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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio - La Stampa - L'Opinione - Il Manifesto Rassegna Stampa
17.06.2009 Iran: continuana la repressione delle proteste a Teheran. Ahmadinejad parte per la Russia
Analisi di Carlo Panella, David Caretta, Mattia Ferraresi, Maurizio Molinari, Rina Masliah, Vittorio Emanuele Parsi, Farian Sabahi

Testata:Il Foglio - La Stampa - L'Opinione - Il Manifesto
Autore: Carlo Panella - David Caretta - Mattia Ferraresi - La redazione del Foglio - Maurizio Molinari - Rina Masliah - Vittorio Emanuele Parsi - Stefano Magni - Farian Sabahi
Titolo: «Così la teodemocrazia di Sistani in Iraq contagia i riformisti iraniani - Assolo francese - Coro persiano - La meccanica rivoluzionaria - Il turbamento americano - L’impero Usa è in declino - Ogni ora che passa la protesta popolare ha sempre più chance -»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/06/2009, a pag. II, gli articoli di Carlo Panella, David Caretta e Mattia Ferraresi titolati " Così la teodemocrazia di Sistani in Iraq contagia i riformisti iraniani ", " Assolo francese " e " Coro persiano " e, in prima pagina, gli articoli  " La meccanica rivoluzionaria " e " Il turbamento americano ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " L’impero Usa è in declino  " e l'intervista di Rina Masliah a Efraim Halevy, ex capo del Mossad, dal titolo " Ogni ora che passa la protesta popolare ha sempre più chance ", a pag. 1.37, l'analisi di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Ayatollah, referendum d'azzardo  ". Dall'OPINIONE l'articolo di Stefano Magni dal titolo "  Non con Mousavi, ma contro il regime ". Dal MANIFESTO, a pag. 1-8, l'analisi di Farian Sabahi dal titolo " La lezione di Teheran " preceduta dal nostro commento. Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Carlo Panella : "  Così la teodemocrazia di Sistani in Iraq contagia i riformisti iraniani"

 Ali al Sistani

Roma. Per anni gli avversari di George W. Bush hanno spiegato che l’abbattimento del regime “laico” di Saddam Hussein avrebbe permesso al regime degli ayatollah di Teheran di dilagare in Iraq. Gli avvenimenti di questi giorni dimostrano che è successo esattamente il contrario, che la “democrazia esportata” da Bush sta funzionando da magnete in senso opposto: si sta verificando un contagio iracheno in Iran. Questo contagio ha al suo centro il fatto che il 90 per cento degli iraniani, come degli iracheni, è sciita. E’ un’attrazione profonda che va ben oltre l’incoraggiamento alla ribellione che sta montando a Teheran. Lo scontro tra “riformisti” e oltranzisti iraniani si gioca infatti non sull’atomica o sul rapporto con gli Stati Uniti, ma sul punto focale della dittatura teologica iraniana: la “velayat e faqih”, il potere totalitario che la Costituzione del 1979 di Khomeini assegna al “Giureconsulto”, al Rahabar. L’impianto costituzionale iraniano si basa su due principi fondamentali. Il primo nega che la sede della sovranità sia nel popolo e afferma che la “sovranità esclusiva” è del Dio Unico, da cui consegue “la necessita di sottomettersi ai suoi comandamenti e al suo ordine”. Il secondo principio è l’Imamato: “scomparso al tempo” il 12° imam nell’874 dopo Cristo, il compito di interpretare e gestire la sovranità divina viene assegnato da questa Costituzione a un’indedita figura di imam, al Rahabar, ruolo prima ricoperto da Khomeini e dalla sua morte, da Ali Khamenei. Il Rahabar ha poteri assoluti: dirige tutte le Forze armate, gestisce la politica estera (quindi il dossier atomico), dirige l’apparato giudiziario, può dimissionare il presidente della Repubblica e di fatto nomina il Consiglio dei Guardiani, che ha una funzione di Corte costituzionale, e ammette o esclude candidati e partiti al voto, facendo delle elezioni iraniane quella farsa che sono. Tutta la piattaforma politica dei “riformisti” iraniani ruota da un quindicennio attorno al tentativo di svuotare questo potere teocratico assoluto del Rahabar. A questo miravano le riforme costituzionali votate dal Parlamento riformista di Khatami (tutte cassate dal Consiglio dei Guardiani), a questo mirano le proposte che oggi rilancia Rafsanjani, sotto altra forma: istituzioni di Consigli della Fatwa o sostituzione della Guida monocratica, con un collegio di più membri (già prevista dalla Costituzione). Questa democratizzazione della dittatura per vie interne all’islam sciita è direttamente ispirata al grande ayatollah iracheno di Najaf, Ali al Sistani, che nel 1979 si schierò duramente contro la “velayat e faqih” di Khomeni (ricevendone minacce di morte) e che nel 2005 ha ispirato la Costituzione dell’Iraq, in cui la sovranità appartiene al popolo (imamato diffuso) e la struttura dello stato è addirittura federale, con una marcata autonomia decisionale decentrata, principi opposti a quelli khomeinisti. Non a caso Rafsanjani recentemente ha diffuso la voce di un consenso di al Sistani alle riforme che intende introdurre in Iran appoggiando Moussavi. Al Sistani dirige la Marja di Najaf, la più alta autorità religiosa degli sciiti, dal prestigio infinitamente maggiore della recente Università coranica di Qom, dominata dai teologi khomeinisti. Dunque i riformisti iraniani sono decisamente rafforzati dal fatto che – caduto Saddam Hussein che schiacciava e perseguitava gli sciiti iracheni – oggi in Iraq è determinante il peso democratico degli sciiti ispirati da al Sistani, che infatti è stato combattuto (e minacciato di morte) da Moqtada al Sadr, finanziato e ispirato da ayatollah iraniani e nipote di quell’ayatollah Bagher al Sadr che nel 1979 approvò, in rotta con al Sistani, la Costituzione di Khomeini. Il problema politico, non piccolo, è che Rafsanjani, e Moussavi, hanno le mani sporche di sangue per essere stati complici nella persecuzione, nel 1979 e poi nel 1982 dell’ayatollah Shariat Madari, che si era opposto alla “velayat e faqih” (decine di membri del suo Partito del popolo musulmano furono impiccati e fucilati) e aveva invitato a votare contro la Costituzione del 1979. Secondo Shariat Madari, i poteri di interpretazione della volontà divina dell’“imam nascosto”, sono “diffusi nel popolo” e non possono quindi essere appannaggio di nessuno (stessa posizione di al Sistani come dell’ayatollah Taleghani che diresse la Rivoluzione a Teheran). Nell’aprile del 1982, quando Moussavi era primo ministro e Rafsanjani potentissimo presidente del Majlis, con il pretesto di un complotto contro Khomeni, Shariat Madari fu arrestato, “spretato” e decine di suoi seguaci, mullah inclusi, furono arrestati e uccisi, eliminando così l’unica opposizione religiosa ai principi teocratici. Questa macchia pesa sulla credibilità di Rafsanjani e di Moussavi e indebolisce un’opposizione, che ha una leadership ricattabile (e, con Rafsanjani, corrottissima) e dal passato oscuro, proprio sul punto determinante – sul centro dell’esercizio del potere – del programma che oggi dice di perseguire.

