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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale-Il Foglio-La Stampa-L'Opinione-Corriere della Sera Rassegna Stampa
10.10.2009 Obama Premio Nobel per la pace: i commenti di Fiamma Nirenstein,Christian Rocca, Maurizio Molinari, Norman Podhoretz,Stefano Magni, Pierluigi Battista
il nostro, di Ugo Volli, in altra pagina

Testata:Il Giornale-Il Foglio-La Stampa-L'Opinione-Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein,Christian Rocca, Maurizio Molinari, Norman Podhoretz,Stefano Magni, Pierluigi Battista
Titolo: «Il Premio Nobel per la pace a Barack Obama»
Il Premio Nobel per la pace a Barack Obama invade le prime pagine, e a seguire quelle interne, di tutti i giornali. Evitiamo quindi le cronache, che i nostri informatissimi lettori conoscono già, e scegliamo i commenti più significativi. Fiamma Nirenstein sul GIORNALE, Christian Rocca sul FOGLIO, Maurizio Molinari sulla STAMPA, dove intervista anche Norman Podhoretz, Stefano magni sull' OPINIONE, Pierluigi Battista sul CORRIERE della SERA.
 Barack Obama, il suo primo successo
IL GIORNALE- Fiamma Nirenstein: " Un regalo a chi vuole gli Usa più deboli "
 
