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Il Foglio - Il Giornale - L'Occidentale Rassegna Stampa
21.07.2010 Il burqa è un vessillo dell’ideologia fondamentalista islamica
Ed è giusto vietarlo. Commenti di Alice Schwarzer, Valentina Colombo. Cronaca di Gian Micalessin

Testata:Il Foglio - Il Giornale - L'Occidentale
Autore: Andrea Affaticati - Valentina Colombo - Gian Micalessin
Titolo: «Alice e il burqa - Un islam senza burqa è possibile, lo dicono i mussulmani europei - Ora anche le donne ebree si mettono il burqa»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/07/2010, a pag. II, l'articolo di Andrea Affaticati dal titolo " Alice e il burqa ". Dall'OCCIDENTALE, l'articolo di Valentina Colombo dal titolo " Un islam senza burqa è possibile, lo dicono i mussulmani europei ". Dal GIORNALE, a pag. 13, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Ora anche le donne ebree si mettono il burqa ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i due articoli:

Il FOGLIO - Andrea Affaticati : " Alice e il burqa "


Alice Schwarzer

Milano. Alice Schwarzer, rappresentante storica del movimento femminista tedesco, lo va dicendo da anni, che il burqa e il niqab non c’entrano nulla con la religione, sono strumenti politici, vessilli dell’ideologia fondamentalista islamica. La prima denuncia contro il regime dei mullah la fece, dalle pagine della sua rivista Emma, di ritorno da un viaggio in Iran, dove si era recata due settimane dopo l’avvento al potere dell’ayatollah Khomeini. Definì allora, e continua a definire oggi, il regime iraniano un regime nazista. Ora, a quel bersaglio che non ha mai smesso di attaccare, ne ha aggiunto un altro. Dalle pagine della Frankfurter Allgemeine, ieri Schwarzer ha lanciato una dura invettiva contro la sinistra “cosiddetta” democratica. L’occasione è stata la legge che vieta il burqa e il niqab in Francia. Entrata in vigore giustamente il 14 luglio, sottolinea Schwarzer, giorno nel quale la rivoluzione francese decretava “la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza” per tutta l’umanità. “Io ci aggiungerei anche la parola ‘sorellanza’ – dice – sentimento del quale questo mondo occidentale ha disperatamente bisogno”. L’attenzione della femminista si concentra anche sulle occidentali convertite. Scrive che in Francia una musulmana su tre è una convertita, e a loro i mariti devono l’ottenimento della cittadinanza. Cos’è successo a queste donne “cresciute in paesi dove le loro antenate hanno duramente combattuto per la parità? A muovere queste donne sono soprattutto la paura della libertà e della responsabilità, ma anche un masochismo tutto femminile”. Ancora più inquietante è la capacità della società occidentale a far finta di non vedere: “In Germania quasi tutti i mass media hanno scritto con una certa supponenza del dibattito sul velo condotto in Francia e della battaglia per imporne il divieto. Ci si chiedeva: i francesi non hanno altro a cui pensare? Quasi a dire (e alcuni l’hanno anche scritto): noi questo problema non ce l’abbiamo. Affermazione che mi lascia basita. E’ da molto tempo che ogni volta che passeggio per il centro di Colonia vedo almeno due o tre di queste donne imbacuccate dalla testa ai piedi, fagotti che corrono dietro ai loro maschi vestiti casual con jeans e camicia alla moda. Ditemi: per quanto tempo vogliamo ancora far finta di non vedere questo spettacolo di vero schiavismo?”. Schwarzer ce l’ha soprattutto con organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International, secondo le quali vietare il burqa finisce per stigmatizzare chi lo porta e calpestare i diritti umani; e ancora con i rappresentanti della sinistra europea, come la socialista Martine Aubry, convinta che con i divieti non si fa che aumentare l’isolamento di queste donne. “Come se potesse essere ancora più isolata di quel che non è già, la donna sotto il burqa”. E’ un tipo di paternalismo, scrive Schwarzer, non nuovo nella sinistra europea, mentre stupisce che proprio questa sinistra abbia lasciato completamente in mano alla destra, ai conservatori e anche ai populisti, la lotta contro l’islamizzazione. “I motivi di questo amore della sinistra per tutto quello che è straniero, un amore che può essere visto anche come l’altra faccia della xenofobia, sembrano molteplici. Vanno dall’indifferenza assoluta e dai sensi di colpa fino a una discriminazione di base, propria ai nipotini di Michel Foucault e Claude Lévi-Strauss. Perché proprio questi circoli hanno festeggiato a lungo l’offensiva dell’islamismo come ‘rivoluzione del popolo’. Foucault è stato uno dei primi e più convinti sostenitori della teocrazia iraniana”. Quanto tempo ci vorrà, torna a chiedere Schwarzer, per smetterla di non vedere questo esercito di donne che si aggirano tra di noi, invisibili e prive dei più elementari diritti? Schwarzer ricorda la filosofa Elisabeth Badinter, una delle pochissime voci levatesi dalla sinistra, che già durante il primo dibattito sul velo in Francia nel 1989 sosteneva che il velo aveva un’unica funzione, “velare e ottundere la ragione”. In questi ultimi mesi prima dell’approvazione del divieto, si era rivolta direttamente alle portatrici di burqa e niqab: “Ai vostri occhi siamo così spregevoli e impuri da dover evitare qualsiasi tipo di contatto, anche un sorriso accennato, con noi? Oppure usate gli strumenti della libertà democratica per abolire la libertà? E’ uno schiaffo in viso aperto a tutte le vostre sorelle che per quella libertà che voi tanto sprezzate rischiano la vita”.