Il FOGLIO - David Caretta : "  Assolo francese"

  Nicholas Sarkozy

Bruxelles. Mentre gli altri leader mondiali continuavano a balbettare la loro “preoccupazione” per la situazione in Iran, ieri il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha quasi chiesto un regime change. “Queste elezioni sono una notizia esecrabile. Il popolo iraniano si merita altro”, ha dichiarato Sarkozy, contestando la legittimità della rielezione di Mahmoud Ahmadinejad: “L’estensione delle frodi è pari alla violenta reazione” contro l’opposizione di Mir Hussein Moussavi. “E’ un dramma, ma non è negativo avere un vero movimento di opinione che cerca di togliersi le catene”, ha detto Sarkozy. Contrariamente all’estrema prudenza espressa dalla maggior parte dei suoi omologhi europei e dal presidente americano, il leader francese ha scelto la strada della fermezza, al limite dello scontro. Come sul nucleare, la Francia preferisce la strategia dell’accerchiamento alla mano tesa di Barack Obama e dell’Unione europea. Alla vigilia del voto presidenziale, le capitali del Vecchio continente avevano sperato in una transizione morbida a Teheran, interpretando la visibilità dello “tsunami verde” di Moussavi come una svolta moderata dei mullah, e in particolare della guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Ora, con l’opposizione in piazza e la repressione, l’Europa si ritrova senza linea. Salvo Sarkozy. “Mi auguro che la volontà degli iraniani sia rispettata e che il riconteggio vada a buon fine”, ha detto al Foglio il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Su questo, “l’Ue ha una posizione comune, condivisa da tutti i paesi”. Ma appena si comincia a discutere sul da farsi, riemergono le antiche divergenze che avevano caratterizzato il dibattito sulle sanzioni contro il programma nucleare di Teheran. Il premier britannico, Gordon Brown, è stato l’unico a associarsi a Sarkozy, minacciando “conseguenze” nel caso di una repressione delle “manifestazioni legittime” dei sostenitori di Moussavi. Frattini, invece, ha confermato che “l’Iran è stato invitato al G8 di Trieste”, l’incontro dei ministri degli Esteri, anche se “non ha ancora dato risposta e non sappiamo che livello politico avrà la delegazione”. L’Italia, con i suoi soldati in Afghanistan, ha spiegato Frattini, è “particolarmente sensibile alla questione del coinvolgimento dell’Iran nella regione”. Il governo di grande coalizione in Germania è spaccato tra i fautori del dialogo – il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier – e i sostenitori della fermezza – la cancelliera Angela Merkel. Berlino, pur avendo convocato l’ambasciatore iraniano per chiedere “spiegazioni”, esita ad alzare la voce per preservare i suoi numerosi interessi economici. La Spagna è rimasta silenziosa, preoccupata dei contratti energetici di Repsol. La strategia mediorientale Dal suo arrivo all’Eliseo, Sarkozy si è mosso da solo per elaborare una strategia di containment – accerchiamento – dell’Iran, anche a costo di incrinare le relazioni con Obama. Nel suo primo grande discorso di politica estera, nell’agosto 2007, il presidente francese aveva definito il programma nucleare di Teheran “la più grave minaccia alla pace”, proponendo un rafforzamento delle sanzioni internazionali. Da allora Sarkozy ha lavorato alla creazione di un fronte sunnita per contenere l’espansione iraniana nella regione. Nel gennaio 2008, con una visita a Riad, ha rafforzato le relazioni con l’Arabia Saudita. Nel luglio dello stesso anno ha pilotato il rischioso ritorno della Siria nella comunità internazionale, dopo l’isolamento seguito all’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri. Durante la crisi di Gaza del 2009 ha sostenuto lo sforzo dell’Egitto di fermare la guerra. Lo scorso mese ha inaugurato la prima base militare francese nel Golfo, a Abu Dhabi, a soli 250 chilometri dalle coste dell’Iran, firmando un accordo segreto di difesa che impegna la Francia a utilizzare tutti i mezzi militari di cui dispone – tra cui l’arma nucleare – in caso di aggressione iraniana contro gli Emirati arabi. Alla vigilia del discorso di Obama al Cairo del 4 giugno scorso, infine, Sarkozy ha invitato a Parigi il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, concludendo l’incontro con toni duri sulla questione del nucleare e sull’isolamento cui tende la Repubblica islamica. La strategia di Sarkozy comporta dei rischi. La Siria non ha rotto la sua alleanza con Teheran e il presidente Bashar el Assad è stato il primo a inviare un “messaggio di congratulazioni” ad Ahmadinejad. Ma per Sarkozy, la rielezione del presidente iraniano, il ruolo di Khamenei e le divisioni nell’establishment della Rivoluzione islamica confermano la necessità di rafforzare il fronte sunnita e il containment contro Teheran. “L’Iran non è un dettaglio sulla scena mondiale”, ha spiegato il consigliere speciale dell’Eliseo, Henri Guaino. “Ahmadinejad esiste, con i suoi eccessi, con il suo oltranzismo e questo non semplifica il compito di tutti quelli che nel mondo vogliono dialogare”. L’engagement di Obama va bene, ma “nessun dialogo può essere senza condizioni”, come riconoscere chiaramente il diritto all’esistenza di Israele e accettare il controllo dell’Agenzia sull’energia atomica sul programma nucleare. Per il consigliere dell’Eliseo, “il fatto che l’Iran non esca dalla sua retorica violenta, che ci siano delle rivolte, degli arresti, che delle persone siano perseguitate, gettate in prigione, brutalizzate, non è una buona notizia per nessuno: né per gli iraniani, né per la stabilità e la pace nel mondo”.

