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Il Foglio - Ideazione Rassegna Stampa
31.08.2007 Gli errori americani in Vietnam
e il rischio di ripeterli in Iraq

Testata:Il Foglio - Ideazione
Autore: Caro Panella - Stefano Magni
Titolo: «Il filo rosso tra il Vietnam e l'Iraq - Effetto domino, dal vietnam all'Iraq»
Da pagina 2 dell'inserto del FOGLIO del 31 agosto 2007 , un importante articolo di Carlo Panella sul "filo rosso tra il Vietnam e l'Iraq":

Alla fine, dopo anni di jettature evocate dagli opinionisti avversi e dai democratici, George W. Bush ha preso per le corna il problema e ha paragonato senza peli sulla lingua l’Iraq al Vietnam. L’ha fatto, come al solito, in maniera spiazzante, ammonendo che “allora come oggi la gente diceva che il vero problema era la presenza americana, che, se ce ne fossimo andati, le stragi sarebbero finite. Ma un’eredità incontrovertibile del Vietnam è che il prezzo del ritiro americano è stato pagato da milioni di cittadini innocenti le cui sofferenze hanno aggiunto nel nostro vocabolario termini come ‘Boat People’, ‘Campi di rieducazione’ e ‘Killing Fields’”. Al di là della polemica interna, dunque, il presidente americano, con tutta evidenza, inizia a comprendere che il paragone tra Iraq e Vietnam non è riconducibile soltanto al problema del ritiro – sterile litania elettorale dei democratici – e con lui sta mettendo a fuoco quella parte dell’Europa, come la nouvelle vague sarkozysta, che non si accontenta della ritualità declamatoria. Solo la sinistra americana ed europea (da Hillary Clinton e Barak Obama, sino a Zapatero, D’Alema, Rutelli e Prodi), è tanto sterile, dogmatica e a corto di dottrina politica da pensare che la spaventosa crisi irachena si risolverà d’incanto, da sola, non appena l’ultimo soldato americano avrà lasciato il suolo iracheno. Dentro il partito repubblicano, così come dentro il governo francese e in quello inglese, si sta dunque sviluppando una discussione che ha le forme parziali della critica al governo di Nuri al Maliki, e che in realtà evoca il vero tema di fondo che il Vietnam pose: il nation building, la formazione di un’ élite nazionale in grado di governare i processi politici in quelle crisi dei paesi del mondo – allora il Vietnam, col suo effetto domino – oggi l’Iraq e l’Iran, che rischiano, con la loro politica aggressiva e destabilizzante verso l’esterno, di mettere in crisi gli equilibri planetari. Il fallimento del nation building a Saigon, in realtà, fu il vero errore delle amministrazioni americane in Vietnam, a partire da quella di J.F. Kennedy. Fu la causa principale, determinante della sconfitta e dei drammi che ne seguirono. Bene fanno i generali di West Point ad insegnare ancora oggi che in Vietnam l’esercito americano aveva vinto, sul terreno, perché così fu, sotto il profilo puramente tecnico. Ma la sconfitta americana in Vietnam non fu neanche il prodotto, come solitamente si dice, del collasso del “fronte interno” americano. Per lo meno, non lo fu nell’accezione corrente, di un rifiuto radicale, totale da parte della società americana della guerra in sé stessa a causa dei 60.000 morti. Lectio pacifista assolutamente non corrispondente ai fatti che ammorba l’analisi della sinistra italiana e di certa sinistra americana. Il “fronte interno” effettivamente collassò, ma non a causa del peso di sangue di quei 60.000 americani caduti, ma perché i governi americani, democratici e repubblicani, non poterono più convincere gli Stati Uniti ad affrontare quel sacrificio a fronte dell’evidenza di un regime vietnamita del sud che non era in grado di offrire nulla al paese se non il proprio fanatismo religioso cattolico, il proprio dispotismo, la propria inefficienza. L’essenza vera della sconfitta vietnamita fu che nessun presidente poteva più chiedere ai giovani americani di morire per Van Thieu e Cao Ky, così come si era chiesto e facilmente ottenuto che i loro padri morissero per Churchill e De Gaulle. Kissinger e Nixon ne presero atto, si ritirarono nel 1972, inaugurarono la “vietnamizzazione”, che fallì per il collasso politico del governo sudvietnamita. A cui seguì la sconfitta militare, e non viceversa. Il fulcro del fallimento di Washington a Saigon fu dunque essenzialmente conseguenza dello spaventoso errore commesso dal presidente J.F. Kennedy, che scelse di fondare il nation building sud vietnamita su un gruppo dirigente formato dalla ristrettissima élite cattolica (il 5 per cento della popolazione) ereditata e mal cresciuta nell’esperienza coloniale francese: prima il dittatore Ngo Dinh Diem, spodestato poi da un golpe deciso da Kennedy poche settimane prima di essere ucciso, e in seguito i dittatori Nguyen Cao Ky e Nguyen Van Thieu. L’errore conseguente a questa scelta fu sempre di Kennedy: l’esclusione totale della “terza forza” dal governo di Saigon. Incapace di comprendere