L'OCCIDENTALE - Valentina Colombo : "  Un islam senza burqa è possibile, lo dicono i mussulmani europei " 


Angelo Scola

«La libertà è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano dato agli uomini» disse don Chisciotte a Sancho. Parole sacrosante del genio Cervantes che mi sono venute in mente alla lettura delle dichiarazioni del Patriarca di Venezia Angelo Scola riguardo alle iniziative anti-burqa nella sua regione, in particolare, e alle legislazioni restrittive in Francia e Belgio. “La libertà religiosa è integrale o non è. Non si può rinunciare a questo principio. La questione del velo verrebbe affrontata in modo più equo all’interno del normale ambito sociale piuttosto che con una legge” ha dichiarato Scola. A questo punto bisogna innanzitutto chiarire che il burqa, o niqab o velo integrale che dir si voglia, non è un obbligo religioso islamico, ma semplicemente il frutto di una interpretazione errata e integralista dei testi religiosi. Non sarebbe un precetto islamico nemmeno il velo semplice, o hijab, poiché quest’ultimo termine ricorre solo una volta nel testo coranico con il semplice significato di “cortina”, tenda che doveva separare le mogli di Maometto dagli estranei presenti nella loro abitazione. Se così stanno i fatti risulta evidente che non si tratta più di libertà religiosa, bensì di libertà di imporre, se vista dalla parte degli uomini, ciò che la religione non prevede. Non si tratta più di libertà religiosa, bensì la libertà di indossare, se vista dalla parte delle donne, un simbolo ideologico e politico, ma che non ha nulla a che fare con l’islam. Tutto ciò si evince anche da quanto sta accadendo nel mondo islamico stesso. Molto esplicita è stata la sentenza della corte costituzionale del Kuwait dell’ottobre 2009. Ebbene quando alcuni deputati conservatori hanno sollevato la questione che due delle quattro deputate, ovvero Rola Dashti e Aseel al-Awadhi, non erano velate – e il riferimento qui era il hijab non il niqab - e che quindi contravvenivano alla legge elettorale che prevedeva che chiunque entrasse in parlamento dovesse vestire in conformità alla sharia, la Corte costituzionale ha stabilito che la Costituzione garantisce totale libertà personale e non discrimina in base al genere e alla religione e che quindi le due deputate avevano tutto il diritto di esercitare la loro funzione a prescindere dal fatto che indossassero o meno il hijab in quanto ciò non inficia la loro appartenenza o meno all’islam. Si è trattato di una sentenza storica il cui punto di partenza è lo stesso del cardinale, ma il risultato direi è opposto. In Europa si considera il velo – integrale o parziale – un simbolo religioso, mentre nel mondo islamico, soprattutto nel caso del velo integrale, si vuole sottolinearne la non “islamicità”. A riguardo è interessante ricordare altri due fatti, l’uno accaduto in Italia l’altro sempre in Kuwait. Nel maggio scorso a Novara una donna con il velo integrale è stata multata con un’ammenda di 500 Euro perché si è rifiutata di farsi riconoscere, ovvero di togliersi il velo, dalle forze polizia, considerando la richiesta un oltraggio alla propria persona. Ebbene, pochi giorni prima in Kuwait, ribadisco paese dove il velo integrale è molto diffuso, compare su uno dei quotidiani più diffusi, il Kuwait Times, un articolo in cui si discute sulla liceità o meno per le donne con il velo integrale di guidare l’auto. Nell’articolo vengono riportate alcune dichiarazioni, tra cui quella della ventisettenne Latifa al-Ajmi che sottolinea che il niqab non le impedisce assolutamente di guidare in tutta tranquillità, ma al contempo ricorda che “quando ci sono posti di controllo e i poliziotti mi chiedono di mostrare il viso per verificare la corrispondenza della mia persona con la fotografia della patente, lo faccio. E’ una necessità, devono sapere chi guida l’auto”. La ragazza ribadisce altresì che il niqab non ha alcun legame con la religione. Questi fatti dovrebbero