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : "  Coro persiano"

 Amir Taheri

Roma. “Se entri in un ristorante di Teheran e cerchi nel menù quello che ti va di mangiare, non lo troverai mai. Devi adattarti e chiedere qualcosa che perlomeno non ti faccia venire il mal di pancia”. Con questa metafora Amir Taheri – dissidente iraniano, commentatore e autore del recente libro sul regime degli ayatollah “The Persian Night” (Encounter Books) – spiega al Foglio la posizione di Mir Hussein Moussavi nelle sommosse post elettorali. “La portata del movimento di Moussavi ha superato la sua stessa figura, catalizzando un movimento di popolo che si oppone al regime di Mahmoud Ahmadinejad e della Guida Suprema Ali Khamenei”, spiega trafelato dal suo ufficio di Londra. In questi giorni Taheri sta intervenendo con decisione sui maggiori media internazionali per spiegare che cosa sta accadendo e che cosa potrebbe accadere in Iran: prima di essere allontanato per volontà di Khomeini, Taheri dirigeva Kahyan, il più importante quotidiano di Teheran. Per Taheri i sommovimenti della piazza iraniana esprimono la somma di tre correnti: “La prima corrente è quella degli insider. Moussavi e gli ex presidenti Hashemi Rafsanjani e Mohammed Khatami vivono l’attuale stato di confusione come un’occasione per riacquistare quel potere che hanno perso a partire dalla fine degli anni Novanta. In particolare Rafsanjani è diventato l’oppositore di Khamenei quando ha scelto di perseguire la via del denaro e lasciare a Khamenei quella del potere politico”. Questo per quanto riguarda le faide di Palazzo. Ma in piazza si vedono facce normali, studenti che sventolano cartelli scritti in inglese, persone comuni che contestano un regime granitico con i volantini. “E’ qui che entra in gioco la seconda fazione, fatta di gente arrabbiata ma con un certo grado di istruzione, non sono né esaltati né sbandati. Sono per lo più studenti che si riconoscono nelle posizioni di alcuni mullah influenti ma non di primissimo piano, come l’ex speaker del Parlamento Nateq Nouri e l’ex deputato anti Ahmadinejad Mostafa Tajzadeh. Fra di loro ci sono anche diversi professori universitari e intellettuali tollerati dal regime. Questo gruppo spera che la situazione cambi, ma non lavora per destituire il regime: sanno che volere tutto e subito potrebbe essere fatale per il movimento riformista del paese e quindi vogliono arrivare a un compromesso per allargare le maglie del regime e ottenere qualche risultato, magari piccolo ma realistico. Sono loro che cercano di controllare le manifestazioni in modo da evitare che la piazza degeneri. La reazione degli uomini di Khamenei e Ahmadinejad sarebbe durissima”. Dal punto di vista ideologico la fazione dei “moderati” è “eterogenea, perché fra questi ci sono marxisti-leninisti, monarchici, nostalgici dello scià e scontenti generici senza una chiara coscienza politica”. Infine c’è un terzo gruppo, un sottobosco viscerale che approfitta della confusione per urlare in maniera scomposta il proprio malcontento. “Questi vorrebbero rovesciare il regime subito e senza troppi ragionamenti. Sono decisi ad approfittare del momento di confusione per passare all’azione”. E quale di queste tre fazioni è la più forte? “Questa è la domanda fondamentale – dice Taheri – ma è anche quella a cui per ora è impossibile rispondere. Tutte le parti stanno lavorando duramente per attrarre a sé più forze possibili”. Ieri i fedeli del presidente erano numerosi, ma non è chiaro quali gruppi e strati sociali rappresentino. “Sono khameinisti ‘hardcore’, ma non solo – dice Taheri – Fra loro ci sono fedelissimi della Rivoluzione, militari, veterani e gli abitanti del settimo distretto di Teheran, roccaforte del presidente. Infine ci sono le famiglie povere fatte venire appositamente da quelle zone rurali dove il populismo di Ahmadinejad ha un consenso molto alto”. Taheri conferma che le procedure di voto non sono pulitissime, visto che “non ci sono commissioni elettorali indipendenti, il voto non è segreto, non ci sono scrutatori che vigilano sulle operazioni di voto e non esistono meccanismi di verifica”. Ma il dato particolare è stato l’annuncio della vittoria dato da Khamenei a scrutini ancora in corso, una “procedura inusuale, mai vista in trent’anni di regime”, spiega Taheri. “Solitamente passano trenta giorni fra la fine dello scrutinio e l’annuncio del vincitore. Poi la Guida Suprema trasmette un messaggio tramite la tv di stato, una cosa sintetica senza espressioni vivaci tipo ‘vittoria storica’ o ‘grande celebrazione’. E invece questa volta ha usato proprio questo linguaggio”. Un piccolo segno di nervosismo che Taheri giudica significativo, anche perché un annuncio anticipato avrebbe favorito le congratulazioni di diversi capi di stato (da Chávez ad Assad), un atto fondamentale per legittimare il successo elettorale. Anche in un regime come l’Iran.

