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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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L'Opinione - Il Giorno - Il Giornale - L'Unità - Il Manifesto - Liberazione Rassegna Stampa
11.09.2008 A sette anni dall'11 settembre: interventi ragionevoli e squilibrati a confronto
rassegna di quotidiani

Testata:L'Opinione - Il Giorno - Il Giornale - L'Unità - Il Manifesto - Liberazione
Autore: Stefano Magni - Cesare De Carlo - Marcello Foa - Loretta Napoleoni - Marco D'Eramo - Enzo Apicella
Titolo: «L’undici settembre sette anni dopo le Torri - Bush, una promessa mantenuta - «L'attacco alle Torri resta un trauma irrisolto» - L'industria del terrore - New York prigioniera del sospetto - 11 settembre 1973, Cile, 60000 morti»
Nell'anniversario dell'11 settembre i quotidiani pubblicano commenti di diverso tenore e valore. Particolarmente indecentema, ma non molto lontana dagli umori mefitici che circolano negli articoli di Loretta Napoleoni e Marco D'Eramo che pubblichiamo più sotto, la vignetta di Enzo Apicella che riportiamo a lato (cliccare per ingrandire).

Incominciamo però dagli articoli più ragionevoli.

Stefano Magni sull'OPINIONE sottolinea che l'amministrazione Bush è riuscita per ora  a rendere nuovamente sicuro il territorio americano:

Sono passati sette anni dall’11 settembre 2001. Da quando tutti assistettero al primo attacco militare sul suolo statunitense dal 1941. Da quando due aerei di linea andarono a schiantarsi sulle Torri Gemelle in diretta televisiva, mentre un terzo, non visto, si infilava nel Pentagono e un quarto veniva fatto precipitare da un ammutinamento dei passeggeri contro i dirottatori-suicidi. La notizia più importante del settimo anniversario, per gli americani, è una non notizia: non ci sono più stati attacchi al suolo americano. Possono sempre essercene in futuro, ma intanto si registrano sette anni di sicurezza, garantiti dai servizi segreti e dalle forze armate statunitensi in America, in Iraq, in Afghanistan e sugli altri tre fronti (Sahara, Corno d’Africa e Filippine) dell’Operazione Enduring Freedom. La guerra è stata portata lontano dai confini statunitensi: gli attentati di Al Qaeda uccidono militari volontari in Iraq e Afghanistan. Hanno fatto centinaia di morti in Asia, Europa e Africa. Ma non hanno più potuto torcere un capello ai cittadini americani. Eppure ci hanno provato almeno altre 19 volte, secondo l’Fbi. Il primo tentativo fu quello di Richard Reid, seguace britannico di Osama Bin Laden, che provò a far esplodere un volo Londra-Miami nel dicembre del 2001. Nelle sentenze della magistratura si trova ogni tipo di piano, come quello di José Padilla di far esplodere una bomba sporca (con materiale radioattivo) tra i civili nel maggio del 2002. Nel maggio del 2003, un cittadino americano originario del Kashmir è stato arrestato: aveva un progetto per far crollare il ponte di Brooklyn ed è stato condannato a 20 anni di carcere.

Nell’agosto del 2004, altri due immigrati sono stati arrestati e giudicati colpevoli di progettare un attentato in una stazione della metropolitana di New York. Nel dicembre del 2005, un cittadino americano è stato condannato a 30 anni: aveva intenzione di far esplodere una pipeline di gas naturale e due raffinerie nel Wyoming e nel New Jersey. Nell’agosto del 2006, la polizia britannica sventò un complotto islamista che intendeva far esplodere ben 10 aerei su obiettivi civili a New York, Washington e in California. Gli attentatori intendevano usare dell’esplosivo liquido e, da allora, tutti noi non possiamo portare più bibite o profumi nel nostro bagaglio a mano. Nel marzo del 2007, Khalid Sheik Mohammad, alto papavero di Al Qaeda, confessò di aver partecipato alla pianificazione dell’11 settembre. E di aver avuto in progetto attentati altrettanto sanguinosi a Los Angeles, a Chicago e ancora a New York (dove voleva far crollare l’Empire State Building). Barack Obama contesta a George W. Bush di non essere riuscito a catturare Osama Bin Laden in 7 anni di caccia. Ma Bin Laden non è più un simbolo di lotta, nemmeno nello stesso mondo musulmano. Lo testimonia (oltre alla minor attenzione dei media arabi alla sua causa) anche l’ultimo messaggio del suo braccio destro Al Zawahiri, carico di rancore nei confronti dell’Iran e della popolazione irachena. Al Qaeda sta perdendo nel silenzio, non una sconfitta spettacolare, ma un lento e costante logoramento.

