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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - Libero - Il Foglio - L'Opinione - L'Unità Rassegna Stampa
10.07.2009 Gli iraniani tornano a contestare il regime. Continua la repressione
Perchè il G8 non prende una posizione più dura contro la teocrazia?

Testata:Corriere della Sera - Libero - Il Foglio - L'Opinione - L'Unità
Autore: Viviana Mazza - Francesco Ruggeri - Davide Giacalone - La redazione del Foglio - Stefano Magni - Rachele Gonnelli
Titolo: «Gli iraniani tornano a contestare il regime - Gli Usa scaricano Mussavi - In politica estera il dialogo è bello ma solo per chi lo merita - Adler ci spiega perché nel trattare con l’Iran si dovrà cedere sul nucleare - In rete cercando Revolutionary road t»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/07/2009, a pag. 19, la cronaca di Viviana Mazza dal titolo " Gli iraniani tornano a contestare il regime  ". Da LIBERO, a pag. 20, l'articolo di Francesco Ruggeri dal titolo " Gli Usa scaricano Mussavi  ", a pag. 21, l'articolo di Davide Giacalone dal titolo " In politica estera il dialogo è bello ma solo per chi lo merita  ". Dal FOGLIO, a pag. 2, l'articolo dal titolo " Adler ci spiega perché nel trattare con l’Iran si dovrà cedere sul nucleare ". Dall'OPINIONE, l'articolo di Stefano Magni dal titolo " Alleanze blasfeme contro l'Occidente e il dissenso interno". Dall'UNITA', a pag. 25, l'intervista di Rachele Gonnelli a Saeed, blogger iraniano, dal titolo " In rete cercando Revolutionary road tra censura e divieti  ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Gli iraniani tornano a contestare il regime  "

La protesta è riesplosa in Iran. Oltre 1000, forse 3000 ira­niani sono scesi in strada ieri pomeriggio nel centro di Tehe­ran, sfidando le autorità che avevano promesso di «schiac­ciarli ». Dispersi dalle forze del­l’ordine con lacrimogeni e man­ganelli, ogni volta i dimostran­ti tentavano di riformare i cor­tei altrove. Una strategia formu­lata su Internet da giorni: «Ri­cordate, il cammino e la parteci­pazione sono ciò che più con­ta, non la destinazione. Se vede­te poliziotti e miliziani, cambia­te direzione e continuate a cam­minare ». L’appello a scendere in strada in tutto l’Iran, ieri, era stato lanciato da sostenitori di Mir Hussein Mousavi, rivale del presidente Ahmadinejad che si dichiara il legittimo vin­citore del voto del 12 giugno (ma lui non ha approvato uffi­cialmente la protesta). Secon­do i blogger, vi sono state mani­festazioni e scontri anche a Shi­raz, Tabriz, Isfahan.
Il 9 luglio è un giorno simbo­lico: 10 anni fa, dopo un sit-in contro la chiusura di un giorna­le riformista, i paramilitari fe­deli alla Guida suprema Ali Khamenei attaccarono un dor­mitorio dell’università di Tehe­ran, uccidendo un giovane e scatenando la rivolta degli stu­denti. La memoria della prote­sta del ’99, superata in vigore solo da quella attuale, ha ripor­tato in strada il movimento che taceva da 11 giorni.
L’epicentro: l’Università di Teheran e la vicina piazza En­ghelab («Rivoluzione»). Alle 5, vi sono confluiti 300 manife­stanti, secondo l’agenzia
Ap.
Molti indossavano mascherine chirurgiche (alcune verdi, colo­re simbolo di Mousavi) per non essere identificati. «Allah è grande», gridavano, «Morte al dittatore», «Mousavi! Mousa­vi! ». I poliziotti in tenuta an­ti- sommossa e i paramilitari in moto li aspettavano: hanno sparato in aria, lanciato lacri­mogeni e picchiato coi manga­nelli. In un’ora, i manifestanti erano 700: tentavano di arriva­re all’ateneo, i poliziotti li han­no bloccati. Migliaia di dimo­stranti hanno cercato di forma­re un corteo in via Talaghani: dispersi, come i 200 in via Vali Asr. Molti i giovani, ma un vi­deo su YouTube mostra anche uomini e donne di mezza età, le dita a «V» come «vittoria», in un corteo che si sarebbe te­nuto ieri. Solidali, gli automobi­listi bloccano la strada e suona­no i clacson. In un altro video, cori contro Mojtaba, il figlio di Khamenei, accusato di dirigere la repressione. Secondo voci non confermate, 2 manifestan­ti sarebbero morti ieri, 12 feri­ti, 30 arrestati.
«Se qualcuno intende com­piere azioni contro la sicurez­za... sarà schiacciato», aveva av­vertito il governatore di Tehe­ran Morteza Tamaddon. Nego­zi, università, uffici erano stati chiusi dalle autorità «a causa delle tempeste di sabbia e del­l’inquinamento ». Bloccati gli sms. «L’arma migliore è la cal­ma - consigliava un va­demecum per le proteste - . La nostra seconda arma sarà un fiore rosso» (durante la rivolu­zione del ’79, i dimostranti li in­filavano nelle canne dei fucili dei soldati). Molti hanno evita­to di indossare indumenti ver­di, per non essere identificati.
Il giorno dopo la condanna del G8 contro le violenze, intan­to, il consulente per la politica estera di Khamenei, Ali Akbar Velayati, ha avvertito che l’Iran non rinuncerà al nucleare. Del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha detto: «Non capisce l’Iran» (e lo accusa di corruzione). Gli consiglia di vi­sitare le tombe di Naqsh-e-Ro­stam per vedere come l’impera­tore persiano Shapur I sottomi­se Valeriano: «Non è la prima volta che i romani cercano di mordere bocconi troppo grossi per le loro bocche». E Frattini: «Non lo conosco, si riferisce a qualcun altro».