Il FOGLIO - " La meccanica rivoluzionaria"

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Roma. Teheran ieri era sospesa tra la voglia di occupare la piazza e la paura. Uffici e negozi sono stati chiusi presto per evitare i disordini. Ai giornalisti stranieri è stato intimato l’ordine di non mettere piede alle manifestazioni. Per tutta la mattinata si sono rincorse voci che l’incontro tra un lato e l’altro di Vali-e-Asr, il lunghissimo viale alberato che unisce il nord e il sud della capitale iraniana, potesse trasformarsi in un’ennesima carneficina. Un monito rimbalzava da Twitter a Skype: “Stanno evacuando i palazzi che danno sulla piazza, li riempiranno di pasdaran e bassiji armati di fucili. Non rischiate, sarà una trappola mortale”. Anche Mir Hossein Moussavi ha chiesto ai dimostranti di non rischiare la vita e rinunciare all’annunciata marcia da piazza Valie- Asr alla sede della tv di stato Irib. Ma i contestatori non si sono lasciati intimidire. Mentre la televisione teneva i riflettori puntati sulla grande adunata in onore di Mahmoud Ahmadinejad (che nel frattempo era andato e tornato da Mosca), testimoni raccontano che la manifestazione rivale si svolgeva come programmato con i partecipanti vestiti di nero. Un lutto in ricordo dei morti di ieri l’altro, ma anche un lutto in segno di provocazione. “Saremo di nero visto che siamo inesistenti, ombre, fantasmi, replicanti agli occhi del regime”, ha detto un ragazzo al Foglio. Il loro slogan beffardo, in campagna elettorale, era “Morte alle patate!”: contro le casse di tuberi distribuite da Ahmadinejad ai suoi comizi per ingraziarsi gli elettori. La riconquista dello spazio pubblico di Ahmadinejad sembra già fallita. Lo schermo sembra regalare l’immagine coesa della sua piazza. Chi c’è racconta che i suoi agitano bandierine iraniane e cantano “Ey Iran”, l’inno monarchico, riveduto e corretta per regalare alla gente di Ahmadinejad una glossa nazionalista. Ma poi la telecamera di regime sbaglia inquadratura. Chi è a casa a guardarsi Vali-e-Asr che difende l’onor patrio- islamico si ritrova sotto gli occhi ragazzi che si fanno beffe dei servizi di sicurezza e agitano fazzoletti verdi a favor di inquadratura proprio nella tana del lupo. Perché la differenza tra l’Iran di Ahmadinejad e l’altro è che il primo obbedisce agli ordini e il secondo ha deciso che che bisogna approfittare di questo momento per cambiare le regole del gioco. Non si tratta più soltanto di studenti idealisti, di operai che non vengono pagati da mesi, di intellettuali, di ricchi borghesi o espatriati. C ’è un po’ di tutto: bazaari e aristocratici, chador e ragazze alla moda, chi crede in un’evoluzione del sistema e chi lo vuole abbattere, chi ha creduto nella rivoluzione e chi l’ha subita, chi spera in Moussavi, chi ha interessi legati ai mullah tycoon alla Rafsanjani. Hanno capito che il regime sta vacillando. “Il re è nudo. Non ci fermeremo. Più persone saranno costretti ad ammazzare più si indeboliranno”, dice un riformista deluso al Foglio. Nessuno sa dove porterà l’insubordinazione di queste ore. Per calmare gli animi il Consiglio dei guardiani ha ceduto promettendo una riconta parziale dei voti, una retromarcia impensabile. L’uomo per tutte le stagioni, Hashemi Rafsanjani, cavalca l’onda e rassicura Qom: bisogna assecondare gli eventi per non esserne travolti. Ma mentre si susseguono notizie di rivolte a Isfahan, Shiraz, Tabriz e Urumieh, comincia a circolare un manifesto che chiede non soltanto la ripetizione del voto e la cacciata di Ahmadinejad, ma invoca una revisione della Costituzione, la cacciata di Khamenei e al suo posto l’ayatollah Hussein Ali Montazeri. E il giorno in cui doveva dominare la paura è stato un altro giorno di speranza.

Il FOGLIO - "  Il turbamento americano"

 Che sia l'ora buona ?

New York. Anche ieri, pubblicamente, Barack Obama si è occupato d’altro. Di sistemi finanziari e della crisi coreana. Il presidente americano si è limitato a esprimere forte preoccupazione per quello che sta succedendo in Iran. “Qualcosa è successo in Iran”, ha detto. E ha aggiunto che le richieste della gente in piazza sono un segnale importante di partecipazione, di libertà e democrazia. Oltre non è andato. Non ha messo in discussione il risultato elettorale, non ha condannato la repressione, non ha speso parole di incoraggiamento per chi è sceso in piazza. Anzi ha lodato il “leader supremo” Ali Khamenei perché la “reazione iniziale indica che capisce le profonde preoccupazioni del popolo iraniano sulle elezioni”. L’unico a esprimere qualche dubbio sulla regolarità del voto è stato il vicepresidente Joe Biden. Ma è probabile che, come gli capita spesso, sia stata una gaffe. La linea ufficiale, confermata dal portavoce del dipartimento di stato, è che l’Amministrazione è “profondamente turbata” dagli eventi iraniani, ma sostiene esplicitamente di non voler usare parole di “condanna”. Ogni giorno c’è qualche tono leggermente più duro nei confronti degli ayatollah, e qualche attenzione maggiore ai manifestanti. Ma, ha detto Obama ieri, il succo è che bisogna stare molto attenti a non dare l’impressione che l’America si impicci degli affari interni iraniani, cancellando la dottrina liberal dell’ingerenza umanitaria, elaborata negli anni Novanta da Bill Clinton e Tony Blair. Ci sono due spiegazioni a questa timidezza. La prima ideologica, la seconda pragmatica. Il folto gruppo di analisti e opinionisti di scuola realista sostiene che il sostegno americano alle proteste sarebbe il bacio della morte per i manifestanti, la mossa che gli ayatollah aspettano per poterli accusare di essere al servizio del nemico. Non la pensa così un dissidente storico, come l’ex presidente ceco Vaclav Havel. E tra i favorevoli all’impegno diretto di Obama a sostegno di chi è sceso in piazza ci sono l’ex avversario di Obama, John McCain, ma anche quegli intellettuali liberal, da George Packer del New Yorker a Jeffrey Goldberg dell’Atlantic Monthly a Martin Peretz di New Republic – che già ai tempi di Saddam Hussein avevano fatto fronte comune con i neocon e i sostenitori della promozione della democrazia e del regime change. I neocon sono i più rumorosi nel chiedere al presidente di parlare al popolo iraniano e di non fidarsi del regime. Ma Obama è pragmatico e la sua politica sull’Iran è influenzata dal pensiero realista di Brent Scowcroft (consigliere per la Sicurezza nazionale di Bush senior) e Zbigniew Brzezinski (consigliere per la Sicurezza nazionale di Jimmy Carter). Malgrado nessuno si azzardi a prevedere gli sviluppi, Obama teme che la rivolta si risolverà in un rafforzamento del regime e non intende vanificare le aperture di questi mesi puntando su una protesta che non sembra avere futuro. E’ un segnale importante nei confronti della leadership iraniana, sempre timorosa che la politica nascosta degli Stati Uniti possa essere quella del regime change. I critici credono si tratti di un approccio ingenuo, non solo perché uno dei motivi per cui la rivolta sarà probabilmente sedata è il distacco internazionale, ma perché gli ayatollah non ricambieranno alcun favore. In tutto questo, come anticipato ieri, il coordinatore delle politiche iraniane del dipartimento di stato, Dennis Ross, lascerà il suo posto e andrà, non si capisce a far cosa, al consiglio di Sicurezza nazionale. C’è chi dice che sia una promozione, visto che il suo nuovo ufficio sarà alla Casa Bianca. Ma l’opinione prevalente è che Ross, convinto che il dialogo sia uno strumento per poi adottare misure più dure, è stato fatto fuori perché non in linea.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " L’impero Usa è in declino "