Anche Cesare De Carlo su Il GIORNO sottolinea il successo dell'amministrazione Bush nel garantire la sicurezza degli americani dopo l'11 settembre.

Da Il GIORNALE, un'intervista a David Frum, che definisce l'11 settembre "un trauma irrisolto" e avverte "Solo quando Osama verrà catturato o ucciso la pagina verrà davvero chiusa" :

Per un paio di anni ha scritto i discorsi di George Bush, inventando uno dei suoi slogan più celebri, quello sull'«Asse del male», formato da Iran, Irak e Corea del Nord. Ora David Frum è un analista dell'American Enterprise Institute ed è considerato uno dei più brillanti e spregiudicati intellettuali della nuova destra americana, che sul significato dell'11 settembre ha le idee chiare.

Oggi l'America si ferma, ma l'impressione è che la memoria di quel tragico giorno sia meno condivisa, più rituale. Condivide?
«Solo in parte. E' sempre difficile analizzare lo stato d'animo di milioni di persone, ma il terrorismo e la sicurezza continuano a essere radicate nell'opinione pubblica, semmai è il mondo politico a essere meno attento e reattivo».

Perché?
«L'11 settembre è un trauma irrisolto. Osama Bin Laden è ancora libero, mentre il processo alla mente degli attentati, Khalid Sheikh Mohammed, non è ancora concluso. E poi nella tradizione americana non si ricordano le sconfitte, ma le vittorie. L'anniversario di Pearl Harbor ogni anno passa inosservato. L'anomalia dei fatti del 2001 è che il conflitto è ancora in corso, per questo restano una ricorrenza importante. Solo quando Osama verrà catturato o ucciso la pagina verrà davvero chiusa».

La delusione provocata dalle bugie dell'Amministrazione Bush sull'Irak, in particolare sul legame Saddam-Al Qaida, contribuisce a raffreddare la partecipazione popolare?
«Tra i democratici sì, ne conosco diversi che da quando hanno scoperto la verità sull'Irak non riescono più a vivere con la stessa spontaneità il ricordo delle Torri Gemelle, ma non mi sembra che ciò abbia avuto effetto sul resto degli americani. Anzi, l'11 settembre ha costretto il Paese a prendere atto delle proprie debolezze, a scoprire che anche l'America può essere colpita dal terrorismo. Dopo Pearl Harbor il presidente Roosevelt disse: "Da oggi in avanti l'America farà di tutto per impedire che un attacco del genere si ripeta"; oggi gli americani si aspettano che la Casa Bianca faccia altrettanto. Lo spirito è identico, nonostante l'Irak».

Tra i repubblicani, ma tra gli elettori indipendenti?
«Tradizionalmente i repubblicani sono considerati più affidabili in tema di sicurezza nazionale. Dopo l'11 settembre il margine sui democratici era del 30 per cento, nel 2007 quando la crisi a Bagdad sembrava irrisolvibile i due partiti erano considerati alla pari, ora i conservatori sono di nuovo avanti del 14 per cento e questo dimostra che, nonostante tutto, la valutazione della maggioranza degli elettori, inclusi gli indipendenti, non è cambiata».

Quanto influirà l'11 settembre sulle presidenziali?
«Meno rispetto al 2004, com'è inevitabile dopo sette anni da quel tragico giorno. Direi però che i democratici non ne beneficeranno. Hanno cambiato più volte posizioni sulla guerra: erano favorevoli, poi contrari e ora che la situazione a Bagdad migliora sono possibilisti. Dunque rischiano di passare per opportunisti, mentre i repubblicani possono vantare la loro coerente fermezza».

Nel mondo sono sempre più popolari le teorie cospiratorie, secondo cui l'11 settembre fu creato o voluto dal governo americano. E negli Stati Uniti che impatto hanno avuto?

«Scarso, fanno presa solo su una piccola minoranza, la maggior parte della gente non dubita della versione ufficiale. Quelle teorie però non mi stupiscono. Nel mondo c'è molta gente convinta persino che l'Olocausto non sia mai esistito. Confrontata con il Diavolo non sa come reagire e tende a negare quanto accaduto per non cambiare la propria visione del mondo. Lo stesso accade con l'11 settembre. Nemmeno l'evidenza basta a persuaderli».