fare riflettere chi, come il cardinale Scola, confonde la libertà religiosa con la libertà di indossare il niqab. Di recente alcuni locali del litorale mediterraneo nei pressi di Alessandria d’Egitto, alcuni ristoranti e circoli del Cairo, hanno vietato l’ingresso alle donne non solo con il niqab, ma anche con il velo. D’altronde questi locali negli anni Cinquanta e Sessanta erano frequentati solo da donne e uomini del tutto simili ai frequentatori dei locali pubblici di Roma e Parigi. Anche in Siria il Ministro dell’Educazione superiore, Ghiyath Barakat, pochi giorni fa ha espresso l’intenzione di vietare l’ingresso nelle università siriane alle studentesse con il velo integrale poiché “i nostri studenti sono nostri figli e non li lasceremo cadere nella morsa di idee e usanza estremiste”. Forse sono queste le notizie e le persone che il cardinale Scola dovrebbe ascoltare e sulle quali dovrebbe riflettere. E si accorgerebbe altresì che l’islam “moderato” – termine che sostituirei volentieri con islam liberale e democratico – esiste e che non è, come ha dichiarato nello stesso intervento alla Reuters, rappresentato da “pochi intellettuali occidentalizzati le cui riflessioni possono essere molto interessanti, ma raramente sono espressive del fenomeno musulmano che riguarda un miliardo di persone”. Direi che un ministro siriano sarà tutto fuorché un intellettuale occidentalizzato, che un gestore di uno stabilimento balneare di Alessandria d’Egitto sarà tutto fuorché un intellettuale occidentalizzato. E’ vero i musulmani sono un miliardo e trecento milioni, ma proprio per questo e proprio perché l’islam non prevede un rapporto mediato tra l’uomo e Dio, potremmo per assurdo trovarci d’innanzi a un miliardo e trecento milioni di islam diversi. Perché mai dovremmo “demonizzare” i musulmani liberali al pari degli estremisti islamici che li vorrebbero morti in quanto apostati? I musulmani liberali e democratici non sono solo intellettuali, ma sono attivisti che si adoperano per proteggere le donne vittime di violenze e abusi, persone che lavorano e che hanno una famiglia e le cui priorità non sono la moschea o il velo, ma uno stipendio a fine mese, una casa e una vita serena. Quando il cardinale afferma che “Quando una comunità musulmana chiede uno spazio per la costruzione di una moschea, si dovrà verificare concretamente se questa richiesta è proporzionata al bisogno effettivo della comunità, quanto grande è la comunità che lo richiede e chi la rappresenta” cade in un ennesimo tranello. A quale comunità si riferisce? Si riferisce forse alle pseudo “comunità islamiche” che non sono altro che associazioni onlus? Si riferisce alla mitica e inesistente umma? Sarebbe il caso di aprire finalmente gli occhi e comprendere che nell’islam non esiste un’autorità, che nessuno può rappresentare i musulmani, che ciascuno rappresenta solo se stesso. Sarebbe il caso di comprendere che non dobbiamo fare riferimento ai “musulmani europei”, cui tanto si rivolge Tariq Ramadan, bensì a tutti coloro che si sentono “europei musulmani”. Questi ultimi esistono e ribadisco non sono solo “intellettuali occidentalizzati”, ma persone che condividono i nostri valori e che come Gamal Bouchaib, leader del movimento dei musulmani moderati in Italia, a proposito del burqa dicono a chiare lettere: “"Nonostante certi personaggi invochino il diritto alla libertà religiosa, scambiando quella che è un'usanza tribale e medievale per un precetto religioso, non siamo disposti a cedere a questo ricatto. Queste persone sono rimunerate dagli estremisti che comprano a suon di denaro il silenzio e la compiacenza. Il burqa rappresenta il simbolo più visibile di una strategia politica tesa a diffondere la visione integralista dell'islam. Se l'Europa non lo comprende subito, presto sarà troppo tardi". Forse il cardinale Scola farebbe bene ad ascoltare queste persone, i veri musulmani e non i rappresentati di un inesistente “unico e vero” islam.