LIBERO - Francesco Ruggeri : " Gli Usa scaricano Mussavi  "

 Barack Obama

Obama cancella i finanziamenti del Dipartimento di stato in favore dei gruppi d’opposizione iraniani, azzerando l’apposito fondo nel “Foreign Assistance budget 2010” presentato al Congresso. Proprio mentre la repressione del dissenso da parte del regime prosegue inesorabile. Collassa così l’Iran Democracy Program, definito dal capo di gabinetto Rahm Emanuel «un inutile spreco, un relitto dell’era di Bush». Che in un quinquennio ci aveva investito quasi 400 milioni di dollari, permettendo un salto di qualità decisivo ai contestatori degli ayatollah. Si precisa dunque la strategia geopolitica del presidente democratico: dare precedenza assoluta a un riavvicinamento coi clerici di Teheran, a costo di sacrificare sull’altare della diplomazia i diritti umani e le lotte di libertà. Con l’evidente obiettivo di strappare un compromesso sul nucleare, prima che Israele scateni un armageddon. È la mossa che da Barack Obama non ti aspetteresti. Perché smentisce il santino che l’agiografia liberal gli ha cucito addosso. Ma il primo inquilino di Pennsylvania avenue è un giocatore di scacchi. Uno che decide a freddo puntando al lungo termine, senza badare troppo a sondaggi e umori del momento. Non si spiega altrimenti la decisione, tutt’altro che casuale, di sopprimere la voce Iran nella tabella degli aiuti esteri dell’amministrazione Usa, preventivo di spesa 2010 (www.state.gov/documents/organization/124295.pdf). Fino al 2009 compreso, nella sezione “Vicino Oriente”, la repubblica islamica d’Iran figurava appena prima di Israele e appena dopo l’Iraq (state.gov/documents/organization/101450.pdf). Nel nuovo giustificativo congressuale sono regolarmente presenti i 500 milioni in assistenza economica a Bagdad, e i 2,7 miliardi per l’esercito di Gerusalemme. Ma dei 65 milioni dedicati l’anno precedente ai perseguitati di Teheran si son perse le tracce. Eppure le risorse non mancano: circa 200 nazioni di ogni continente beneficiano di un totale di 32 miliardi di dollari in sostegno americano (6 in più rispetto al 2008 e 1 dal 2009). Erogati sotto cinque grandi capitoli tematici: Sicurezza, Governo giusto e democratico, Investire sulla gente, Crescita economica e Assistenza umanitaria. Solo per la categoria del governo giusto, nella quale ricadeva l’Iran, lo stanziamento ammonta a 2.8 miliardi. Tra i beneficiati ci sono le vittime di pseudo democrazie come Cuba, Burma, Bielorussia o Sudan, e il budget riservato al Vicino Oriente è salito di 15 milioni. Esplicita, se non altro, la giustificazione offerta dal capo staff di Obama, Emanuel. Che ha spiegato come «in un momento di tumulti in Iran, gli Usa non devono prendere le parti di nessuno. Fomenterebbe l’instabilità». Aggiungendo: «Come reagiremmo se l’Iran finanziasse trasmissioni in inglese per convincere gli americani a intraprendere la jihad?». D’altronde secondo lui la cancellazione degli aiuti evita «uno spreco di risorse, che si possono impiegare meglio altrove», e costituisce «un passo verso la responsabilità fiscale». Manco fosse la scelta di una brava massaia. In realtà, se proprio si voleva risparmiare, gli esborsi inutili erano altri. In particolare i 20 milioni di dollari pubblici (non ancora assegnati) dell’agenzia per lo sviluppo (Usaid). Distribuiti annualmente, col pretesto di propagandare la causa iraniana, ad ong, college, fondazioni e filantropi americani e occidentali. Insomma a tutti meno che agli attivisti che in Iran vivono e rischiano la pelle. Il modulo per la richiesta parla chiaro: «programmi a sostegno di soggetti politici (iraniani) non verranno considerati». L’Iran democracy program (Idp) nacque ufficialmente nel febbraio 2006, con la richiesta