  Fiamma Nirenstein
Fossi Barack Obama, mi si scusi l’azzardo, direi al comitato che mi ha assegnato il premio Nobel per la pace: «Gentilissimi signori, è meraviglioso quello che mi capita, e ve ne sono grato: ma fatemi un piacere tenetevi in un cassetto questo premio, assegnatelo magari a un’afghana, che in questo momento laggiù le donne ne hanno parecchio bisogno: conservatemelo per il prossimo anno. Se me lo sarò meritato, lo verrò a ritirare». Ma Barack è Barack, e si vede benissimo che il suo modo di vedere se stesso è quello di chi pensa che qualsiasi lode, qualsiasi onore, sia un po’ meno di quel che si merita. Che è la sua essenza, progressista e finalmente realizzatrice della riscossa di neri americani, che merita il Nobel: e non ci convincono le sue parole di modestia. Obama fin dal primo giorno è stato gratificato di aspettative gigantesche, che egli ha alimentato con toni messianici e palingenetici, ovvero suggerendo sempre che ora che era arrivato lui cambia tutto.
E la giuria del Nobel, ci crede. Perché è chiaro che questo premio gli viene dato non certamente per quel che ha fatto, ma per ciò che Obama è. Il povero Bill Clinton che ha lavorato anni e anni con le unghie e con i denti a cercare la pace in Medio Oriente e in Irlanda non ha avuto il premio. È vero che non ce l’ha fatta, ma almeno ha sudato parecchio. La sua intenzione era molto più chiara e anche più articolata, per esempio, di quella di Obama. Obama invece si è insediato solo due settimane prima della deadline delle nomination, il 2 di febbraio, eppure con intuizione profetica il comitato già sapeva con quale uomo di pace aveva a che fare. Per favore. Il premio a Obama deriva da una valutazione di immagine, valorizza la parte iconografica del personaggio. E il resto dei motivi è populista, e questo non fa bene né a Obama né alla pace. In inglese si chiama politically correct. In italiano, è basso senso comune. Non c’è nulla come la pace che faccia alzare gli occhi al cielo in un virtuoso sospiro di afflato universale.
Obama per questo ha preso il premio Nobel. Per una serie, per ora, di pie illusioni: ha predicato il multilateralismo mentre tutti quelli che avrebbero dovuto partecipare al suo progetto di pace universale continuano diritti sulla loro strada; ha fatto come se fosse aperta una porta per parlare con l’islamismo anche quello più estremo, e i terroristi non risulta davvero che abbiano cambiato idea. Perché si è stranamente semigenuflesso di fronte a un sovrano saudita; perché durante il discorso del Cairo si è immaginato che il sincretismo che è nella sua biografia fosse trasferibile al mondo intero, che bastasse dire io ho fatto del male a te tu a me, ma ora c’è Obama, vogliamoci bene; perché è sembrato molto sicuro di sé nell’azzardo di parlare con Ahmadinejad ottenendo tuttavia a Ginevra durante i colloqui dei risultati alquanto dubbi e anche pericolosi. Obama ha promesso di chiudere Guantanamo e poi non ce l’ha fatta, si dibatte nella morsa della guerra in Afghanistan ripercorrendo di fatto le orme di George Bush. All’incontro di Pittsburgh, dopo il discorsone universale dell’Onu, è stato costretto ad annunciare la centrale nucleare segreta iraniana di Qom.
Obama invece di una guerra preventiva non fa che promettere una pace preventiva: e fa specie che non si renda conto che se lo stallo della sua pace preventiva dovesse portare invece alla bomba atomica iraniana, questo creerebbe una quasi certa prospettiva di guerra. O che Israele infatti sarebbe costretta ad affrontare il problema da sola con un attacco cui seguirebbe una risposta balistica; o che gli Usa stessi, come suggerisce l’ordinazione di una micidiale bomba che distrugge i bunker annunciata dal Pentagono, deciderebbero di agire. Altrimenti, l’Iran potrebbe tentare delle azioni di disturbo che metterebbero a ferro e fuoco il Medio Oriente per misurare la sua nuova potenza. E comunque, l’atmosfera di paura indotta da questo nuovo clima di pace obamiana è tale che la corsa alle armi, anche atomiche, nei paesi arabi è cresciuta verticalmente. Obama nella sua reazione al premio Nobel non ha potuto fare a meno di menzionare di nuovo la questione israelo-palestinese. Niente è più insicuro che puntare su una pace fra Netanyahu e Abu Mazen mentre Hamas è al potere a Gaza, niente è più fallace che creare un’opinione pubblica che si immagina che se Israele cederà territori allora cesseranno tutti gli scontri col mondo islamico, quelli talebani, quelli con Al Qaida, quelli con Hezbollah, e anche il terrore nelle città occidentali... La pace di Obama oltretutto è molto delimitata, non contempla quelle zone in cui la realpolitik ne potrebbe essere danneggiata, come per esempio la guerra del Darfur, o quella dei cinesi contro gli uiguri, o quella in Yemen... La sua idea di un mondo felice non si occupa molto di diritti umani: solo due giorni fa Obama non ha trovato il tempo che si ricevesse il Dalai Lama alla Casa Bianca, primo rifiuto in 18 anni; mai lo si è sentito avvero impegnato per salvaguardare i diritti dei perseguitati, uccisi, torturati, del regime iraniano, e ultimamente i fondi di alcune organizzazioni di dissidenti sono stati tagliati. Obama si prende il Nobel come un giornalista si prenderebbe un Pulitzer sul progetto di un’inchiesta, o di un libro. Buon per lui, peggio per i lettori.

IL FOGLIO- Christian Rocca: " WOW, Obama è più bello che pacifico "