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Ora anche le donne ebree si mettono il burqa"

Micalessin scrive : " Una differenza tra il culto del «niqab» e quello della «frumka» però c’è. Mentre nei paesi arabi e nelle comunità islamiche più integraliste gli uomini aderiscono di buon grado alla volontà femminile di scomparire sotto una veste nera in Israele i maschi ortodossi si guardano bene dall’avvallare la nuova tendenza.". Nelle comunità islamiche integraliste non sono le donne a decidere di nascondersi sotto ad un burqa, ma sono gli uomini ad imporlo. E' sbagliato scrivere che essi 'aderiscono di buon grado'. Semmai sono le donne che aderiscono 'di buon grado', per non finire lapidate. C'è un aggettivo per definire le donne che si mettono il burqa per libera scelta : fanatiche.
Ecco l'articolo:

A Kabul lo chiamano burqa, a Riad «niqba», a Gerusalemme «frumka», ma se non è zuppa è pan bagnato. Tra il mantello nero delle fondamentaliste islamiche e i sacchi a strati indossati dalle fanatiche ebree che da qualche anno girano per i quartieri ultraortodossi di Beit Shemesh e Mea Shearim cambia poco. Il «frumka» -come lo chiamano loro - ha la stessa funzione di «niqba» e «burqa». Deve garantire la modestia della donna, impedire agli sguardi impuri degli uomini di posarsi su di lei, lasciarla pura e incontaminata per il marito e Dio. E allora vai con i tendaggi. La «rabbanit» Bruria Keren, la discussa santona che qualche anno fa si propose come portabandiera della nuova tendenza non incontrava nessuno prima di essersi nascosta sotto dieci spesse gonne, sette lunghi mantelli, cinque fazzoletti annodati al mento e tre alla nuca. Il tutto corredato da una mascherina di stoffa da cui sbucavano solo gli occhi. La «rabbanit» di Beit Shemesh, la roccaforte dell’ortodossia ebraica alle porte di Gerusalemme, non durò molto. All’inizio del 2008, pochi mesi dopo la diffusione dello strampalato culto, la polizia l’arrestò accusandola di aver seviziato i dodici figli e di averli costretti a pratiche incestuose. La condanna a 4 anni inflitta alla santona del «frumka» non fermò le sue seguaci che continuarono a far proseliti. Oggi le «talebane ebree», come le ha battezzate la stampa israeliana, contano centinaia di adepti e imperversano in vari quartieri compreso Mea Shearim il cuore dell’ortodossia di Gerusalemme.
Una differenza tra il culto del «niqab» e quello della «frumka» però c’è. Mentre nei paesi arabi e nelle comunità islamiche più integraliste gli uomini aderiscono di buon grado alla volontà femminile di scomparire sotto una veste nera in Israele i maschi ortodossi si guardano bene dall’avvallare la nuova tendenza. Benché a Mea Shearim e nella stesa Beit Shemesh le ronde ortodosse impongano alle donne di usare bus separati e di vestirsi «con modestia» i sacchi ambulanti non sono né amati, né approvati. I primi a combattere la rivoluzione integralista sono gli ultraortodossi di sesso maschile. «Quelle donne erano delle povere pazze e noi l’abbiamo sempre saputo, ora le nostre impressioni sono state pienamente confermate fra un po’ quelle poverette la smetteranno di dedicarsi a quelle insane credenze» - dichiarò dopo l’arresto della Keren Shmuel Poppenheim portavoce di Eda Haredit, uno dei più intransigenti gruppi dell’ortodossia ebraica. Ma il proliferare dei sacchi ambulanti ha contraddetto le sue o previsioni e così «Eda Haredith» - un nome che significa «setta dei timorati» - ha deciso di portare la questione davanti ai rabbini della Corte di Giustizia la più alta istituzione del gruppo ortodosso.
La questione non è propriamente solo estetica. Da quando il numero delle affiliate si conta a centinaia la questione della «frumka» si è trasformata in un problema educativo. I figli, e soprattutto le figlie, delle seguaci di Bruria Keren spesso si ritrovano isolati dagli altri bambini e chiedono di non andare più a scuola. Una richiesta cui le madri - sostenitrici della necessità di un’educazione rigorosamente religiosa - sono spesso felici di acconsentire. Le figlie delle «ebree talebane» rischiano così - al pari delle bimbe dell’Afghanistan fondamentalista - di crescere senza aver mai messo piede in una scuola. Proprio per questo i rabbini della Setta dei Timorati potrebbero decretare l’inammissibilità della «frumka» e la messa al bando di tutte le sue adepte.

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