L'analisi di Stefano Magni da L'OPINIONE:
Ieri mattina è arrivata la conferma: il primo lotto di carburante nucleare per la centrale di Bushehr è giunto in Iran dalla Russia. La notizia è in controtendenza con quanto si era appreso fino alla settimana scorsa sui difficili rapporti tra Mosca e Teheran: la centrale nucleare in costruzione doveva essere già inaugurata da settembre, ma i Russi avevano ritirato i tecnici e sospeso le consegne perché gli Iraniani non pagavano. La settimana scorsa, l’azienda russa Atomstroiexport, impegnata nel programma, aveva dichiarato di non avere più problemi, perché erano state risolte le dispute sulla costruzione. Ma il dissidio non era solo economico. La sospensione dei lavori a Bushehr risale al marzo scorso. Lo scorso 16 ottobre, quando Putin si era recato a Teheran (la prima visita di un leader del Cremlino a Teheran dalla II Guerra Mondiale), la sua impressione sui partner iraniani era estremamente negativa. Il giornalista di origine iraniana Amir Taheri, messosi in contatto con membri dell’entourage russo di Putin, aveva definito “educativa” quella visita: “Questa era la prima volta che Putin parlava direttamente con i vertici della Repubblica Islamica.
Il presidente ha trovato come minimo ‘bizzarri’ i suoi interlocutori iraniani”. La stessa fonte del Cremlino aveva affermato che: “Gli Iraniani pensano di avere già vinto. Sono talmente intossicati dal loro entusiasmo che non hanno neppure chiesto a Putin di aiutarli respingendo eventuali nuove sanzioni dell’Onu”. Dopo quella visita, tra le altre cose, il presidente russo si era rifiutato di fissare una data precisa per l’inaugurazione dell’impianto di Bushehr. Aveva preso tempo, dichiarando la ripresa dei lavori fosse dipendente dalla “soluzione di altri problemi”, leggasi: della disputa con l’Onu per l’arricchimento dell’uranio.
Come si spiega che i Russi abbiano cambiato idea? La disputa con l’Onu non è stata affatto risolta. Anzi, proprio in occasione della consegna del primo lotto di carburante nucleare, Teheran ha immediatamente confermato che non interromperà il ciclo di arricchimento dell’uranio. Dunque, c’è solo un motivo valido che può avere indotto Mosca a riprendere la sua collaborazione con l’Iran: il rapporto di intelligence statunitense e il conseguente abbassamento del livello di guardia sul programma atomico militare iraniano.
Lo storico militare Victor Davis Hanson, in un suo recente editoriale della National Review, aveva previsto un simile effetto collaterale: gli alleati degli Stati Uniti e le altre potenze coinvolte nella questione nucleare iraniana avrebbero cambiato le loro percezioni sul problema, convincendosi che “...molto probabilmente non vi sarà un’azione preventiva americana contro i siti nucleari iraniani e, sfortunatamente, non vi sarà una forte politica statunitense per ottenere sanzioni più dure su un Iran che sembra già essere stato messo fin troppo sotto pressione”. E’ in base a questa percezione di “cessato allarme” che i Russi ora pensano di poter riprendere la loro collaborazione senza timore di vedersi coinvolti in un conflitto. Al contrario, gli alleati degli Stati Uniti minacciati direttamente da un Iran nucleare, sono ancora più preoccupati. Lo rivela l’esternezione di Avi Dichter, ministro per la Sicurezza Interna di Israele, dello scorso 16 dicembre, che ha definito “errata” la percezione americana del pericolo iraniano e, in base a questo, ha messo in dubbio la stessa validità di tutta la politica mediorientale di Washington. Il premier Ehud Olmert ha immediatamente rimproverato il suo ministro, dichiarando ieri che non sono ammissibili commenti su un tema così delicato. Ma il nuovo attaché militare israeliano a Washington, Benny Gantz, ha ribadito ieri al quotidiano Jerusalem Post che: “Il mondo capisce che l’Iran è un problema, dal momento che si parla di imporre sanzioni. Ma non sono sicuro che si comprenda sino in fondo quale sia la gravità e l’urgenza del problema”.
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