 Christian Rocca

Il presidente americano Barack Obama ha vinto il premio Nobel per la Pace “per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”. “Wow”, ha commentato la Casa Bianca. Doppio wow, in realtà, perché se questa è la motivazione ufficiale non si può fare a meno di aggiungerne un’altra, ancorata più ai fatti che alle intenzioni di campagna elettorale: Obama è il presidente che in soli nove mesi è riuscito a non cambiare la politica di sicurezza nazionale americana del suo predecessore George W. Bush. Ormai se ne sono accorti tutti, di qua e di là dell’oceano, tranne i giurati di Oslo. La copertina dello storico settimanale della sinistra britannica NewStatesman, solo per citare l’ultimo esempio, è titolata “Barack W. Bush”, ma sono ormai centinaia le dichiarazioni di intellettuali, editorialisti e militanti della sinistra liberal convinti che il primo mandato di Obama sia una versione politicamente corretta del terzo di Bush. La presidenza Obama è decisamente più bella che pacifica: dall’Iraq non è ancora andato via un soldato e quando gli americani cominceranno lentamente a ritirarsi lo faranno secondo un calendario deciso dal governo iracheno e da Bush. In Afghanistan, il neo premio Nobel per la pace ha raddoppiato il contingente militare rispetto agli anni di Bush e, in queste ore, sta valutando l’ipotesi di mandare altri 40 mila uomini che si andranno ad aggiungere ai nuovi soldati chiesti ai paesi della Nato e, forse, anche alla Cina. Di sicuro, non ci sarà una riduzione di truppe né un disimpegno da quella che Obama ha definito “guerra giusta”. Obama non ha soltanto aumentato la forza di fuoco americana in Afghanistan, come peraltro aveva promesso senza che a Oslo se ne accorgessero, ma ha esteso e ampliato le operazioni belliche al Pakistan. Da quando il pacifico Obama è diventato presidente degli Stati Uniti gli attacchi missilistici sui villaggi tribali del Pakistan sono stati quarantadue, con 460 morti accertati, compresi gli oltre novanta uccisi durante il bombardamento sul funerale di un leader talebano. E anche sull’Iraq, la cosiddetta guerra “stupida” che Obama non avrebbe mai intrapreso (ma nel 2002 non era ancora senatore), il neo Nobel ha precedenti non proprio pacifisti: nel maggio 2005 ha votato a favore del finanziamento da 82 miliardi di dollari per la guerra, così come nel giugno 2006, quando ha approvato la richiesta di Bush di 94 miliardi e mezzo di dollari. Stesso voto, “sì”, alla richiesta del settembre 2006 di finanziare le attività del Pentagono con 448 miliardi di dollari, compresi 70 per le operazioni militari in Iraq e Afghanistan. Nell’aprile del 2007 ha dato l’ok ad altri 90 miliardi, ma con la richiesta di ritirare obbligatoriamente le truppe (Bush ha posto il veto). Soltanto nel maggio del 2007 è arrivato il primo “no”, mentre all’ulteriore richiesta del dicembre 2007 ha preferito astenersi dal voto. Nel 2008, Obama ha detto ancora “sì” alla guerra e alla legge speciale del Senato che affidava ai militari altri 162 miliardi di dollari, assieme a vari altri provvedimenti sociali e d’emergenza. Obama ha votato “no” al “surge” in Iraq, la nuova strategia politico-militare che ha di fatto chiuso i combattimenti in Iraq, ma poi ha riconosciuto che è stata “un successo al di là delle più rosee aspettative”. Il ministro della guerra di Obama è lo stesso di Bush, il repubblicano Bob Gates. Il generale che sovraintende le operazioni militari è l’eroe di Bush, David Petraeus. Così come il capo di stato maggiore, Mike Mullen. Anche il generale che guida la guerra in Afghanistan, Stan