da parte di Condoleeza Rice di 75 milioni al Congresso. Ne furono approvati 66,1. In media il bilancio del programma ha superato i 60 milioni annui. Ma il primo finanziamento da 4,5 milioni risale al biennio 2004-2005 nell’ambito del Mepi (mepi.state.gov/62704.htm).L’Iniziativa di partnership nel Medioriente con cui W. Bush, fedele alla Freedom agenda, sognava di democratizzare l’intera area. Anche per riparare ai golpe targati Cia (in Iran nel’53), attraverso rivoluzioni di velluto sul modello di Libano, Kyrghisistan, Ukraina e Georgia. Fondamentale per il lancio dell’iniziativa si rivelò la figlia del vicepresidente Cheney, Elizabeth, grazie al suo ruolo di assistente al segretario di stato, e agli assegni neocon dell’International Republican Institute. Scopi dichiarati dell’Idp, «promuovere democrazia, diritti umani, legalità, rafforzare la società civile, aumentare la libertà d’informazione e la capacità del popolo iraniano di organizzarsi attorno a battaglie politiche nella società e nel governo, (..) stimolando l’applicazione di codici, leggi e convenzioni esistenti, come il diritto a un giusto processo o il monitoraggio indipendente delle elezioni». Fra gli altri canali su cui investire figuravano sul fronte dei finanziamenti alla propaganda mediatica, quelli alle trasmissioni satellitari in farsi di Voice of America, captate da 15 milioni di iraniani, e di Radio Farda e Radio Free Europe/Liberty. Dimostratesi indispensabili per informare i protagonisti delle ultime proteste.
Ma internet e tv non bastano. Molto più efficace si è rivelato il sostegno diretto ai gruppi formali e informali dell’opposizione interna (futura Onda verde in testa), che ha assorbito circa la metà del budget. Operazioni borderline ad alto rischio, condotte dietro il paravento del National endowment for democracy o del National democratic Institute, piuttosto che con Usaid e Freedom House. Spesso in parallelo ad azioni coperte della Cia, quali il finanziamento e l’equipaggiamento degli affiliati alla Mujahideen Khalq Organization o dei militanti di Jundullah, e dei rispettivi santuari in Iraq e Pakistan. Ad esempio nel 2008, su 60 milioni totali, 30,2 sono stati assegnati a questo fine dal Dipartimento di Stato. Senza l’obbligo di un rendiconto dettagliato, per non mettere in pericolo i destinatari dei fondi. Il cui utilizzo, a vantaggio della resistenza sul campo, ha suscitato malumori nella comunità di originari iraniani residenti negli Stati Uniti. I quali, in evidente conflitto di interessi, ambivano ad essere loro gli unici araldi della battaglia per la libertà in patria. Gli hanno fatto eco le solite icone intellettuali slegate dalla realtà, come la Nobel Shirin Ebadi, che ha affermato: «La miglior cosa che Washington possa fare è lasciare soli i riformisti iraniani: la democrazia non si importa». L’ex responsabile dell’Idp, Denehy, ha replicato definendo “risibile” l’ipotesi che il programma scatenasse la repressione. E ha incassato la solidarietà di un dissidente vero, l’ex leader degli studenti del Vahdat, Akbar Atri. Incaricatosi di respingere le critiche del Niac, in quanto «frutto di individui che a stento han visitato l’Iran».Chi certamente non si lamenta del ”provvidenziale” stop al finanziamento dei propri avversari, è la cricca degli ayatollah. Poco sorpresi dal dietrofront obamiano. La svolta era nell’aria, almeno dal recente licenziamento del più seguito polemista di Voice of America, Mohsen Sazegara: troppo netto nel denunciare i misfatti di Basiji e Pasdaran. E se invece alla fine avesse ragione Henry Kissinger? L’ex segretario di stato attribuisce ad Obama una «volontà di rendere invisibile qualunque cosa deciderà di fare in Iran». Però dal sottotraccia al nulla il passo è breve.

