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Il Foglio - L'Opinione Rassegna Stampa
08.04.2008 Dossier Iraq
la vittoria di al Maliki su al Sadr, il rischio di un genocidio se se ne vanno le truppe americane

Testata:Il Foglio - L'Opinione
Autore: Daniele Raineri - Stefano Magni
Titolo: «Petraeus al Congresso con in tasca la vittoria di Maliki sui sadristi - L’Iraq rischia un genocidio»
Da Il FOGLIO del' 8 aprile 2008, un articolo di Daniele Raineri sulla vittoria di del governo iracheno sulle milizie di Moqtada al Sadr

Roma. Oggi il generale David H. Petraeus sale a Capitol Hill con una notizia di vittoria in tasca. Il comandante dei soldati americani in Iraq torna in America dopo sette mesi a fare rapporto davanti al Congresso sapendo che Moqtada al Sadr, il più duro oppositore della presenza della Coalizione, il leader dell’esercito del Mahdi pronto a trascinare il paese dentro a una guerra civile tra sciiti contro il governo, è sul punto di ordinare lo scioglimento delle sue milizie.
L’annuncio è stato fatto ieri a Baghdad da uno dei consiglieri del capo sciita: Hassan Zargani dice che Moqtada si consulterà prima con la più grande e riverita figura dello sciismo iracheno, l’ayatollah Ali al Sistani, e poi con altre guide religiose in Iran, per decidere se dissolvere la sua armata per sempre. Sarebbe una buona notizia di portata ancora difficile da calcolare: quelli del Jam – Jaish al Mahdi – sono sessantamila irregolari armati come un esercito leggero, micidiali quando scatenano la guerriglia nei quartieri delle città irachene. Sono i soli rimasti con la capacità di colpire duro, come dimostrano gli scontri delle ultime due settimane con l’esercito governativo e i bombardamenti con razzi della Zona Verde; gli estremisti sunniti di al Qaida, braccati su verso nord, hanno ormai perso la capacità di riorganizzarsi e ricrescere come negli anni passati. Già l’anno scorso il Pentagono definiva i sadristi “la minaccia più grave in Iraq, più di al Qaida”.
Moqtada, dice Zargani alla Reuters, ha già ordinato alle sue filiali nelle città sante di Najaf in Iraq e di Qom in Iran di formare una delegazione per fare visita ai grandi leader religiosi “e discutere la fine dell’esercito del Mahdi”. Non è una semplice consultazione: il leader rimette il suo futuro e quello del suo braccio armato alle decisioni delle guide religiose “e obbedirà a quello che diranno”. L’ayatollah al Sistani è la più alta figura carismatica del paese, rispettata da tutte le fazioni; ogni suo editto è considerato come avente forza di legge islamica, anche se interviene soltanto di rado nella vita politica del paese. Ma è difficile che questa volta il venerando non consideri che la presenza dell’esercito del Mahdi – presenza latente, i sadristi per la maggior parte del tempo si comportano in modo elusivo, come un cartello mafioso – paralizza la vita politica del paese, scatena violenze e intimidazioni, rallenta il piano di partenza degli americani e agisce da braccio armato dell’interferenza di Teheran. Resta da vedere quale sarà il responso dei leader iraniani a Qom, rappresentanti di una scuola islamica meno quietista e più intransigente, che potrebbero non voler mollare la presa del loro protetto – Moqtada da tempo si è rifugiato a studiare al loro seminario iraniano – sull’Iraq.