McChrystal, è uno di Bush, tanto da aver guidato le operazioni speciali in Iraq. Guantanamo è ancora aperto e la promessa di chiuderlo entro l’anno non sarà rispettata. Una volta che il carcere nell’isola di Cuba sarà chiuso, ammesso che capiterà mai, i detenuti verranno trasferiti in supercarceri in territorio americano meno confortevoli della “base della vergogna”. Il campo di Bagram, in Afghanistan, dove da anni finiscono i detenuti della guerra al terrorismo, è apertissimo e Obama non ha intenzione di chiuderlo, anzi ne ha ordinato l’ampliamento. Obama ha vietato le “tecniche di interrogatorio avanzato” elaborate dalla Cia di Bush, ma le pratiche più controverse, come l’annegamento simulato (“waterboarding”), erano state abbandonate già nel 2003 e in totale sono state applicate soltanto su tre detenuti. Le extraordinary rendition, ovvero i rapimenti clandestini dei terroristi in paesi stranieri, continuano di buona lena. Il Patriot Act, che aveva fatto gridare allo stato di polizia, è pronto per essere rinnovato, su esplicita richiesta di Obama. L’espansione del potere esecutivo segue la tendenza “imperiale” inaugurata da Bush e Cheney e per i detenuti di al Qaida non cambia nulla rispetto all’epoca precedente: alcuni saranno trasferiti in paesi terzi, altri processati nelle corti militari speciali, create da Bush, mentre i superterroristi come prima, saranno rinchiusi senza processo e a tempo indeterminato. L’approccio internazionale di Obama, guerre a parte, è diverso rispetto a quello del Bush del primo mandato, sia in termini di toni usati sia di disponibilità a trattare con i nemici. Il nuovo presidente ha promesso un’apertura all’Iran, un accordo con la Corea del nord, grandi sforzi diplomatici in giro, un mondo denuclearizzato, un impegno formidabile contro il surriscaldamento terrestre (anche se da senatore dello stato dell’Illinois aveva votato contro il Trattato di Kyoto). Ma nonostante un uso delle parole più conciliante rispetto al predecessore, “la spina dorsale della politica americana espressa da Obama resta simile a quella dell’Amministrazione Bush” (New York Times, 24 settembre 2009). Di pace, nemmeno l’ombra. Nove mesi dopo l’Iran ha represso nel sangue l’opposizione, ha condotto test missilistici e continua ad arricchire uranio, anche in strutture segrete scovate dai servizi occidentali. C’è stato un colloquio a Ginevra che segue quello dell’anno scorso alla presenza di un inviato di Bush, William Burns, che è esattamente lo stesso scelto ora da Obama. Il Pentagono, intanto, sta intensificando la produzione delle speciali bombe anti bunker, inutili in Iraq e Afghanistan, ma decisive contro i siti nucleari iraniani. La Corea del nord ha condotto un paio di test nucleari e missilistici, mentre l’America continua a inquinare più del resto del mondo, senza che la Casa Bianca riesca a far approvare un taglio delle emissioni in tempo per i prossimi trattati. Il comitato del Nobel ha ammesso che per alcuni osservatori l’assegnazione del premio a un presidente neoeletto potrebbe essere “prematura”. Caustico il commento dell’Economist: “Non si applaude mai il tenore quando si schiarisce la voce”. Qualcuno, a sinistra, suggerisce a Obama di rifiutare il premio, “perlomeno fino a quando non finisce le sue due guerre”. Lo stesso Obama, un po’ imbarazzato, ha detto che non lo considera un riconoscimento per ciò che ha fatto, ma un invito a un maggiore impegno. E, a proposito di imbarazzi, per rispetto del regime cinese, un paio di giorni fa Obama ha rifiutato di incontrare il Dalai Lama, ora suo collega Nobel per la pace.