Passiamo ora ai commenti palesemente "squlibrati", che riprendiano dai terzetto dei quotidiani post e neo comunisti: L' UNITA', Il MANIFESTO e LIBERAZIONE.

Loretta Napoleoni, in un commento pubblicato da L'UNITA' muove da quello che giustamente Magni e De Carlo considerano un successo della lotta al terrorismo, lo scarso numero di vittime occidentali provocate da quest'ultimo, per approdare a una conclusione assurda: il terrorismo non è un rischio significativo e i mezzi impiegati per combatterlo sono eccessivi.
Diamole ascolto, e il numero delle vittime, prevedibilmente, salirà.

Ecco il testo:


A ridosso dell’11 settembre 2008 il Regno Unito è scosso da una sentenza inaspettata: le prove che il complotto dell’aeroporto dell’agosto 2006 voleva far esplodere in volo sette aviogetti con bombe liquide sono insufficienti a condannarne i membri. Tutti gli imputati meno tre, accusati di semplice «cospirazione», sono scarcerati. Non è la prima volta che una sentenza smentisce il governo di Sua Maestà; nel 2005 il complotto della ricina si rivela una farsa, la sostanza chimica è detersivo. Quella volta bastarono le scuse ufficiali di Blair, oggi invece sono già in piedi le cause civili. A imbastirle è l’industria dei trasporti aerei, penalizzata da una bomba inesistente. I costi sono da capogiro: solo la British Airways perde in pochi giorni 100 milioni di sterline; la BAA, la società aeroportuale britannica, si ritrova a spendere 250 milioni di sterline in più per adeguare la sicurezza alla nuova minaccia. Ed i viaggiatori? Tutti noi costretti a gettare bottigliette d’acqua, creme di bellezza e mascara nei bidoni della spazzatura prima dei controlli di sicurezza? Chi ci risarcirà per il tempo perso, lo stress, i prodotti abbandonati e le altissime tasse aeroportuali necessarie per proteggerci da ordigni fantasmi?
A Londra, nel settimo anniversario della tragedia delle Torri Gemelle si chiude l’ultimo capitolo della politica della paura, un’epopea angosciante che ha visto l’occidente modificare il proprio stile di vita a causa del pericolo terrorista. Mai prima d’ora il rischio di saltare in aria dentro un aereo è stato così alto, ecco il mantra dei politici e dei media. Il fiasco iracheno, le statistiche sull’attività eversiva in occidente e le sentenze di Londra contraddicono questa versione dei fatti. Il terrorismo esiste ma la sua minaccia va ridimensionata, sono i numeri a dircelo. In Occidente l’attività dei gruppi armati raggiunge l’apice a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, da allora diminuisce. Anche considerando l’11 settembre, è più facile che un occidentale sia colpito da un fulmine che da un attentato terroristico. Avere tanta paura non ha dunque senso.
Eppure, per quanto irrazionale, la nostra paura è reale. Vedere in diretta il crollo delle Torri Gemelle ci rende consapevoli del fenomeno del terrorismo, assistere al reality show più sconvolgente che sia mai stato trasmesso colpisce profondamente il nostro subconscio. I politici lo capiscono e sapientemente manipolano le nostre emozioni somministrandoci dosi massicce di scenari apocalittici falsi, dal nucleare di Saddam, al complotto della ricina, alla bomba liquida di Londra. Con l’aiuto dei media trasformano un evento eccezionale in uno scenario reale del quotidiano.
La paura si sa va alimentata, e i retroscena del complotto dell’aeroporto ce lo confermano. L’MI5, i servizi segreti, pedinano da mesi la cellula ma non ci sono prove concrete che sia in possesso dell’arma liquida né che abbia intenzione di orchestrate un nuovo 11 settembre. Si ipotizza che l’attentato coinvolga aerei di linea diretti negli Usa, è per questo che vengono allertati i servizi americani. Interviene subito Bush che chiede a Blair di agire, ma il premier britannico non si fa convincere. È a questo punto che gli americani forzano la mano, fanno arrestare in Pakistan un membro della cellula e a quel punto l’MI5 si deve muovere. Alla stampa viene detto che la cellula stava per portare a termine il secondo 11 settembre, ecco il motivo del massiccio spiegamento di forze sulle due sponde dell’atlantico. I militari bloccano gli aerei in pista, i passeggeri sono costretti a scendere ed a riconoscere i propri bagagli, a Chicago c’è chi li fa sdraiare sull’asfalto rovente per essere ispezionati. Gli aeroporti di due continenti chiudono i battenti nel bel mezzo delle vacanze estive. È il caos.
I media si buttano a pesce sulla notizia e mostrano al mondo i terminali presi d’assalto dai militari. Non ci sono morti, nè fuoco e fiamme, ma madri sconvolte con in braccio neonati alle quali vengono strappati di mano i biberon pieni di latte. Bastano quelle immagini isteriche sullo sfondo delle divise militari a far risvegliare il trauma dell’11 settembre.
Uno stuolo di «esperti» sfila davanti alle telecamere, elogia la tempestività dei governi e descrive ai telespettatori scenari apocalittici. Sono tutti membri dell’industria internazionale della paura, senza il loro contributo la psicosi non sarebbe durata cosi tanto. Nata intorno al folclore del terrorismo, questa settore fino a sette anni fa non esisteva. Soltanto negli Stati Uniti il numero delle società di sicurezza specializzate in terrorismo è passato dall’11 settembre ad oggi da 4 a 40.000. È questa, insieme ai media, l’unica industria che ha guadagnato economicamente dallo sfruttamento politico e mediatico della paura. Gli strumenti del mestiere sono principalmente statistiche e notizie false.
Conosci il tuo nemico, diceva Von Clausewiz. L’industria della paura ci impedisce di farlo, ma soprattutto dà manforte all’attività eversiva anche quando non c’è come nel caso del complotto della ricina e di quello dell’aeroporto. Il terrorismo, va ricordato ai membri di questo settore, vuole innanzitutto incutere paura, lo dice anche la parola.