LIBERO - Davide Giacalone : " In politica estera il dialogo è bello ma solo per chi lo merita  "

 Medvedev, fautore della linea morbida con l'Iran

«A morte il dittatore», si è gridato ieri, a Teheran. Prudenza, invece, è stato il motto dei grandi, riuniti a L’Aquila. Nei giorni preparatori del G8 due sono state le posizioni chiare, ferme, promettenti: quella di Berlusconi, che ha esplicitamente chiesto nuove sanzioni, e quella del vicepresidente statunitense, Joe Biden, che ha manifestato comprensione verso l’ipotesi che gli israeliani possano intervenire con la forza, fermando la corsa teocratica verso l’arma atomica. Al vertice, poi, francesi ed inglesi volevano un documento specifico, dedicato alla condanna dell’Iran. È prevalsa la soluzione morbida, che ha consentito parole dure, ma prive di minacce reali. Così hanno voluto i russi, così ha preteso Medvedev, così aveva già acconsentito Obama, interessato non solo al rapporto con il più forte avversario di ieri, ma anche a non mettere in difficoltà il giovane presidente, magari puntando ad una divaricazione con Putin, l’uomo forte del Cremlino.La partita è ancora lunga, ma il tempo scorre inesorabile, per i coraggiosi che sono tornati in piazza ricordando le proteste studentesche del 1999. Anche in quell’occasione, è triste ricordarlo, i giovani iraniani non trovarono una sponda reattiva nell’occidente democratico. Sono passati dieci anni, nel corso dei quali il regime ha alzato il tiro ed i toni, spingendosi a negare la verità storica degli stermini antiebraici ed a prometterne di nuovi. Da parte nostra, da parte dei governi dei popoli liberi, solo molti cedimenti e qualche gesto dimostrativo, in questi dieci anni. Ora, sono altri iraniani a commemorare e rinnovare la sfida. Obama si è prodotto in un discorso, in Egitto, mirante alla promozione del dialogo pacifico. Ha ottenuto indietro solo schiaffi. Ha dovuto correggere il tiro, ed ha dato tempo fino a dicembre affinché l’Iran risponda sulle sue reali intenzioni atomiche. Le parole di Biden dimostrano che, alla Casa Bianca, cominciano a temere l’impossibilità d’essere solo spettatori. Anche perché la Corea del Nord s’è fatta beffe sia delle minacce che delle promesse, esplodendo missili sui quali vorrà montare testate radioattive. Il disarmo, insomma, resta la prospettiva diplomatica fra le grandi potenze. Essere fermi e severi oggi è il miglior modo per non trovarsi nei guai domani. Il dialogo è bello, ma solo con chi lo merita. La politica estera è un combinarsi esplosivo d’ideali ed interessi, occorre essere realisti. È il realismo, però, a suggerire di tendere una mano agli oppressi, non ai loro oppressori.