LA STAMPA- Maurizio Molinari: " E' il trionfo della sua mano tesa"

 Maurizio Molinari

Aperture ai nemici, promesse di «mutuo rispetto», lettere segrete, summit e gesti di plateale rottura con l’eredità di Bush costellano undici mesi di iniziative con le quali Barack Obama ha voluto dimostrare di tendere la mano agli avversari degli Stati Uniti raccogliendo però finora scarsi risultati. È dall’insediamento del 20 gennaio a Washington che Obama fa capire di voler aprire agli avversari: propone all’Islam un patto fondato sul «mutuo rispetto e interessi comuni», che poi declina nei discorsi di Ankara e del Cairo sull’America «non nemica dei musulmani», in una raffica di proposte mirate a fare breccia fra i seguaci di Maometto. È un obiettivo strategico di lungo termine ma ha un duplice intento immediato: scongelare la crisi mediorientale e aprire la strada al negoziato diretto con l’Iran sul nucleare. Ma sul primo fronte i veti incrociati di Stati arabi, israeliani e palestinesi consentono solo progressi apparenti, mentre sul secondo le cose vanno ancora peggio.
Prima delle elezioni a Teheran, Obama consegna al «messaggio di Nowruz» - il capodanno persiano - un appello al dialogo diretto col popolo iraniano, che accompagna con l’invio segreto di almeno due lettere al Leader Supremo Ali Khamenei, nelle quali propone al regime negoziati sul nucleare. Ma i disordini di piazza a Teheran dopo le presidenziali che riconfermano Mahmud Ahmadinejad azzerano entrambi i canali. Obama non demorde e, il primo ottobre, rilancia ancora, mandando l’inviato William Burns a Ginevra a partecipare ai colloqui multilaterali con Teheran. Tutto però appare molto precario. Obama fa molti passi falsi ma, sostenuto dal guru politico David Axelrod e dal consigliere-mastino Rahm Emanuel, va avanti dove può nel dialogo.
A Damasco è l’inviato John Kerry che ottiene dal presidente Bashar Assad più collaborazione contro gli jihadisti in Iraq, mentre è con la Cuba di Raul Castro che si registrano i maggiori progressi, grazie alla riduzione delle sanzioni Usa. Con la Corea del Nord la carta più importante si rivela Bill Clinton, che con un blitz di dieci ore sbarca a Pyongyang, libera due giornaliste americane sequestrate e ottiene da Kim Jong-il l’impegno a tornare al negoziato sul programma nucleare. A Hillary, Segretario di Stato, tocca invece tendere la mano alla giunta militare birmana. Con il venezuelano Hugo Chávez e con il libico Muammar Gheddafi ci sono due fugaci strette di mano, a Trinidad e L’Aquila, che servono per ribadire la fine dei tabù. Fra gli Stati che Bush inserì nel ristretto club degli «Stati canaglia» Obama mantiene la quarantena solo per lo Zimbabwe di Robert Mugabe.
A rafforzare l’impatto delle aperture di Obama sono i gesti di rottura con l’eredità di Bush: la scelta di sposare tagli drastici dei gas serra, la denuncia delle torture compiute dalla Cia, l’accento sulla necessità di «aiuti civili» all’Afghanistan e l’annuncio della chiusura di Guantanamo anche se, in quest’ultimo caso, il ministro della Giustizia Eric Holder è obbligato a una marcia indietro, ammettendo che «non avverrà come speravamo entro fine anno».
L’idea di leadership americana che Obama vuole proiettare è quella che riassume, prima a Londra e poi a Strasburgo, nella frase «creare alleanze per aiutare il mondo a trovare le risposte migliori ai problemi comuni». Per comprendere che cosa intenda, bisogna guardare verso Mosca: pianifica con il presidente Dmitri Medvedev i nuovi tagli agli arsenali strategici e gli consegna la rinuncia al sistema di difesa antimissile ideato da Bush in cambio di una mera duplice promessa, sull’intesa contro la bomba di Teheran e sulla nascita di un nuovo regime internazionale contro la proliferazione in primavera al summit di Washington.
Obama cede oggi, puntando a ottenere domani. Lo fa anche con l’Iraq di Nuri al Maliki, accettando il totale ritiro delle truppe entro il 2011 in cambio della promessa di discutere le basi permanenti, e con la Cina di Hu Jintao, rinunciando a vedere il leader tibetano Dalai Lama prima del viaggio di novembre a Pechino, dove discuterà la nuova architettura dell’economia globale. È un approccio che rovescia il tradizionale ruolo della potenza americana. Obama prima tende la mano, facendo concessioni, poi aspetta pazientemente di incassare i risultati. Molti centri studi americani sollevano dubbi sull’efficacia del metodo, ma per il comitato del Nobel proprio questa novità è valsa l’assegnazione del premio per la Pace.

LA STAMPA- Maurizio Molinari: " Ridicolo premiare le buone intenzioni "