“Il massimo dell’accordo”, dice Talabani
In attesa del verdetto, resta la grande vittoria politica del premier Nouri al Maliki, che due anni fa, quando salì al potere, era stato descritto come una figura debole, che avrebbe resistito poco, in balia di forze più grandi di lui. La notizia di ieri, il possibile scioglimento delle milizie di al Sadr, anche in caso di esito diverso da quello sperato, crea interrogativi sull’effettiva tenuta del suo grande rivale come capo d’armata e come capopartito. Nessuno demanda a terzi la diagnosi sulla propria sopravvivenza politica, come ha fatto Sadr, a meno che lui non stia cercando una soluzione onorevole, una resa per alta decisione altrui, per ritirare dall’arena i suoi miliziani e continuare la lotta soltanto con i suoi parlamentari.
Domenica, il giorno prima del gran passo di Sadr, si è realizzato finalmente un allineamento storico di tutti i partiti e le etnie irachene in Parlamento. Tutti, sunniti, sciiti e curdi, hanno deciso di votare a breve, settimane se non giorni, un provvedimento per dichiarare fuorilegge e quindi escludere dalle elezioni qualsiasi partito che abbia a disposizione una milizia armata (i sunniti hanno ovviamente chiesto l’incorporazione delle loro milizie nelle forze di sicurezza regolari). Tutti d’accordo, tranne i 30 parlamentari (su 275) di Sadr. I suoi hanno capito l’entità dell’ultimatum del governo di Baghdad: “Scegli, o fai politica o ti tieni le milizie”. “Noi sadristi siamo in pericolo – ha detto domenica Hassan al Rubaie, parlamentare di fiducia di Sadr – Anche i partiti che in passato ci hanno sostenuto questa volta sono contro di noi e non possiamo fermarli dall’agire contro di noi in Parlamento”. Il presidente curdo, Jalal Talabani, ha detto che la discussione è stata “cordiale, franca e trasparente. Siamo al nostro massimo e tutti d’accordo”. Un altro curdo, il parlamentare Mahmoud Othman, ha minacciato i sadristi: “O sciogliete la milizia o dovrete vedervela con gli americani”. Al Rubaie, presente all’incontro, ha capito subito: “Il nostro isolamento politico era chiarissimo durante l’incontro”. Tutti gli altri partiti hanno decretato all’unanimità, a loro non restava che “correre da Sadr, per avvisarlo del problema”.
La mossa di Maliki è stata la prosecuzione in politica della guerra cominciata due settimane fa a Bassora e in tutto il paese con l’operazione “Carica dei cavalieri”. Ufficialmente gli scontri non si sono ancora fermati, nonostante la tregua – raggiunta grazie alla mediazione del capo dei pasdaran, Qassem Suleimani, sulla lista americana dei ricercati per terrorismo – offerta da Sadr la settimana scorsa. Domenica ci sono stati scontri nel gigantesco quartiere alveare di Sadr City, a Baghdad, roccaforte dei sadristi. Secondo indiscrezioni, i soldati americani, considerato che ormai il dado è tratto, si preparano a entrare, per bonificare una delle ultime zone proibite dell’Iraq. Le milizie, dentro le stradine e i palazzi messi a labirinto, si preparano a respingere l’offensiva.
Il grande rimprovero che il generale Petraeus aveva dovuto incassare sette mesi fa, al momento del suo primo rapporto al Congresso, era che la politica irachena è paralizzata, incapace di prendere decisioni, bloccata dai veti incrociati delle fazioni, troppo numerose e complicate per arrivare a un accordo. Oggi si presenta mentre Baghdad prende una decisione quasi all’unanimità dei partiti iracheni, l’ultimatum a Moqtada, contro il nemico più pericoloso rimasto in circolazione. E forse con la sua resa finale.
Oggi, secondo il Times, il generale – che parlerà anche davanti ai candidati alla presidenza, John McCain, Hillary Clinton e Barack Obama – punterà il suo rapporto contro l’Iran, per il suo ruolo di stato sponsor delle violenze in Iraq. Secondo fonti militari e dell’intelligence, i pasdaran iraniani erano presenti durante la battaglia di Bassora e operavano in campo a fianco dei miliziani del Mahdi, dirigendone le manovre. Ci sono rumors di frizioni tra il comandante Petraeus e il premier Maliki sulla grande offensiva anti milizie nel sud, che era già stata concordata, ma per il mese di giugno. Il generale sarebbe stato avvisato soltanto quattro giorni prima, e sarebbe stato contrario, per non scatenare combattimenti proprio alla vigilia del rapporto al Congresso. Ma fonti a Baghdad danno una versione differente. L’aumento del traffico scoperto di armi e di razzi dall’Iran ha tradito l’inizio imminente di una campagna da parte dell’esercito del Mahdi. Il governo per questo ha deciso di anticipare di quattro mesi la retata già organizzata.

