima elettorale in Israele stia cambiando. Circon­dato dall’aureola di «liberatore» di Shalit (che al momento in cui scriviamo a casa non è ancora arri­vato) e dell’appoggio che gli offre il Congresso di Washington con­tro la politica di Obama, Netan­yahu­sembra convinto che l’ex go­vernatore del Massachusetts Mitt Romney sarà il prossimo inquili­no della Casa Bianca. Il premier israeliano non interverrà certo nella campagna elettorale ameri­cana, ma le lobby ebraiche e israe­l­iane in America non mancheran­no di farlo. Può apparire strano questo possibile schieramento ebraico, tradizionalmente legato al partito democratico, per un can­didato repubblicano che in più è un predicatore mormone che è di­ventato un grande operatore fi­nanziario dopo essere stato mis­sionario mormone in Francia. Ma le posizioni di Romney, pro israe­liane, anti iraniane e contro il «ter­rorismo islamico» (parole che Obama aveva eliminato dal voca­bolario politico americano) non sono soltanto inequivocabili ma rappresentano un legame con un’altra grossa fetta dell’elettora­to americano- l’elettorato cristia­no sionista - favorevole a Israele.
Netanyahu prepara il terreno per vincere le prossime elezioni in Israele.Potrebbe persino antici­parle visto l’opposizione dei parti­ti religiosi nella sua coalizione al­le riforme che il vento della rivolta
araba impone di fare a Israele.

L'OPINIONE - Stefano Magni : " La libertà di un cittadino israeliano vale quella di 1000 palestinesi "


Stefano Magni, Noam Shalit con una foto di Gilad

Gilad Shalit verrà liberato da Hamas. Era stato rapito il 25 giugno 2006, in territorio israeliano, nei pressi del confine con la striscia di Gaza. Tornerà a casa, a quanto sembra, la settimana prossima, dopo un periodo di cattività di cui non si sa nulla, perché nemmeno la Croce Rossa Internazionale ha avuto modo di ottenere informazioni. Non tornerà a casa gratuitamente. In cambio Hamas ha chiesto la liberazione di 1027 prigionieri. E’ questo lo scambio che Khaled Meshaal (leader di Hamas in Siria) celebra come un “grande successo nazionale (palestinese)”.
Chi sono i 1027 in procinto di essere liberati? Fra loro non figurano i leader terroristi di grande profilo: Marwan e Abdullah Barghouti, Ibrahim Hamed e Ahmet Sadat resteranno in carcere. Nella prima fase dello scambio verrà scarcerata poco meno della metà dei prigionieri, fra cui 280 condannati all’ergastolo. Saranno divisi come segue: 96 faranno ritorno in Cisgiordania, 14 a Gerusalemme Est, 203 originari della Cisgiordania saranno deportati a Gaza, altri 131 faranno ritorno a Gaza e 40 spediti all’estero. Saranno liberati 6 arabi israeliani, che potranno tornare a casa loro, e 27 prigionieri sono donne. Fra i carcerati liberati che tornano in Cisgiordania e Gerusalemme Est, la metà esatta rimarrà in libertà vigilata: per alcuni persisterà il divieto di lasciare la propria città di residenza, per altri la proibizione di andare all’estero e di entrare in Israele. Fra i 203 prigionieri deportati a Gaza e all’estero, 15 non potranno tornare in Cisgiordania per un anno, altri 18 per tre anni, per altri 55 prigionieri vi sarà il divieto di rientro per 10 anni e per i restanti è previsto un esilio di ben 25 anni.