 Norman Podhoretz

Il premio Nobel per la pace ha perso ciò che restava della propria credibilità». Norman Podhoretz, padre del pensiero neoconservatore, non lesina critiche di fronte all’assegnazione del premio a Barack Obama.
Che cosa non non la convince?
«Se leggiamo bene la motivazione del riconoscimento, ci accorgiamo che l’Accademia di Oslo ha voluto premiare le intenzioni dimostrate da Obama subito dopo la sua elezione a presidente. Non si tratta dunque di un premio per qualcosa che lui ha fatto o per un risultato ottenuto, ma di una dimostrazione di sostegno, direi di tifo sportivo, per quello che lui ha promesso di fare. Il Nobel va solo al mito che circonda Obama, all’alone di attesa profetica creato dai sostenitori durante la campagna elettorale del 2008. A mio avviso è una vera barzelletta, se non addirittura un’autentica frode».
E’ un giudizio molto severo...
«Guardi, non è la prima volta che il Nobel per la Pace viene assegnato in maniera quantomeno ambigua. Pensiamo alla decisione di darlo al leader dell’Olp Yasser Arafat, un autentico terrorista con le mani grondanti di sangue. E non è stato l’unico personaggio di questo tipo a essere premiato. Il comitato ha un’agenda politica che poco ha a che vedere con la realtà. Nel caso odierno hanno scelto di incoronare l’utopia messianica della pace universale incarnata da Obama agli occhi di chi lo ha votato. La giuria del Nobel entra così nel novero di quei sostenitori politici che vedono in Obama un moderno profeta biblico, capace di trasformare miracolosamente il Male in Bene. Poco importa che quest’aura profetica si sia dissolta da tempo a causa dei numerosi errori compiuti, dal mancato sostegno ai manifestanti iraniani ai tentennamenti in Afghanistan contro i taleban. Tutto ciò ai miei occhi conferma l’ulteriore, definitiva, delegittimazione di un premio che viene attribuito al fine di sostenere precise posizioni politiche».
Quali saranno gli effetti di questo Nobel in America?
«Credo che il Nobel aiuterà Obama a riconquistare molte simpatie perdute a sinistra, intendo fra i liberal. Non c’è dubbio che nella sua base elettorale vi sono numerose crepe. I liberal non concordano con la guerra in Afghanistan, sono irritati per i ritardi della riforma sanitaria e vorrebbero che il carcere di Guantanamo fosse chiuso già da tempo. Non solo: la recente sconfitta di Chicago nella corsa ai Giochi Olimpici del 2016 ha fatto vistosamente vacillare la speranza che Obama potesse mietere facili consensi all’estero. Ora invece i liberal possono tornare ad accarezzare l'esistenza del loro mito. E la Casa Bianca di conseguenza tira un sospiro di sollievo».
E fra coloro che non sono liberal?
«Si tratta di conservatori, gente come me, che non ha mai creduto in Obama e dunque non si sorprende nel vederlo sostenuto all’estero da una istituzione priva di credibilità. Per i conservatori la giuria del Nobel ha un’agenda politica, vuole rafforzare una certa America a dispetto di un’altra, senza alcuna attenzione per quanto in realtà avviene. Per noi conservatori questa non è una sorpresa, ma la conferma che Obama incarna una stagione di pericolosi sogni vanesi condivisi da un gran numero di persone».
Vi saranno ripercussioni sulla decisione che Obama deve prendere sull’invio di nuovi rinforzi in Afghanistan?
«Avendo l’aureola del profeta di pace potrebbe essere spinto a non mandare i rinforzi. E sarebbe il più grave degli errori».

L'OPINIONE- Stefano Magni: " Obama, santo subito !"