Teheran e Pyongyang coordinano le mosse per tenere sotto pressione Obama: Mahmud Ahmadinejad vola in Russia per ammonire Washington sulla «fine degli imperi» mentre la Corea del Nord fa sapere che «il nucleare è un nostro diritto» svelando che le «due giornaliste americane arrestate hanno confessato di aver commesso illegalità». Incurante delle tensioni in patria per il contenzioso elettorale, Ahmadinejad è arrivato a Ekaterinburg per partecipare al summit dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai - che include anche Russia, Cina, India, Pakistan e repubbliche dell’Asia centrale - lanciando duri attacchi contro gli Usa. «L’ordine internazionale capitalista è in ritirata, l’età degli imperi è finita e non tornerà» ha detto Ahmadinejad dopo aver incontrato i presidenti di Russia e Cina.
L’affondo contro Obama è diretto: «Non credo che Washington sia in grado di risolvere i problemi globali, l’Iraq è ancora occupato, l’Afghanistan è in preda al disordine e il problema palestinese è irrisolto mentre l’America è travolta da una crisi politico-economica che le impedisce di decidere».
Se qualcuno immaginava un Ahmadinejad sulla difensiva a causa delle manifestazioni di piazza a Teheran, lui ha parlato con una grinta tesa a rilanciare la sfida ad un’America in declino: «Il capitalismo internazionale crea enormi danni, drastici cambiamenti sono inevitabili».
Foto di gruppo e strette di mano con i leader di Russia e Cina hanno avvalorato l’intenzione di Ahmadinejad di essere protagonista di nuovi equilibri tesi ad emarginare tanto l’America che i suoi alleati «anch’essi incapaci di affrontare i problemi del Pianeta». Se il giorno precedente Obama aveva detto di «voler continuare il dialogo» con Teheran nonostante la crisi elettorale con un gesto di apertura verso Ahmadinejad, la risposta arrivata da Ekaterinburg lascia intendere che il presidente iraniano non si sente indebolito.
Fra le spiegazioni che circolano a Washington sulla estrema sicurezza di Ahmadinejad vi sono le voci su un recente incontro a Ginevra che il vicepresidente Joe Biden avrebbe avuto con emissari iraniani: esisterebbe un canale segreto Usa-Iran che consente a Teheran di sentirsi molto influente. Altre fonti invece assicurano che Ahmadinejad si sente al sicuro «avendo fatto arrivare da Libano e Iraq gruppi di Hezbollah» per reprimere le manifestazioni dei seguaci di Mousavi. La Casa Bianca resta prudente. «Le differenze fra Ahmadinejad e Mousavi potrebbero essere minori di quanto appare, entrambi vogliono guidare un regime che ci è ostile» dice Obama alla Cnbc.
Anche Pyongyang incalza gli Usa: decine di migliaia di nodcoreani riuniti sulla piazza della capitale per difendere il diritto alle armi nucleari e denunciare le più recenti sanzioni dell’Onu hanno coinciso con la pubblicazione sugli organi di stampa ufficiali delle «confessioni» delle due giornaliste americane - Euna Lee e Laura Ling - condannate a 12 anni di lavori forzati per aver varcato illegalmente la frontiera con la Cina.
La risposta di Obama è arrivata al termine del summit nello Studio Ovale con il presidente sudcoreano Lee Myung-bak e, proprio come con l’Iran, ha avuto toni moderati confermando la scelta di contrastare la proliferazione nucleare attraverso la creazione di coalizioni internazionali: «Perseguiremo con vigore la denuclearizzazione della Penisola coreana, la Nord Corea non deve diventare una potenza atomica a causa delle maniere bellicose e delle minacce ai vicini». Inclusa la Cina, dove è arrivato Kim Jong Un, 26enne figlio del leader di Pyongyang.