Il FOGLIO - "  Adler ci spiega perché nel trattare con l’Iran si dovrà cedere sul nucleare"

 Alexandre Adler

Spesso sono la geopolitica e le scelte che ne conseguono per le nazioni a determinare la storia. Difficilmente avviene il contrario e oggi è proprio la situazione mondiale a dimostrarcelo. Alexandre Adler, storico francese ed editorialista del Figaro, ha presentato al Foglio il suo ultimo libro, “Le monde est un enfant qui joue” (Grasset). Il saggio tenta di descrivere l’inevitabile stravolgimento della politica estera americana a partire dall’11 settembre insieme al nuovo ruolo assunto da al Qaida in medioriente. Subito dopo l’attentato alle torri gemelle, Adler aveva pubblicato un primo saggio, ma sette anni dopo ha pensato che un bilancio degli ultimi avvenimenti – come la guerra americana in Iraq – fosse necessario. Adler spiega che “gli obiettivi del libro sono un po’ cambiati nel corso del tempo. All’inizio pensavo a un’analisi strutturale del medioriente dall’impatto di al Qaida”, ma poi ha deciso di concentrarsi soprattutto sul ruolo che l’Iran sta giocando a livello internazionale e sull’evoluzione del fattore sciita in alcuni paesi mediorientali, come la Siria, il Libano e persino gli Emirati del Golfo persico, dove la componente sciita non è affatto da sottovalutare. E’ quindi venuto fuori “un saggio molto problematico”, il cui titolo appare più che esemplificativo. “Le monde est un enfant qui joue” spiega come “la parte aleatoria delle cose possa essere a volte più grande di ciò che si immagina”. Suggerisce come nel quadro incerto e strategicamente destabilizzante che si profila in medioriente – forse già da settembre, come ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy al G8 riferendosi alla scadenza della “mano tesa” nei confronti dell’Iran – “tutto dipenda dall’intervento di uomini capaci”, in grado di rimettersi “al ritmo dello sviluppo storico e non di lasciarlo cadere”. Le relazioni internazionali degli ultimi anni dipendono soprattutto dai rapporti fra Washington, Teheran e Israele. La vittoria di Obama ha rappresentato un anno fa la fine della strategia antiterrorista americana condotta per sette anni. Forse può sembrare un’“affermazione brutale”, ma è certamente un dato politico di cui non si può non tenere conto. Un fallimento, non imputabile soltanto all’Amministrazione Bush, su cui grava ancora la decisione di intraprendere la tanto discussa guerra in Iraq, ma che riscopre le sue concause risalendo sino agli anni Ottanta e Novanta, quando gli Stati Uniti si destreggiavano da un campo di battaglia all’altro. Ora che Saddam è morto e Baghdad sembrerebbe finalmente libera, si erge davanti all’America un nuovo bastione mediorientale, l’Iran. Ma c’è un punto che Adler sottolinea con attenzione e cioè che “l’Iran non sarà il nuovo Iraq”. C’è una storia che lo testimonia, c’è la prova concreta di come il regime di Teheran “non abbia potuto impedire le elezioni a suffragio universale”, prima nel 1997 con l’esultanza di Khatami – “risultato inatteso ma pienamente democratico” – e poi neanche un mese fa con la pseudovittoria di Ahmadinejad. Teheran ha una (particolare) risorsa in più rispetto a Baghdad e ai paesi che la circondano. C’è una nuova opposizione che sta emergendo, che rappresenta gran parte dell’élite del potere monocratico e che sembrerebbe in grado di gestire il potere del paese. Questo establishment politico nascerà paradossalmente da una contraddizione che da anni caratterizza l’Iran: “La coesistenza di un’ala terroristica, fanaticamente antiamericana da un lato, e la logica di una semidemocrazia dove la libertà di espressione è, per esempio, maggiore di ogni paese arabo vicino, Egitto compreso. Questa è una contraddizione forte, congenita nella tradizione iraniana, che è stata risolta grazie alla spinta di una società molto moderna, anche femminista”, espressasi alle spalle del regime. L’opposizione che sta crescendo e che ancora ieri ha violato il divieto a scendere in piazza a Teheran imposto dal regime – sono intervenuti i bassiji per “disperdere” la manifestazione – porta Adler ad affermare come nel medio termine saranno i riformatori e i loro seguaci a occupare quello scranno che è stato di Ahmadinejad. “L’obiettivo di Mir Hossein Moussavi non è quello di creare una Repubblica islamica, piuttosto un regime di transizione”, con l’ausilio di politici come il sindaco di Teheran, Mohammed Bagher Qalibaf, spiega lo storico. E Israele? E’ ancora molto ostile a un possibile avvicinamento fra Washington e Teheran. Ma non sarà così per sempre. “Se oggi Israele sembra avere un legame migliore con l’Arabia Saudita, nel lungo periodo un Iran moderato nella regione sarà un vantaggio anche per Gerusalemme”. Nell’incertezza politica e strategica di questo momento, la soluzione preferibile per le cancellerie mondiali è quella di un Iran “riformatore”. Il prezzo da pagare sarà caro e scivolerà senza che si possa far nulla sul terreno del nucleare. “Perché di certo la comunità internazionale non permetterà a Teheran di giovarsi della bomba atomica in quanto tale, ma una parte della ricerca atomica dovrà essere autorizzata alla fine di un compromesso globale”, conclude Adler.