All’ottavo mese di presidenza degli Stati Uniti, al 44mo inquilino della Casa Bianca è già stato assegnato il Premio Nobel per la Pace. E Oslo ha battuto un altro primato. Non si tratta sicuramente del primo riconoscimento per la pace assegnato a un presidente degli Usa. Il primo a riceverlo fu infatti Theodore Roosevelt nel 1906. Erano altri tempi. Il presidente repubblicano, noto per il suo motto “Speak softly and carry a big stick” (parla a bassa voce e porta con te un grosso randello), fu un grande mediatore ed ebbe un ruolo determinante nel porre fine a due crisi nei Caraibi, oltre che alla guerra russo-giapponese del 1904-5, azione quest’ultima che gli procurò il Nobel. Ma tenne sempre, in ogni caso, un “grosso randello” con sé, dispiegando la flotta statunitense in ognuna delle crisi che affrontò. Più idealista, quasi un profeta, fu il secondo presidente a stelle e strisce che si meritò il Nobel nel 1919: Woodrow Wilson. Il suo ruolo fu determinante nel concludere (combattendola negli ultimi due anni) “la guerra che porrà fine a tutte le guerre”, per usare le sua stessa definizione della I Guerra Mondiale. Ispiratore principale della Società delle Nazioni (l’antenata dell’Onu) tentò per la prima volta di creare un ordine mondiale fondato sulle democrazie. L’intento, pur nobile, andò in fumo a causa del successivo ritiro americano dal progetto e con l’affermazione delle dittature europee. Jimmy Carter, terzo presidente a vincere il Nobel, non riuscì a porre fine alla Guerra Fredda e non rese il mondo più pacifico: le rivoluzioni in Iran, Salvador e Nicaragua e la guerra in Afghanistan scoppiarono tutte nel corso del suo mandato. Carter rimane nella storia della pace, più che altro, per la sua intensa diplomazia privata, svolta tramite la sua Fondazione. Criticato da più parti per aver negoziato con terroristi (fra cui Hamas), il suo è comunque un impegno costante per la soluzione di conflitti. Obama resta dunque l’unico presidente americano a ricevere un Nobel per la Pace senza aver concluso alcun conflitto o crisi internazionale. Forse questo riconoscimento, unico nel suo genere, può essere paragonato al Nobel assegnato a Le Duc Tho, ministro degli Esteri Vietnamita. Leader della guerriglia comunista nel Vietnam del Sud, prima della sua carriera internazionale usava dire: “Non si è colpevoli se si trovano le prove. Si è colpevoli se il Partito ti giudica colpevole” e con questo giustificava purghe di tipo staliniano. Fu comunque premiato, non per la “pace” imposta nel suo Paese, ma per essere arrivato all’accordo con il presidente americano Richard Nixon per il ritiro delle forze americane dal Vietnam nel 1973. Il suo fu un riconoscimento “alle intenzioni”, perché la guerra stava continuando. Intenzioni tradite ben presto: nel 1975 il Vietnam del Nord, proprio approfittando del ritiro americano, invase e annesse il Sud. Caso analogo fu il premio assegnato ad Arafat (ex aequo con Simon Peres) dopo gli accordi di Oslo del 1993 fra Israele e Palestina. Anche quello fu un riconoscimento di “buone intenzioni” di pace, tradite appena sette anni dopo, nel 2000, con lo scoppio della II Intifadah. Ma anche in quel caso, il Comitato per il Nobel propose di ritirare il premio... a Peres. Mentre Arafat non è mai stato messo in discussione. Comunque, almeno Le Duc Tho e Arafat avevano stipulato degli accordi, per quanto illusori (e in mala fede) fossero. Obama, al contrario, non ha concluso alcun accordo, negoziato, armistizio, trattato, arbitrato in grado di rendere il mondo un posto più pacifico in cui vivere. Il suo è un Nobel per “Un nuovo clima nelle relazioni internazionali”. Sperando che in futuro questo clima non si riscaldi.

CORRIERE della SERA- Pierluigi Battista: " Da Arafat a de Klerk, quante liti in nome della pace"

 Pierluigi Battista

Se c'è un evento che non ha mai messo pace, questo è certamente il Nobel per la pace. E del resto, essen­do la politica divisione e conflitto, co­me potrebbe il Premio più politico che ci sia trovare un'accoglienza mondiale armonica, se non addirittu­ra unanime? Suscitò polemiche persi­no il riconoscimento a Madre Teresa di Calcutta, o l'inventore del banco dei poveri Muhammad Yunus. Figu­rarsi un inquilino della Casa Bianca, non proprio il più marginale e reiet­to degli esseri umani.

Il Nobel e i presidenti americani, gli ex presidenti americani, i quasi presidenti americani, i vicini ai presi­denti americani è sempre stato un rapporto all'origine di scandali, sar­casmi, indignazioni, proteste. Nel 1919 ne venne insignito il presiden­te Woodrow Wilson, che qualche me­rito ebbe nella difesa del diritto al­l’autodeterminazione dei popoli e nella fondazione della Società delle Nazioni (l'embrione dell'Onu), ma pure qualche demerito nel disegno di una mappa europea la quale, dal Trattato di Versailles in poi, certo non placò la bulimia bellicista del Vecchio Continente. Solo due anni fa ne venne onorato un presidente mancato, Al Gore, risarcendolo per l'angoscia dei riconteggi maledetti in Florida, e gratificandolo per un film sui cambiamenti climatici che forse avrebbe trovato più appropria­to riconoscimento a Cannes o a Vene­zia. E Jimmy Carter? Molti, negli Usa, si chiesero nel 2002 quale diavolo di riconoscimento potesse gratificare il presidente che portò l'America al massimo della vulnerabilità e della debolezza nei confronti dell'Urss e il cui nome veniva associato alla terri­bile umiliazione degli ostaggi ameri­cani nella mani dell'ayatollah Kho­meini. Senza parlare di Henry Kissin­ger, che presidente non fu mai, ma che del presidente Nixon fu l'architet­to dei rapporti internazionali: il suo Nobel, conquistato nel 1973 assieme al leader vietnamita Le Duc Tho, fu il prologo dell'avvilente disfatta Usa a Saigon, mentre la sinistra mondiale gridava allo scandalo per l'appoggio americano al golpe cileno di Pino­chet.