che un gruppo dirigente cattolico non avrebbe mai ottenuto la fiducia di un paese buddista e taoista, Kennedy – e dopo di lui Johnson e Nixon – non comprese che invece soltanto e unicamente attraverso la formazione di un fronte ampio di forze anticomuniste si poteva costruire una prospettiva unificante nazionale. Pure, due furono i terribili segnali che erano già venuti dal Vietnam. Il primo furono i suicidi col fuoco dei monaci buddisti, a partire da quello del monaco Thich Quang Duc, terribili olocausti non violenti trasmessi dalle televisioni di tutto il mondo, il cui messaggio fu incoscientemente ignorato da Washington. Quei monaci non erano filocomunisti, non erano agli ordini di Ho Chi Minh, non chiedevano la resa del Vietnam del Sud al regime comunista del Nord, ma si immolavono per convincere il regime dispotico di Saigon e gli alleati americani a rispettare la tradizione politica vietnamita, a non appoggiare un regime cieco. Madame Nhu, cognata del dittatore Diem, esponente politica cattolica molto apprezzata a Washington, definì sprezzantemente l’olocausto dei monaci “il solito barbecue buddista” e da quel momento l’opposizione della “terza forza” sudvietnamita fu praticamente costretta ad allearsi con i vietminh (salvo poi essere fisicamente spazzata via da Ho Chi Minh, dopo la vittoria del 1975, come giustamente ricorda oggi Bush). Il secondo segnale non accolto dagli Stati Uniti fu addirittura l’opposizione armata contro la dissennatezza cattolica dei fiduciari americani in Vietnam che spinse alcuni importanti generali buddisti sudvietnamiti – assolutamente anticomunisti, ma nazionalisti- a combattere per settimane a Hue a Danang, nel 1966, con armi americane, contro generali sudvietnamiti cattolici filoamericani. E’ importante notare che quella serie di errori tutti politici, prima che militari, furono conseguenza non casuale di una precisa e raffinata “dottrina” kennediana, che, ispirata dal “Manifesto non comunista” di W. W. Rostow, puntava tutto solo sui fattori economici, in una prospettiva ultraliberale ma solo e miseramente economicista, per favorire con consistenti aiuti economici la formazione di forti élites nazionali nei paesi emergenti. Aiuti finanziati con il surplus americano e tutti giocati su moderni processi di sfruttamento agricolo, di implemento delle infrastrutture e sulla formazione di un moderno sistema bancario. Il fallimento dei 3.600 “villaggi strategici” sudvietnamiti a cui seguì quello del “Programma di sviluppo rivoluzionario” furono le prime batoste della strategia kennediana a cui seguì, non a caso, l’autogolpe americano contro Ngo Dinh Diem, che fu assassinato. Fu questo il limite della Nuova Frontiera kennediana che applicò peraltro, in contemporanea, lo stesso identico fallimentare schema economicista anche in Egitto (salvo scoprire poi che i miliardi di dollari di aiuti a Nasser erano stati impiegati non nell’agricoltura, ma per acquistare le armi sovietiche che dovevano servire nella guerra del 1967) e nell’Iran dello scià, costretto da Kennedy a quella “Rivoluzione bianca”, che eliminò sì il feudalismo, ma che innescò anche la reazione, con larghissimo seguito popolare, del sino allora sconosciuto ed emarginato ayatollah Khomeini, con le conseguenze a tutti note. Questa pesante eredità kennediana ha fatto sentire tutto il suo peso anche nella vicenda irachena e non solo per i continui riferimenti alle teorie di Rostow da parte di Condoleezza Rice. Forte dell’esperienza kennedyana nel Vietnam e in quella accumulata nei decenni precedenti, i neoconservatives americani e l’Amministrazione Bush, ebbero, va detto, buona cura, nel preparare l’invasione dell’Iraq nel 2003 – così come avevano fatto nel 2001 in Afghanistan – appoggiandosi non a settori nazionalisti limitati, ma tutte le forze irachene anti baathiste. Già nell’agosto del 2002, tutti i partiti dell’opposizione a Saddam, inclusi quelli filo iraniani, furono invitati a Washington, per costituire quel nucleo forte nazionalista su cui basare il nation building (nell’autunno, la Conferenza di Londra perfezionò il disegno). Ma, di nuovo, fu compiuto lo stesso errore di Kennedy e Johnson nei confronti della “terza forza” vietnamita. Per due lunghi anni, dopo la tragica esperienza del primo, inadeguato governatore plenipotenziario Jay Garner, il nation building americano in Iraq fu segnato dalle polemiche tra il Dipartimento di stato di Colin Powell, che puntava su Iyyad Allawi e il Dipartimento della difesa di Donald Rumsfeld, che era certo che Ahamd Chalabi sarebbe stato l’indiscusso leader di Baghdad. I due, sciiti, ma laici, si proponevano come leader di un progetto tutto e solo basato su vaghi progetti economici, senza avere alcuna capacità di proporre al paese una identità nazionale nuova, che tenesse conto del difficile retaggio nazionale, al di fuori di un buon