L'OPINIONE - Stefano Magni : " Alleanze blasfeme contro l'Occidente e il dissenso interno "

La ribellione iraniana contro il rieletto presidente Ahmadinejad e l’ayatollah Khamenei permette di scoprire l’esistenza di strane alleanze, ben poco familiari agli occhi occidentali. Ieri, in occasione del decimo anniversario della rivolta studentesca del 1999 (anch’essa repressa nel sangue), i contestatori sono scesi di nuovo in piazza, non solo a Teheran, ma anche a Esfahan, Shiraz, Sari e Mashhad, sfidando le minacce del regime (“chi protesta sarà schiacciato” dichiarava ieri il governatore di Teheran) e la presenza massiccia di forze dell’ordine. Nella capitale, un aspetto della manifestazione può suonare strano: il corteo contro l’ambasciata cinese, in solidarietà agli uiguri repressi da Pechino. Gli uiguri sono musulmani, il regime cinese che li reprime è ateo. Ma Mahmoud Ahmadinejad ha apertamente sostenuto Pechino contro i ribelli suoi correligionari. Perché un presidente integralista islamico appoggia un regime post-comunista? Per lo stesso motivo per cui sostiene anche il governo bolivarista (cattolico e socialista) in Venezuela, mentre accetta armi e tecnologia militare dalla Russia (ortodossa e nazionalista) e condivide la tecnologia con la Corea del Nord (atea e stalinista). Il regime di Teheran vuole formare un blocco anti-occidentale, indipendentemente dalla sua ideologia. Il quadro si completa quando vediamo che, a reprimere i manifestanti in queste settimane, non c’erano solo pasdaran e basiji iraniani, ma anche miliziani palestinesi di Hamas. Numerose testimonianze di oppositori convergono: gli uomini del regime di Gaza sono presenti nelle strade di Teheran. Anche questa alleanza può suonare insolita. Ma come – ci si potrebbe chiedere - cosa ci fanno degli integralisti sunniti di Hamas in appoggio a un regime rivoluzionario sciita? La risposta è sempre la stessa: l’ayatollah Khamenei ha sempre finanziato e armato i nemici palestinesi di Israele che dimostrassero più vigore nella lotta e meno predisposizione al compromesso. Le Guardie Rivoluzionarie hanno addestrato gli uomini di Hamas. La nave Kairine A, fermata dagli israeliani ben sette anni fa, era carica di armi per la guerriglia palestinese contro Israele. Allora si trattava di rafforzare il movimento Al Fatah (nazionalista) di Arafat, adesso è il turno di Hamas (islamico sunnita) di Haniye e Meshaal. Gli alleati cambiano. L’obiettivo resta costante: distruggere Israele e combattere l’Occidente. Ma allora la Repubblica Islamica ha più interesse ad affermare i principi dell’Islam sciita o a combattere l’Occidente? In questa fase, evidentemente, l’obiettivo prioritario è quello di combattere l’Occidente, anche assieme ad alleati “infedeli”, persino (nel caso del sostegno alla Cina) contro gli interessi e i diritti dei musulmani stessi. La lotta contro l’Occidente emerge anche da tutta la retorica delle autorità contro il dissenso interno. Al centro della propaganda di Teheran si rafforza l’idea di una grande cospirazione occidentale. Un dipendente dell’ambasciata britannica e una ricercatrice francese, nonostante le proteste dei rispettivi governi, sono ancora in carcere con l’accusa di sobillare la rivolta. Il servizio persiano della Bbc è visto come il centro della cospirazione. Ali Akbar Velayati, consigliere di politica estera dell’ayatollah Khamenei, ieri ha attaccato persino l’Italia, che pure si è mantenuta scrupolosamente su una linea di non-intervento: “Le interferenze del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini durante e dopo le elezioni presidenziali, nella politica interna iraniana, siano state sconsiderate”. Aspettiamoci di peggio se il duo Khamenei-Ahmadinejad dovesse vincere questa battaglia.