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Ayatollah, referendum d'azzardo "

 Ayatollah Khamenei

Quello che rischia di travolgere, piuttosto imprevedibilmente, il regime degli ayatollah è l’azzardo politico di Ahmadinejad, che ha trasformato le elezioni presidenziali da un referendum sul suo operato in un referendum sulla stessa Repubblica islamica. A mano a mano che la scadenza elettorale si avvicinava, cresceva il timore nel suo entourage.
Cresceva il timore che il sostegno al presidente non fosse tale da garantirgli una vittoria certa, neppure al ballottaggio. Ha così capito che, in un sistema come quello iraniano (una pseudodemocrazia nella quale l’unico spazio di espressione del dissenso è paradossalmente quello delle elezioni tra candidati selezionati con cura dal regime), se voleva vincere doveva cambiare l’interlocutore e «il quesito referendario». Non rivolgersi al popolo per guadagnarne il consenso, ma invece far capire alla «guida suprema» che in gioco non c’era solo la sorte politica del presidente, ma quella del sistema di cui Khamenei era il massimo esponente. Per riuscirci non ha esitato ad attaccare con durezza crescente il candidato Mousavi, quasi spintonandolo nel ruolo di leader non solo moderato, ma anche riformatore e persino liberale. Così facendo ne ha gonfiato il sostegno presso i giovani, le donne istruite, la borghesia e gli intellettuali: cioè tutti gli insofferenti del corrotto e dispotico regime che da trent’anni martirizza il civile popolo iraniano.
L’appoggio a Mousavi cresceva così giorno per giorno, ma insieme con il consenso aumentava il grado di pericolosità della sua vittoria per il regime stesso. Probabilmente, proprio l’ultima grande manifestazione pre-elettorale, così affollata di giovani festosi e colmi di speranza, come non se ne vedevano dai tempi dell’elezione di Khatami, ha convinto il titubante Khamenei a rompere gli indugi e a sottoscrivere la nuova alleanza tra i conservatori, i cui interessi egli rappresenta, e i radicali (armati) di Ahmadinejad.
In quel momento, accettando di avallare brogli elettorali probabilmente giganteschi, Khamenei ha sancito la fine del regime inventato da Khomeini. L’esperimento della Repubblica islamica era stato sottoposto a tensioni istituzionali di senso opposto fin dal crepuscolo della vita di Khomeini. Due tentativi di riformarlo in senso più liberale sono falliti. Il primo, abortito ancora prima di iniziare, ad opera del delfino di Khomeini, l’ayatollah Montazeri, imprigionato poco prima di succedere al suo mentore morente. Il secondo, più ambiguo, ad opera di Khatami, bloccato da Khamenei. Da quando è stato eletto presidente, Ahmadinejad non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per il ruolo dell’alto clero e della sua volontà di riportare il regime alla «purezza» della fase rivoluzionaria, da perseguire riducendo il ruolo del clero. Il paradosso è che l’operazione gli potrebbe riuscire, proprio grazie all’aiuto del supremo garante di quell’ordine che lui vuole radicalmente trasformare. Se Ahmadinejad prevarrà, se riuscirà a reprimere una rivolta che sembra sempre più una «quasi rivoluzione», il regime che sorgerà sarà cosa sostanzialmente diversa da quello fin qui conosciuto. Prestandosi platealmente a violare quelle regole (per quanto già non eque) per difendere le quali esiste il principio del «governo dei giureconsulti», Khamenei ha minato la base stessa della legittimità dal doppio registro (elettorale e «sapienziale»), uno a sostegno ma anche a moderatore dell’altro, sulla quale si basa la formula inventata da Khomeini.
È stata l’ultima volta che le parole, per quanto non amate, son potute uscire dalla sua bocca godendo ancora dell’aura incontestabile (se non incontestata) del sapere. Ma al suono di quel che esse sostenevano, l’autorità si è dissolta, mostrando il volto nudo del potere.
Era dai tempi della rivoluzione che abbatté lo scià Reza Pahlevi, che a Teheran non si vedevano simili folle oceaniche, così determinate a sfidare i divieti delle autorità e le pallottole dei basiji. Il regime ha già chiarito che non esiterà a uccidere pur di sopravvivere. Farebbe però bene a ricordare che il culto del martirio fa parte della cultura sciita duodecimana. E che proprio nel 1979 ogni funerale si trasformò in una manifestazione ancora più rabbiosa e gigantesca. Quel che oggi manca ai rivoltosi/rivoluzionari è un leader, perché Mousavi non ha certo la tempra di un Khomeini: ma una leadership potrebbe emergere proprio dai moti di piazza. Senza dimenticare che il gruppo dirigente del regime inizia a manifestare crepe, e alcuni dei suoi esponenti più scaltri (Rafsanjani? Larijani?) potrebbero essere tentati da una soluzione alla «romena» (ricordate la fine di Ceausescu nel 1989?), pur di preservare le proprie rendite politiche ed economiche.

La STAMPA - Rina Masliah : " Ogni ora che passa la protesta popolare ha sempre più chance "