Anche per Marco D'Eramo, che scrive sul MANIFESTO, non ci sideve preoccupare del terrorismo. Piuttosto a fargli "paura" sono i cittadini americani che collaborano con le forze di polizia per garantire la propria e l'altrui sicurezza. Senza mezzi termini li definisce spregiativamente "delatori".

Ecco il testo:

Sulla parete nei vagoni della metro spicca un grande annuncio in blu su campo bianco: «L'anno scorso 1.949 newyorkesi hanno visto e sentito qualcosa. Non tenerti per te i tuoi sospetti». Da un lato ti senti sollevato: meno di 2.000 delatori in una metro che accoglie 4,5 milioni di viaggiatori al giorno e cioè circa un miliardo 700 milioni l'anno! Vuol dire che solo un viaggio su un milione ha causato una delazione: il fenomeno è ancora sotto controllo. Dall'altro lato ti fa paura. Che tipo di società è quella che esige da te di essere sospettoso, diffidente? 

 A sette anni dall'attentato dell'11 settembre 2001, si può dire che mai tanti pochi morti hanno provocato così grandi cambiamenti in tutto il mondo: rispetto alle carneficine della prima e seconda guerra mondiale, sono un'inezia i 2.993 periti (compresi i 19 dirottatori) quel giorno nelle Twin Towers di New York, in un'ala del Pentagono e in un aereo precipitato in Pennsylvania. Per il nuovo ordine mondiale seguito al 1945 ci erano voluti più di 50 milioni di vite, qui 2.993 decessi sono stati sufficienti a scatenare due guerre, a delineare una nuova geopolitica, a revocare legislazioni secolari. Come basta un modestissimo sforzo a sollevare un macigno se si dispone di una leva con un braccio abbastanza lungo, così quei «soli» 3.000 morti sono stati applicati alla leva della comunicazione globale, del disastro in diretta, dei maxischermi in un tutto il pianeta a mostrare il crollo del World Trade Center. Come ci fu l'epoca della Riforma o quella dell'Illuminismo, così gli storici ricorderanno la nostra come l'epoca della «guerra al terrore». E si chiederanno cosa mai significasse davvero quest'espressione. Nei sette anni di «guerra al terrore», le vittime più numerose sono state le libertà civili, le garanzie democratiche, la privacy dei cittadini. E l'epicentro di questo terremoto sono stati gli Usa, seguiti a ruota dalla Gran Bretagna. Nelle mitiche democrazie anglosassoni è stato in pratica abolito l' habeas corpus che di queste democrazie era il vanto principale: cioè il divieto di mantenere qualcuno in prigione senza motivato mandato di un giudice. L'uso della tortura s'è insinuato in modo ipocrita, prima come tecnica eccezionale, chiamata con un eufemismo «interrogatorio estremo», poi rivendicata come strumento indispensabile nella guerra al terrore. In base al Patriot Act (ottobre 2001) è del tutto possibile che mentre tu ceni a casa tua a Mestre, Barletta o San Gimignano, qualcuno irrompa in casa tua, ti sequestri, ti metta su un aereo che ti scarichi nella base di Diego Suarez e che lì tu venga giudicato da un tribunale militare, in segreto, senza diritto di appello e lì tu venga condannato a morte e la condanna sia eseguita e tu scompaia dalla faccia della terra senza che nessuno sappia mai dove sei finito e perché non si hanno più tue notizie. A poco a poco la cultura dell'intercettazione e del sospetto si è diffusa sottopelle in tutta la società americana. Dopo l'11 