raccordo con i filoamericani leader curdi. Giunti alle elezioni costituzionali e poi a quelle politiche, gli americani dovettero prendere atto che Allawi e Chalabi, nonostante avessero avuto buona parte del controllo del governo, godevano a stento del 10 per cento dei consensi elettorali. La “terza forza” irachena era invece egemone, otteneva il 60 per cento dei consensi ed era costituita dagli sciiti che seguivano quell’ayatollah Ali al Sistani che Washington aveva per due lunghi anni ignorato. Costretti a inseguire una realtà nazionale totalmente sconosciuta, obbligati a fare i conti con la secolare guerra civile tra wahabiti e sciiti, che pure aveva insanguinato Kerbala e Najaf sin dal 1804, condizionati dall’alleanza strategica con la casa regnante saudita (il trisavolo di re Fahad e di re Abdullah, era stato il feroce massacratore degli sciiti iracheni nel 1804), gli americani hanno puntato tutto su una mediazione interna e hanno trovato infine, in Nuri al Maliki, un potenziale mediatore e nel suo governo di unità nazionale, un auspicato punto di forza. Ma oggi, sono costretti a prendere atto che mentre il generale David Petraeus è finalmente in grado di elaborare una strategia militare sul territorio che riesce a coinvolgere anche la “quarta forza” dei capi tribù sunniti nella lotta contro al Qaida, il governo di al Maliki, non riesce affatto a essere un punto di riferimento per gli iracheni. Impastoiato in continue mediazioni, afflitto dalla classica corruzione mediorientale, questo governo vivacchia e non scioglie nessuno dei nodi sul terreno: il recupero dei baathisti (incautamente gettati nelle braccia di al Zarqawi dall’epurazione troppo drastica suggerita da Chalabi e Allawi), il governo iracheno governa ben poco, fuori dalla Zona Verde. Questa è l’impasse oggi, questo il tema che oggi evocano anche autorevoli esponenti repubblicani come Mitch McConnell (“il governo Maliki è un disastro”) e l’ex capo della commissione Difesa Jack Warner: Bush può chiedere ai giovani americani di morire per al Maliki? Questo è l’altro gancio della tenaglia che il generale David Petraeus deve evitare. Si sta infatti delineando una situazione non certo simile, ma in qualche modo paragonabile a quella vietnamita: l’intelligente strategia politica di Petraeus riesce a conseguire sul territorio – grazie all’alleanza con la “terza forza” sunnita – eccellenti risultati militari. Ma il paese, nel suo complesso è ancora “senza testa”, senza leadership riconosciuta; gli iracheni non guardano ancora a Baghdad come alla loro capitale, al simbolo dell’azione di un governo nazionale. Al massimo vi guardano come sede del tavolo partitorio di un’infinita mediazione senza mai sbocchi. In questa situazione si inserisce l’azione di stimolo a Bush dei repubblicani dissidenti, che hanno fatto comprendere ad al Maliki che sbaglia se pensa di potere continuare a temporeggiare contando sul sacrificio dei soldati americani. Ma si inserisce anche l’azione che il presidente francese, Nicolas Sarkozy, e il suo ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, stanno elaborando, rompendo ancora una volta la stasi dell’era di Chirac. Là dove l’ex presidente si limitava a una politica di opposizione dura e pura, Sarkozy e Kouchner stanno tentando di elaborare – e lo dicono – una strategia che sia di sprone nei confronti dell’alleato americano, che parte dalla presa d’atto del fatto che al Maliki non è adeguato, ma che qui non si ferma. Parigi sa bene che potenti forze dentro il Dipartimento di stato puntano a sostituire il premier con al Mahdi o con Allawi, ma ritiene che questo possibile cambiamento debba essere inserito non in una operazione di corridoio, ma in una riflessione più profonda sull’esperienza sin qui fatta nel nation building, su cui Sarkozy ha assicurato che la Francia intende spendersi a pieno. Per la prima volta, insomma, Washington può contare sul vecchio continente non soltanto sulla tradizionale alleanza con Blair-Gordon Brown, Berlusconi e Aznar, ma anche con la volontà – che è anche di Angela Merkel – di enucleare nei fatti, nella politique politicienne, una adeguata dottrina che si opponga alla tendenza al collasso sanguinario delle società islamiche. Sarkozy e Kouchner, sono coscienti, anche per esperienza personale, che l’Iraq viene dopo l’Algeria e che ha dinamiche assolutamente simili a quelle scatenatesi due mesi fa a Gaza. Sanno che dal 1991 si sta sviluppando un terribile processo di lacerazione della umma, in cui l’elemento fondamentale non è la lotta di liberazione nazionale (che può terminare, appunto con il ritiro americano o israeliano), ma la Fitna, l’ennesima guerra civile musulmana. Da qui, da questa volontà di un elaborazione strategica comune tra Stati Uniti e Europa, è possibile partire per elaborare dei correttivi. Anche se non è detto che si riuscirà a farlo.