 Efraim Halevy

Nato in Gran Bretagna 75 anni fa, immigrato in Israele nel 1948, l’ex capo del Mossad (1998-2002) ed ex diplomatico, Efraim Halevy è oggi uno dei più informati osservatori degli eventi regionali. Ammette di essere stato sorpreso dalle grandi manifestazioni popolari in Iran, che collega alla diplomazia di Barack Obama.
L’Iran marcia forse verso un avvicendamento al potere?
«Quando si mettono in moto manifestazioni di massa, non possiamo misurare scientificamente o con strumenti d’intelligence la forza dei dimostranti rispetto a quella della repressione. C’è un elemento di imprevedibilità. Se una settimana fa ci fossimo chiesti se in caso di una vittoria di Ahmadinejad le masse si sarebbero riversate in strada lo avremmo escluso, anche sulla base dell’esperienza della repressione. Invece le manifestazioni ci sono state, si è creata un’onda di protesta, è un fatto. Che speranze hanno adesso i riformisti? Più riusciranno a tener duro, più le probabilità cresceranno».
Ma i brogli ci sono stati davvero?
«Non lo sappiamo con certezza. Però sembra strano il forte divario a favore di Ahmadinejad anche dove c’era un’atmosfera pro-Mousavi, come a Teheran e nella sua città natale. E’ difficile immaginare che Mousavi non sia riuscito a ottenere la maggioranza in alcun posto. Con un understatement diciamo che i risultati sono quanto meno strani».
Le conseguenze per Israele?
«Non possiamo influenzare gli eventi. Quello che ci concerne è la politica nucleare dell’Iran, di fatto una politica nazionale. Anche se si avvertiranno conseguenze, non saranno immediate, non in maniera diretta. Se Mousavi dovesse prendere il potere la questione si porrebbe: può darsi che il nucleare non avrebbe la stessa priorità».
Questa crisi rappresenta un banco di prova per Obama?
«Indubbiamente. Fa bene a non intromettersi nelle vicende iraniane. Ma quello che succede è un risultato dello “Spirito di Obama”, del “Fattore Obama”: ossia dell’aver scelto quel modo specifico di rivolgersi agli iraniani, senza toni da confronto, creando in loro una voglia di dialogo con gli Usa».
Nel suo discorso di domenica, Netanyahu ha dato ad Obama la risposta che voleva?
«Sì, quando ha pronuciato espressamente le parole “Stato palestinese”. Obama lo ha lodato. Ma il test vero riguarda le questioni pratiche: quale sarà il prossimo stadio nella colonizzazione. Sul piano dichiarativo, Netanyahu ha effettivamente “consegnato la merce” ad Obama, soddisfatto le sue aspettative. Ma l’esame vero e proprio sarà l’esecuzione della sua politica».

L'OPINIONE - Stefano Magni : " Non con Mousavi, ma contro il regime "

 Davood Karimi

Quando la maggioranza dei commentatori italiani sperava in una vittoria elettorale di Mirhossein Mousavi, Davood Karimi era già convinto (e lo ha scritto, dichiarato in televisione su Sky e pubblicato sul blog Agenzia Iran Democratico) che avrebbe vinto Mahmoud Ahmadinejad. “Non hanno nemmeno contato i voti dopo la chiusura delle urne, avevano già scritto i risultati in percentuale di tutti i candidati. Hanno deciso a tavolino la vittoria di Ahmadinejad”, spiega a L’opinione. Davood Karimi è presidente di Iran Democratico l’associazione rifugiati politici iraniani in Italia. Egli stesso è esule da 25 anni nel nostro Paese e non si fa troppe illusioni sulla possibilità di cambiare il regime di Teheran dal suo interno. Paragona la Repubblica Islamica a una pianta, con radici ormai marce. “Adesso il regime si sente minacciato, sia dalla pressione interna che da quella internazionale. Per questo sta scuotendo il tronco per far cadere le foglie gialle. Ma a furia di scuotere, lo stesso tronco può cadere, anche perché le radici sono marce. E una popolazione iraniana sempre più indignata sta scuotendo in modo ancor più forte”. Uno di questi scossoni è costituito dalle elezioni di venerdì, che Karimi definisce, senza mezzi termini, “una fiction”, utile solo ad allontanare gli elementi sgraditi al regime. “Khamenei ha semplicemente bisogno di un bastone per tenere in piedi se stesso e il sistema di Teheran. Tra i candidati, Moussavi è un politico di lungo corso, è stato primo ministro negli anni ‘80, ai tempi di Khomeini. Ahmadinejad, invece, era un semplice killer di regime. E secondo voi, chi andrebbe a scegliere Khamenei? Uno controllabile come Ahmadinejad o un politico navigato come Moussavi?”. Tra l’altro, anche Moussavi, che è visto in occidente come un riformatore, è in realtà un uomo di regime e complice dei suoi crimini. “Moussavi” - ci spiega Karimi - “E’ responsabile di alcuni dei peggiori massacri nel periodo della rivoluzione e della lunga guerra contro l’Iraq. Nel 1988 (l’ultimo anno della guerra Iran-Iraq, ndr), su ordine dell’ayatollah Khomeini, ha eliminato fisicamente 33mila membri della resistenza dei Mujaheddin del Popolo nelle carceri iraniane”. Nel 1988, l’Economist definiva Moussavi come un “radicale intransigente”. Oggi, in Occidente, ci siamo dimenticati del suo passato e lo vediamo come un riformatore, praticamente un rivoluzionario democratico. Ma gli iraniani, al contrario, sanno che si tratta di un “lupo travestito da agnello”, come lo definisce Karimi. E allora, come si spiega questa “rivoluzione verde” (dal colore scelto dagli oppositori di Ahmadinejad), guidata da Moussavi? “Non è una rivoluzione pro-Moussavi” - afferma con certezza Davood Karimi - “Questa è un’esplosione di sincera rabbia popolare, non solo contro le elezioni truccate, non solo contro Ahmadinejad, ma contro tutto il sistema. E’ una reazione a 30 anni di soprusi, violenze e vessazioni del regime, di cui è responsabile lo stesso Moussavi. La folla che in questi giorni sta sfidando il regime nelle vie di Teheran, milioni di persone, è tutta gente che non ha votato. Al di là dei dati ufficiali, secondo fonti della resistenza iraniana, solo il 15% si è recato alle urne, gli altri non vogliono nemmeno più legittimare il regime. Tra coloro che hanno votato, poi, si è diffusa la rabbia per i brogli elettorali”. Le proteste sono ora le più massicce dai tempi della rivoluzione contro lo Scià di Persia nel 1979. Ma c’è il rischio che sfocino in una guerra civile, tra i ribelli e i sostenitori di Ahmadinejad? “Non c’è alcun rischio di guerra. Se la protesta si estende, invece, avremo una rivoluzione. Contro il regime si schiera la maggioranza schiacciante del popolo iraniano, diciamo pure il 90%. Se il sistema totalitario regge è solo perché l’Europa lo sta sostenendo”. E l’America di Obama? “E’ la summa della politica di appeasement. Obama conta sul regime iraniano, cerca il dialogo con i suoi vertici. Su che basi? Non è dato saperlo, visto che Ahmadinejad ha appena dichiarato che sul programma nucleare non si discute. Alle 17 di venerdì, quando Moussavi cantava vittoria, il presidente americano si era affrettato a esprimere le sue congratulazioni. Dimostrando così di non capire niente del sistema iraniano”.