settembre a essere passati contropelo negli aeroporti erano solo i viaggiatori visibilmente medio-orientali o pakistani: ora qualunque straniero è oggetto di racial profiling . Il fatto che un esercito americano stia combattendo da 7 anni in Afghanistan e da quattro in Iraq è quasi rimosso, ricordato ogni tanto, con lo stesso fastidio con cui un fumatore riconosce i danni del fumo. Dopo un periodo in cui sono usciti parecchi film sulle renditions e sulla guerra, ora i cinema ne proiettano solo uno, ambiguo - The Traitor -, in cui il protagonista è guarda caso un nero americano di fede islamica impegnato infiltrato in un gruppo di terroristi. Persino l'amministrazione Bush ha (per il momento) smesso di diramare allarmi attentati in date accuratamente scelte per avere un impatto politico. La guerra emerge sempre più di rado in superficie, ma la sua presenza sotterranea condiziona anche gli atteggiamenti quotidiani. Nel linguaggio comune, islamismo è ormai sinonimo di terrorismo. Nessun candidato può presentarsi se non come «candidato di guerra»: l'unica differenza fra Barack Obama e John McCain è che per Obama non è l'Iraq la guerra da combattere, ma l'Afghanistan (una tesi che l'amministrazione Bush comincia a condividere). Sulle intercettazioni Obama ha votato a favore di una legge che ha garantito l'impunità alle compagnie telefoniche che avevano messo i propri tabulati a disposizione del governo senza nessun mandato del giudice. Così il paese è piombato in una mentalità di guerra indefinita in cui chiunque può di botto diventare il nemico: per aver votato all'Onu contro la guerra, nel 2003 da un giorno all'altro la Francia divenne il peggiore nemico che gli Usa avessero mai avuto e furono adottate le stesse tecniche usate contro la Germania imperiale nella prima guerra mondiale: nel 1914-'18 i salsicciotti frankfurter divennero hot dogs , i crauti liberty cabbage , la cotoletta alla viennese il liberty steak , proprio come nel 2003 il governo suggerì di cambiare le french fries (patatine fritte) in liberty fries . Per tre anni nei film di azione e spionaggio di Hollywood il vilain fu sempre un francese. In quest'atmosfera di guerra tous azimuth , se non è l'Iraq, lo stato canaglia può essere il Venezuela, l'Iran o la Corea del Nord, o - perché no - la Russia, come si è visto negli ultimi giorni. Per valutare l'entità e la profondità dei cambiamenti avvenuti nella psicologia di massa, basta la battuta di Sarah Palin più citata e che ha avuto più successo: «Qual è la sola differenza tra una mamma americana e un pit bull ?» ha chiesto la candidata repubblicana alla vicepresidenza. La risposta è: «Il rossetto». Prima dell'11 settembre sarebbe stato impensabile paragonare una mammina a un rottweiler. Ora è diventato un complimento.

Enzo Apicella suggerisce nella sua vignetta pubblicata da LIBERAZIONE che l'11 settembre gli americani in fondo se lo sono meritati, e che non è il caso di considerarlo una così grave tragedia.
Gli USA, sostiene, sono responsabile dei 60000 (cifra aumentata di un ordine di grandezza e probabilmente moltiplicata per due, ma non è questo il punto) morti della dittatura di Pinochet in Cile e la data del golpe contro Allende è l'unico "11 settembre" che davvero conti.

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