La dispersione dei prigionieri e le misure di sicurezza adottate dallo Stato ebraico nei loro confronti dimostrano che nessuno, a Gerusalemme, sottovaluta il pericolo dello scambio. Uzi Landau, ministro delle Infrastrutture, ha votato contro l’accordo, esattamente come Avigdor Lieberman (ministro degli Esteri) e Moshe Ya’alon (vicepremier). Landau lamenta “una grande vittoria del terrorismo”. “Io sono contento per la famiglia di Shalit, ma anche terrorizzato per la sicurezza dei cittadini di Israele” - dichiara in un’intervista al quotidiano Haaretz, Ron Karman, di Haifa - “E’ tremendo sentire quei nomi (dei palestinesi liberati, ndr) inclusi in una lista nota da cinque anni”. Ron Karman ha perso sua figlia, Tal, uccisa da un terrorista mentre viaggiava su un autobus di Haifa. Fra quelli in procinto di essere liberati ci sono anche i rapitori dei soldati israeliani Nachshon Wachsman, Ilan Sasportas e Ilan Saadon. Ci sono gli attentatori dell’autobus Tel Aviv-Gerusalemme (1989), il terrorista che uccise 10 civili a Wadi Harmiyeh, presso Ramallah (2002), il complice dell’attentatore suicida che si fece esplodere nella pizzeria Sbarro di Gerusalemme (2001) e molti degli agenti che linciarono soldati israeliani nella stazione di polizia di Ramallah (2000). Quelli, tanto per ricordare, che mostrarono alla folla le loro mani insanguinate e che, ripresi da una troupe di Canale 5, fecero scoppiare un brutto caso giornalistico qui in Italia. La vita e la libertà di Gilad Shalit vale la liberazione di questi e altri pericolosi individui? Secondo Yoram Cohen, direttore dello Shin Bet (l’agenzia di sicurezza israeliana) non poteva esserci un accordo migliore: “Se avessimo avuto altre possibilità per un accordo più equo o per un blitz di liberazione, avremmo percorso quelle strade”. Aggiungendo, però, che: “Non possiamo promettere che i prigionieri liberati non continui a compiere atti di terrorismo. Le statistiche ci mostrano che il 60% degli scarcerati torna alla propria attività nelle organizzazioni armate e di questi il 15-20% viene di nuovo incarcerato nelle prigioni di Israele”. Tuttavia la liberazione di questo migliaio di palestinesi non modifica sostanzialmente il rapporto di forze fra Israele e Hamas. “Sono operativi circa 20mila membri delle Brigate Ezzadim al Qassam (il braccio armato di Hamas, ndr) e qualche centinaio in più non faranno alcuna differenza. Hamas non è interessata a un’escalation, ha già gravi problemi interni che l’hanno spinto a concludere questo accordo”. Problemi interni che si riassumono in: fine dei fondi dall’Iran e possibilità che collassi anche il regime siriano, protettore del movimento islamico palestinese. Non è da una posizione di debolezza, dunque, che Israele ha accettato uno scambio 1000 a 1. Ma dalla certezza di essere comunque la parte più forte: la libertà di ciascuno dei palestinesi scarcerati vale un millesimo della possibilità di un ragazzo israeliano di riabbracciare i suoi cari.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : "Checkpoint Cairo "


Daniele Raineri, Egitto

Il Cairo, dal nostro inviato. Kristen Chick è corrispondente per il Christian Science Monitor, è appena tornata da Gaza, dove “in un anno non è cambiato nulla, soltanto le bandiere verdi di Hamas sono più sbiadite e più lacere e sì, un’altra cosa è cambiata: la popolazione non ne può davvero più del Partito islamico palestinese”. Ragioni pratiche: l’amministrazione è una delle peggiori che ricordano, anche perché si porta via con le tasse più della metà dei guadagni di ogni famiglia e non offre lo stesso livello di prosperità dei vicini che abitano nella Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp.
A questo si aggiunge che il governo di Hamas impone una censura politica perversa, come il divieto il mese scorso di manifestare in solidarietà dei palestinesi presi a cannonate dall’esercito siriano nelle loro case nel porto di Latakia, o il divieto di esultanza il giorno della richiesta di un seggio palestinese alle Nazioni Unite, che è stato un momento unificante e galvanizzante per tutti i palestinesi, tranne che nella Striscia: un ristoratore che trasmetteva il discorso di Abu Mazen in pubblico è stato arrestato.
A questo si aggiunga anche il fattore rischio di guerra, sempre presente, per la politica di continue provocazioni di Hamas contro il gigante militare di Israele al di là della rete, e le lotte intestine con i gruppuscoli sunniti più fondamentalisti di Hamas, come i salafiti che hanno ucciso il volontario italiano Vittorio Arrigoni, e in ogni caso il rigore asfissiante della regola islamista. Tutto questo mentre Abu Mazen, cacciato dal suo ufficio a Gaza nel 2007 dagli uomini di Hamas armi in pugno, oggi riceve la standing ovation dei leader del pianeta riuniti in assemblea a New York, e i palestinesi che vivono e trafficano nel territorio controllato dall’Anp non hanno sopra il capo il rischio di un raid aereo israeliano o di una punizione per avere infranto il codice di comportamento di Hamas e, soprattutto, vivono in condizioni di relativa felicità economica: gli Stati Uniti ora vogliono tagliare 200 milioni di dollari in finanziamenti, ma i regni arabi del Golfo con i loro petrodollari stanno correndo in aiuto del primo ministro, Salam Fayyad, e del suo piano per la pace – riassumibile in: “Chi sta bene ripudia la guerra”.