Nel numero di settembre-ottobre del 2005 la rivista IDEAZIONE pubblicò un saggio di Stefano Magni utile a capire in cosa l'attuale situazione irachena richiami davvero quella vietnamita: 

 Capita che a determinare la vittoria o la sconfitta in una guerra siano delle parole. Le parole che hanno causato la sconfitta degli americani in Vietnam sono soprattutto due: effetto domino.

Con “effetto domino” si riassumeva una teoria, in voga fra gli analisti statunitensi nei primi anni Cinquanta, secondo cui la presa del potere da parte dei comunisti in un paese avrebbe accelerato l'espansione comunista anche in tutti i paesi confinanti. La percezione che dominava a Washington prima della Guerra del Vietnam era quella di essere in inferiorità di fronte a un movimento comunista in espansione in tutto il mondo, posizione che costringeva a giocare in difesa e ad evitare qualsiasi contrattacco. Sicuramente uno dei motivi principali di questa prudenza era il terrore di una guerra nucleare, anche se, fino all'introduzione dei primi Icbm (missili balistici intercontinentali) da parte delle forze armate sovietiche, questa paura era abbastanza limitata: con un esiguo numero di bombe atomiche e con i bombardieri a loro disposizione, i sovietici avrebbero potuto fare ben poco contro le difese degli Stati Uniti. Più che altro, la prudenza e la volontà di giocare strettamente sulla difensiva, era di natura culturale: l'idea che il comunismo fosse un'ideologia in espansione, che potesse attrarre masse di europei e di asiatici. In particolare, per quanto riguarda i paesi del Terzo Mondo, la paura era che il comunismo potesse diventare l'aspirazione dominante dei popoli oppressi dal colonialismo.

Il senso di inferiorità americano nel Vietnam
Questo profondo senso di inferiorità era dominante nelle menti dell'élite politica americana nel momento in cui si dovettero prendere delle decisioni per il Vietnam. Lo scenario della Guerra del Vietnam, che poi divenne per quasi venti anni il fronte principale della Guerra Fredda, incominciò a delinearsi con la fine del colonialismo francese in Indocina, una ritirata formalizzata con gli Accordi di Ginevra nel 1954. Il Vietnam fu diviso in due all'altezza del diciassettesimo parallelo. Il Vietnam del Nord divenne un regime comunista filo-sovietico, costruito a immagine e somiglianza dell'Unione Sovietica di Stalin. Il Sud divenne un regime autoritario, nazionalista, vicino agli interessi degli Stati Uniti. Come nel caso della Corea, il Vietnam del Nord non accettò la divisione del paese e mirò alla conquista di tutto il territorio fin dal momento in cui il regime comunista, guidato da Ho Chi Minh ad Hanoi, ottenne il pieno controllo sulla sua parte di popolazione vietnamita. Già nel 1955 iniziò una guerriglia a bassa intensità contro il regime di Diem nel Vietnam del Sud, ad opera di guerriglieri comunisti (Viet Cong) fedeli al regime di Hanoi. Dunque, per gli Stati Uniti, il problema di difendere un alleato dall'aggressione comunista si pose fin dall'anno successivo alla ritirata dei francesi dall'Indocina. Il problema fu affrontato, inizialmente, come un sostegno al mantenimento dell'ordine interno del Vietnam del Sud. Il presidente Eisenhower era convinto che, in caso di elezioni libere, Ho Chi Minh avrebbe vinto e sarebbe diventato il presidente comunista di un Vietnam riunificato. In un memorandum inviato all'ambasciatore statunitense nel Vietnam del Sud, il presidente diede queste istruzioni: «Far durare e spalleggiare un governo non comunista, indipendente e amico, in Vietnam, assistendolo nel ridimensionamento e nel successivo sradicamento della sovversione e dell'influenza comunista»1. I termini di queste istruzioni sono chiaramente difensivi e il pericolo comunista viene interpretato come un movimento “sovversivo” o come una “influenza politica”, per di più percepita come condivisa dalla maggioranza della popolazione locale.