Il MANIFESTO - Farian Sabahi : " La lezione di Teheran "

 Dio li fa poi li accoppia. (a sinistra, M.Ahmadinejad, a destra, Farian Sabahi )

Giusta fine per Farian Sabahi: articolista del Manifesto. Tra antiamericani, antiisraeliani e antisemiti si troverà a suo agio.
Nel suo articolo Sabahi sostiene la tesi assurda che se Ahmadinejad ha vinto le elezioni non è solo grazie ai brogli e che il dittatore iraniano ha fatto molto per i ceti medio-bassi della popolazione...non è ben chiaro cosa, però. Forse allude alla repressione costante e totale di ogni libertà d'espressione?
Farian Sabahi si esprime come un ayatollah quando, riferendosi alle proteste di Teheran, scrive che sono una minoranza e che l'Iran non è tutto rappresentato solo da una città. Ecco l'articolo:

Se ilConsiglio deiGuardiani riconterà i voti sarà segno dell’incapacità di reprimere ulteriormente il dissenso. In questi giorni i dimostranti sono stati caricati dalla polizia, dai paramilitari e pure dagliHezbollah libanesi che si addestrano Iran. A Hooman, di professione informatico, i picchiatori arabi ricordano «le forze speciali israeliane che trent’anni fa parteciparono alla repressione dello scià nei mesi che precedettero il ritorno dell’Ayatollah Khomeini in patria». Anche le folle nelle vie di Teheran fanno tornare inmente quelle della Rivoluzione del 1979. Rivoluzione che, oggi come allora, fu un fenomeno urbano in cui gli abitanti delle zone rurali non furono coinvolti. A differenza di allora, non c’è però un leader carismatico a guidare le proteste: Mousavi ha chiesto all’onda verde di astenersi da ulteriori dimostrazioni per evitare un bagno di sangue. Ma quanto è credibile questo personaggio, premier negli anni Ottanta e ricomparso vent’anni dopo con il sostegno di Rafsanjani? E quanto lo è la moglie con il suo chador ben diverso dagli spolverini e dai foulard delle sue sostenitrici, che promette diritti per le donne ma «in una cornice islamica»? Mousavi è un ingranaggio del sistema, non certo un outsider. E la Guida suprema Ali Khamenei un uomo debole in una posizione importante. Si fa chiamare «ayatollah» mala sua è stata una promozione d’ufficio, ottenuta nel 1989 per succedere a Khomeini, e non nei seminari teologici della città santa di Qum. Il passaggio di consegne avvenne in un modo non del tutto chiaro e a permettergli di diventare Rahbar (Guida) fu Rafsanjani, oggi suo acerrimo nemico. Gli eventi di questi giorni sono il segno della frattura interna alla Repubblica islamica. Da una parte il clero sciita, anch’esso diviso, dall’altra i pasdaran sempre più potenti in politica, economia e in ambito militare. Pasdaran che si sono insinuati nella tradizionale alleanza tra gli ulema e imercanti scontenti per l’isolamento internazionale e le sanzioni che rendono difficile fare affari con il resto del mondo. Ahmadinejad è espressione politica dei pasdaran e durante la campagna elettorale non ha perso occasione per definire «corrotti» membri autorevoli del clero come Rafsanjani e Karrubi, quest’ultimo accusato in diretta tv di aver ricevuto 200mila dollari all’indomani della rivoluzione. Le elezioni presidenziali di venerdì si collocano nel quadro di questa lotta di potere e i disordini sono il risultato delle aspettative – frustrate – di una parte degli iraniani.Ma solo di una parte perché tanti hanno invece votato per Ahmadinejad. A differenza degli altri candidati che hanno avuto poche settimane per prepararsi alle elezioni, il presidente ha condotto una campagna elettorale durata ben tre anni e mezzo: si è spianato la strada alla vittoria garantendo l’assistenza sanitaria gratuita a 22 milioni di iraniani, aumentando lo stipendio degli insegnanti del 30% e le pensioni del 50%, dando un bonus in denaro ai contadini colpiti dalla siccità, e impegnandosi a pagare le bollette delle famiglie senza reddito. Se la vittoria elettorale di Ahmadinejad è stata schiacciante, questo è però anche a causa dei brogli, evidenti se si pensa alla velocità con cui ha proclamato la vittoria. Ma non per questo si può negare quello che ha fatto in questi anni per i ceti bassi, anche se per l’economia i costi sono stati altissimi perché le elargizioni in denaro sono state fatte prelevando da fondi speciali come quello per le oscillazioni del prezzo del greggio. E iniettare contanti nel sistema causa inflazione, oggi a due cifre come il tasso di disoccupazione. Le lezioni da trarre sono tre. 1) Teheran non è rappresentativa di tutto l’Iran e il resto del Paese, dove raramente si addentrano i giornalisti occidentali anche perché hanno bisogno di permessi speciali, è decisamente più tradizionale. 2) I sondaggi lasciano il tempo che trovano: alcuni erano opera di think tank con sede a Washington, altri dell’organizzazione di Mehdi Hashemi, figlio del potente Rafsanjani. 3) L’alta affluenza alle urne non è un segnale di facile vittoria dei moderati e infatti anche quattro anni fa le urne erano state aperte per qualche ora in più e le code lunghissime. Detto questo, sarà difficile che il Consiglio dei Guardiani annulli il voto – come chiede Mousavi – e indica nuove elezioni. Se la vittoria di Ahmadinejad fosse confermata, questo non giustifica però in alcunmodo la repressione dei suoi oppositori che hanno manifestato in modo pacifico nelle strade di Teheran. E proprio sulla libertà di espressione dovrebbe intervenire la diplomazia europea, dimostrando di essere in grado di parlare a una voce sola. Ma purtroppo, come recita un proverbio mediorientale, l’odore dei soldi fa deviare anche il corso dei fiumi. E gli interessi europei nei confronti dell’Iran impediscono alle nostre diplomazie di difendere, fino in fondo, i diritti umani.

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