Ma come si fa a mettere d'accordo tutto il mondo? Il Nobel per la pace, tra tutti i Nobel, non solo è quello più controverso, ma è anche quello più carico di oscuri sensi di colpa, di risvolti psicodrammatici. Il tormen­to dell'ingegnere chimico Alfred No­bel che a fine Ottocento inventò la di­namite si riversò intero sulla scelta
di dedicare alla Pace un premio crea­to da un uomo il cui nome si sarebbe per sempre associato all'invenzione di un purissimo strumento di guerra e di distruzione. Tra tutte le cerimo­nie del Nobel, quella che incorona il simbolo della pace è l'unica a svolger­si non a Stoccolma, nella sontuosa Sala da Concerto dell'Accademia Rea­le di Svezia, ma a Oslo, nello scena­rio più democratico del Parlamento norvegese. E' lì che si fissa la rappre­sentazione di un rito annuale che do­vrebbe avere un effetto pedagogico ma che crea sempre infinite polemi­che. Quelle che divamparono quan­do l'onorificenza toccò a Yasser Ara­fat. Negli anni delle strette di mano tra il leader palestinese e l'israeliano Rabin sotto lo sguardo benevolente e orgoglioso di Bill Clinton, certo. Ma, a dimostrazione che il Nobel non è il coronamento di una carriera all'apice, ma solo la tappa provviso­ria di una storia che prenderà traiet­torie imprevedibili, non si può di­menticare che pochi anni dopo Ra­bin verrà assassinato da un estremi­sta israeliano e Arafat non esiterà a scatenare l'Intifada dei martiri, quel­la del terrore e del sangue, non quel­la delle pietre dei ragazzi palestinesi contro i tank d'Israele.

Ma anche il conclave laico di Stoc­colma, con le sue procedure farragi­nose, con i suoi conciliaboli segreti, con le sue alleanze sotterranee e di­screte,
ogni volta che deve conferire il premio per la Pace, si trasforma inevitabilmente in un consesso poli­tico, destinato a scegliere un simbo­lo politico. Anche per la chimica, la medicina, la letteratura avviene sem­pre così. Ma con la pace avviene con un impatto enormemente più clamo­roso. Soffocando ogni controversia solo di rado, quando scelse Martin Luther King o Elie Wiesel. Alimentan­do la rabbia dei guerrafondai, quan­do il premio andò a Sadat e a Begin dopo lo storico accordo di Camp Da­vid. Esasperando il risentimento dei dittatori, quando l'onorificenza an­dò a Aung San Suu Kyi. Suscitando la perplessità degli intransigenti, quan­do il premio venne suddiviso tra Mandela e De Klerk per celebrare la fine dell'apartheid in Sudafrica. Sca­tenando la festa terzomondista e i la­menti dell'Occidente borghese quan­do a Oslo i riflettori furono tutti per Rigoberta Menchu. Accendendo fan­tasie sulla fine del comunismo, quan­do Lech Walesa fu premiato nel men­tre la Polonia soffriva per l'autogolpe preventivo di Jaruzelski. Poche vol­te, il premio per la Pace è stato accol­to nella pace. Con Obama viene pre­miata la speranza, il futuro anziché il passato, l'incerto invece del certo. La politica dei premi, si sa, non ammet­te limiti alla fantasia.

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