Se c’era un momento adatto, adattissimo per Hamas in cui giocare la carta della liberazione dei prigionieri era questo: nelle carceri israeliane c’è uno sciopero della fame che ogni giorno finisce sulle prime pagine dei giornali palestinesi. I mille liberati fanno parte di entrambe le fazioni, Hamas e Fatah, e il loro ritorno a casa sarà un successo d’immagine anche fuori dai confini della Striscia. “Hamas dimostra di nuovo di avere carte da giocare e di poterlo fare alla velocità della luce – dice alla Reuters Zakaria al Qaq, un commentatore politico palestinese – il gioco è così, si vince portando a casa risultati. Non è questione di elezioni, che sono lontane, ma è una questione di credibilità”. Ieri sera il portavoce di Hamas vantava anche la liberazione di Marwan Barghouti, il popolare leader di Fatah considerato il potenziale successore di Abu Mazen – anzi, il temibile rivale: sarebbe stato proprio un bel favore al leader palestinese, quello di Hamas – e anche di Arwan Barghouti, il superterrorista di Hamas in carcere con 67 ergastoli per le bombe costruite.
Nessuno dei due è invece sulla lista dei liberati, anche se per lungo tempo Hamas li aveva inseriti tra i prigionieri a cui proprio non poteva rinunciare, e per questo l’accordo si era arenato. Segno che adesso Hamas aveva più bisogno di Israele di fare questo scambio. Da Caracas, dove si trova in tour diplomatico per conquistare l’appoggio di voti importanti alle Nazioni Unite, Abu Mazen ha abbozzato e ha detto a Karl Vick di Time che lo segue passo passo – nessuno segue i leader di Hamas, ma ieri Khaled Meshaal è atterrato al Cairo – che “va benissimo, ci mancherebbe altro. Il rilascio di mille prigionieri è una buona cosa per noi e per le famiglie”. Dice di non essere preoccupato che Hamas si copra di gloria nello scambio, anche se c’è rivalità politica: “Che siano con noi o contro di noi, sono palestinesi.
La liberazione di prigionieri è nell’interesse di tutti i palestinesi”. Quanta magnanimità, sapendo che la luce tornerà su di lui – è già su di lui – per tutti i prossimi mesi, grazie alla campagna per la fondazione dello stato di Palestina. L’Egitto guadagna dall’accordo. Soprattutto ora che il Consiglio militare di al Mushir – il maresciallo di campo – Tantawi ha scoperto quanto è difficile governare e vuole allo stesso tempo conservare il potere e ha bisogno di proporsi come interlocutore credibile agli alleti in occidente. Ancora di più dopo il massacro di cristiani al Cairo domenica sera. Avere fatto da broker all’accordo è un grosso punto a proprio favore. Il nome da tenere d’occhio è quello del ministro dell’Intelligence, Murad Muwafi. I prigionieri e anche Shalit saranno trasferiti da Israele e da Gaza al Cairo, che nelle prossime settimane sarà fisicamente il luogo dello scambio, prima del loro ritorno a casa. I generali egiziani sono un disastro in tutto il resto: ieri nella conferenza stampa dopo il massacro di cristiani hanno negato l’evidenza, hanno negato i blindati in marcia sopra i manifestanti, anche se ci sono video chiari, hanno negato qualsiasi responsabilità dei soldati e non hanno voluto dire quanti sono davvero morti (forse nessuno: sarebbe stata tutta una grande menzogna di stato). Ma avrebbero confermato che esiste una linea di continuità con i tempi di Mubarak e del suo capo dei servizi Omar Suleiman, che non s’è persa la capacità di triangolare fra americani, israeliani e Hamas.