Cosa accadrebbe se gli americani si ritirassero dall'Iraq (come vogliono entrambi i possibili  candidati presidenziali democratici). Risponde uno studio dell'  dall’Institute of Peace di Washington.
Un articolo di Stefano Magni da L'OPINIONE
 :

Se gli americani dovessero ritirarsi dall’Iraq, sarebbe un genocidio. Probabilmente pari o peggiore al terribile democidio che si scatenò in tutto il Sud Est asiatico (e in particolar modo in Cambogia: due milioni di morti in soli tre anni) dopo la partenza degli ultimi marine. Questi sono i risultati di uno studio condotto dall’Institute of Peace di Washington e reso pubblico domenica scorsa.
Questa istituzione apolitica, finanziata dal Congresso e dedita allo studio di soluzioni per prevenire conflitti, non ha fatto altro che ribadire quel che era già stato detto più volte, non solo da John McCain e George W. Bush, ma anche da uno studioso di genocidi quale Rudolph J. Rummel e persino da un’attrice liberal e pacifista come Angelina Jolie: “Se ce ne andiamo subito dall’Iraq sarà un massacro”.

Lo studio conclude che senza truppe presenti nella regione, gli Stati Uniti perderebbero la capacità di combattere il terrorismo in loco, aumentando le probabilità che il paese diventi una base per condurre attentati contro l’Occidente. La partenza di militari, tecnici e diplomatici dall’Iraq permetterebbe agli Stati Uniti di impiegare le stesse risorse umane su altri fronti della guerra al terrorismo, ma aumenterebbe nei gruppi jihadisti la percezione di un’America sconfitta. La stessa condizione che si venne a creare dopo il ritiro americano dalla Somalia nel 1993: fu in quell’occasione che i gruppi jihadisti, che poi costituirono Al Qaeda, poterono moltiplicare le reclute e fare un notevole salto di qualità. In seguito a un disimpegno dall’Iraq, la stabilità regionale potrebbe risultare compromessa, nel caso lo Stato iracheno dovesse fallire. Solo se il governo di Baghdad riuscisse a reggere e a mantenere l’ordine senza aiuti esterni, un ritiro americano dalla regione potrebbe anche produrre effetti positivi. L’influenza iraniana sull’Iraq, nelle ultime settimane, si è avvertita in modo particolare con la rivolta della fazione sciita di Al Sadr a Bassora e a Baghdad.

Senza più truppe americane a far da deterrente e ad aiutare l’esercito iracheno nel mantenimento dell’ordine, il regime di Teheran avrebbe ancora più mano libera sul vicino. Lasciato solo, il governo iracheno potrebbe collassare. L’esito prevedibile, a questo punto, sarebbe una guerra civile o anche un genocidio. Già la popolazione cristiana è sottoposta a una dura persecuzione nelle aree in cui comandano ancora gli islamisti. In caso di partenza affrettata degli americani, tutta la minoranza sunnita rischierebbe la vendetta della maggioranza sciita: un leader come Al Sadr già oggi si oppone a soluzioni federali, stando alle sue dichiarazioni. In caso di violazione massiccia dei diritti umani, gli stessi liberal che ora premono per un ritiro più rapido possibile (soprattutto i sostenitori di Barack Obama), predicherebbero un intervento umanitario, così come hanno fatto per il Ruanda nel 1994 e per il Kosovo nel 1999.

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