L'UNITA' - Rachele Gonnelli : " In rete cercando Revolutionary road tra censura e divieti "

 Censura in Iran

Sono tanti i camuffamenti di Saeed. Nell’album del suo profilo su Facebook si vede lo stesso ragazzo con le guance e le ciglia lunghe in molte pose e fogge: con i capelli lunghi e ricci, corti e decolorati, dritti per il gel. Saeed è anche su Twitter e ha sempre il suo blog, Revolutionary Road, tradotto in più lingue tra cui l’italiano. Ha molti amici in Italia e risponde volentieri alle domande de l’Unità.
È difficile tenere un blog in Iran?
«Le uniche difficoltà sono i filtri di internet e le barriere di sicurezza. La velocità della comunicazione è molto bassa e sotto il controllo della società di telecomunicazioni. Poi c’è la tracciabilità e il controllo di intelligence. Se un sito blog o internet pubblica qualcosa contro il sistema o fa delle critiche un po’ più approfondite, l’autore rischia il carcere o la pena di morte».
Qual è la posizione del clero sciita verso Internet? È cambiata nel tempo?
«Il governo islamico dell’Iran ha posto gravi limitazioni anche all’accesso ai siti anti-islamici. Credo sia una strategia per mantenere la gente disinformata: più il popolo è informato, più i regimi sono in pericolo».
Quando hai iniziato a navigare e perché hai deciso di aprire un blog?
«Ho iniziato ad usare internet da studente, faccio blogging dal 2003, all’inizio pubblicavo i miei articoli e testi personali, ma poi ho cercato di lavorare sui diritti dei bambini, delle donne e dei lavoratori. Nel 2005 sono stato arrestato per aver fatto blogging e attività politica. Ho passato un lungo periodo nel carcere di Evin. Poi, espulso dall’università, ho cercato di pubblicare in diverse lingue le notizie e le attività dei giovani liberal nel mio weblog. Tanti amici mi sono stati lealmente vicini, e mi hanno aiutato nelle traduzioni e nelle questioni tecniche di internet. Questo nel clima oppressivo dell’Iran è diventato uno strumento di routine per la lotta del popolo iraniano contro la situazione esistente».
Durante le proteste a Teheran dopo il voto sono circolati dubbi sulla tua scomparsa e anche sull’attendibilità del tuo sito. Come possiamo essere certi della tua identità?
«Giusta domanda. Sono stato più volte arrestato, interrogato e incarcerato e la mia famiglia è sotto pressione, ma sono libero e vivo nascosto. Se dovessi avere dei problemi, sicuramente i miei amici vicini e altri attivisti politici in Iran ne darebbero notizia. Noi blogger non abbiamo sostenuto nessun partito né alcuna corrente religiosa. Non ci aspettiamo nulla da questo sistema, sappiamo che le elezioni in Iran non sono state democratiche. La nostra opposizione è contro la deviazione del popolo e offriamo il nostro sostegno per la rivoluzione e per il cambiamento umanitario e radicale. Nei giorni scorsi in seguito alla forte attenzione sulle notizie dell’Iran, tanti hanno cercato di pubblicare notizie false e strumentalizzare la volontà del popolo a proprio beneficio nei loro siti web e nelle varie pubblicazioni. Solo ciò che viene pubblicato sul nostro blog e sulle nostre pagine Facebook è attendibile e ci rappresenta. Al momento soltanto il blog Revolutionary Road e le pagine Facebook Saeed Valadbaygi e Saeed Valadbaygi II, sono da noi confermati come fonte ufficiale delle nostre notizie e dichiarazioni».

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