In questo gioco di sponda si sono fatti avanti anche i Fratelli musulmani. Due giorni prima della visita ufficiale del capo del Pentagono, Leon Panetta, al Cairo, alcuni diplomatici americani si sono incontrati con discrezione con rappresentanti della Fratellanza, un primo contatto non segreto che è servito da ponte tra la Casa Bianca e Hamas, che della Fratellanza egiziana è una costola nata negli anni Ottanta. Due giorni dopo, mentre Panetta parlava con gli alti generali, un altro rappresentante di Israele, il portavoce personale del primo ministro, David Meidan, in un angolo separato del Cairo, incontrava il comandante delle brigate Ezzedin al Qassam, ala militare di Hamas, Mohammed Jabry, per mettere sulla carta i dettagli finali dello scambio asimmetrico di prigionieri. Due giorni fa un’altra delegazione israeliana è arrivata senza troppo rumore nella capitale egiziana. L’America ci guadagna, pure.
L’Amministrazione Obama ricorre ancora una volta alla diplomazia con le stellette, come fa in Pakistan, mandando il neo segretario alla Difesa a fare da sensale decisivo – di inviati speciali per il medio oriente nessuno sente più parlare. La capacità americana di influire e di contare di nuovo nell’area del medio oriente, mai così in mezzo alle sue doglie, come le aveva definite il segretario di stato di George W. Bush, Condoleezza Rice, riprende quota. Israele, come spiega Giulio Meotti qui sotto, vince la battaglia simbolica più importante, in una terra dove non c’è nulla di più materiale dei simboli. Il premier Bibi Netanyahu da un anno almeno sembra prigioniero del suo governo, formato con il contributo della destra, che però non vuole sentire parlare di compromessi sugli insediamenti e di sospensione della costruzione di nuove case oltre la Linea verde pre 1967 – che i palestinesi considerano la linea di confine su cui cominciare a negoziare per la creazione del loro nuovo stato.
Riportando a casa Shalit, Netanyahu può dire di avere vinto il negoziato con Hamas. Anzi, per paradosso, di avere avuto più successo con loro che con i cugini moderati dell’Anp. Allo scambio si sono opposti tre ministri della destra, compreso quello degli Esteri Avigdor Lieberman, altri 26 hanno votato a favore. Secondo Ron Ben-Yishai, il solitamente ben informato e severo esperto militare del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, il merito dell’accordo va riconosciuto a molti architetti. Il capo dello Shin Bet, il servizio di spionaggio interno di Israele, Yoram Cohen, e il capo delle forze di difesa israeliane, il generale Benny Gantz, hanno dichiarato di recente che era impossibile estrarre Shalit da Gaza con un’azione militare.
Entrambi si sono consumati sulle opzioni possibili ed entrambi hanno raggiunto la stessa conclusione: uno scambio di prigionieri era l’unica soluzione praticabile. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha esaminato le loro raccomandazioni e ha suggerito al primo ministro Netanyahu di seguire la saggezza del suo predecessore Yitzhak Rabin: se non è possibile riportare a casa gli israeliani con un’azione di guerra, allora devono essere recuperati con un accordo, per quanto difficile possa essere. Il ministro ha avuto un ruolo decisivo nel convincere il premier, con l’appoggio dello Shin Bet e del nuovo capo del Mossad, Tamir Pardo. Cohen ha dato ampie garanzie che i suoi uomini saranno in grado di tenere sott’occhio gli elementi più pericolosi anche dopo la liberazione. Per cinque anni, Shalit in ostaggio di Hamas è stata la situazione più bloccata dentro lo stallo tra israeliani e palestinesi. Quest’anno tuttavia il mondo arabo è stato messo sottosopra dalle proteste dei cittadini per le condizioni di povertà e contro il potere di regimi blindati. Si tratta di un movimento così profondo che è ancora presto per dire come andrà a finire, ma sta producendo effetti.
Hamas si è mossa perché sta rompendo con l’asse formato da Siria e Iran. La leadership sta anche fisicamente abbandonando Damasco, colpevole di reprimere con ferocia la Fratellanza musulmana siriana, è stata punita dall’Iran con il taglio dei fondi e ora sta cercando con discrezione nuovi sponsor, in Egitto o nel Qatar, che già è il padrino dei nuovi islamisti al potere in Libia. L’alone di gloria di Abu Mazen che ha spinto Hamas a reagire è anch’esso una conseguenza della primavera araba. Vale anche per Israele. Il primo ministro Netanyahu è consapevole che, considerato che è impossibile prevedere che cosa succederà in Egitto e in Siria, questa finestra di opportunità andava sfruttata.

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