Quando l'offensiva del Vietnam del Nord contro il Vietnam del Sud divenne sempre più evidente, il successore di Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy, affrontò la questione usando una comunicazione più drammatica. Kennedy, che definiva il regime di Diem nel Vietnam del Sud come «un dito nella falla dell'argine», si ripropose di incrementare l'impegno statunitense nel Vietnam perché: «Nessun'altra sfida merita di più ogni sforzo, ogni nostra energia. Il nostro sistema di sicurezza può cadere un pezzo dopo l'altro, un paese dopo l'altro»2. La percezione dominante era quella del domino, o, ancora peggio (in termini comunicativi) quella della “mela marcia”, riprendendo il ragionamento del segretario di Stato Dean Acheson, secondo cui: «Una singola mela marcia può far marcire l'intero barile». Toccò al successore di Kennedy, Lyndon Johnson, trasformare l'intervento americano da assistenza militare a invio di truppe combattenti nel Vietnam del Sud a partire dal 1964. Lo fece, come sempre, con grandissima prudenza. Buona parte degli obiettivi strategici del Vietnam del Nord (compresa Hanoi) furono dichiarati aree off limits, fu proibito alla marina di minare i porti nordvietnamiti e persino gli obiettivi tattici dei bombardamenti furono determinati previa consultazione delle autorità politiche. Buona parte del lavoro americano nel Vietnam del Sud, inoltre, era volto a conquistare “cuori e menti” della popolazione sudvietnamita: furono dunque stornati fondi consistenti e un gran numero di personale civile e militare per realizzare programmi di assistenza e sviluppo. Ciò era dovuto a due fattori: dalla paura che fossero i comunisti ad aver già conquistato i cuori e le menti della popolazione sudvietnamita e soprattutto dal terrore che la Cina e l'Unione Sovietica intervenissero nel conflitto contro gli Stati Uniti.

La filosofa oggettivista Ayn Rand, che pure era contraria all'intervento nel Vietnam (ritenendolo un fronte secondario nella Guerra Fredda, un intervento inutile per la difesa della sicurezza americana), non poteva fare a meno di notare e additare al pubblico ludibrio questo eccesso di prudenza: «In tempo di guerra il morale di una nazione è un fattore cruciale – scriveva nel 1967 in The Wreckage of the Consensus – Nella seconda guerra mondiale, in Inghilterra, Lord Haw-Haw3 fu giustamente considerato un traditore per aver commesso il crimine di abbattere il morale dei soldati britannici trasmettendo programmi sull'imbattibile potenza della Germania nazista. In tempi di Guerra Fredda, quali i nostri, il lavoro di Lord Haw-Haw è svolto direttamente dai nostri leader politici. Le storie terrorizzanti sulla possibilità di escalation, sulla nostra paura di una guerra con la Cina sarebbero già vergognose se diffuse dai leader di paesi minuscoli come Monaco o il Lussemburgo. Siccome provengono dai leader della più grande potenza militare del mondo, vergognoso non è un aggettivo adeguato per descrivere il suo vero significato morale»4.

Consapevolmente o meno, quasi sicuramente agendo in buona fede, l'establishment aveva spianato la strada ai suoi nemici: «La vera paura – scrive l'autore di estrema sinistra Noam Chomsky, nel suo The Threat of a Good Exemple – era che se il popolo dell'Indocina avesse guadagnato indipendenza e giustizia, il popolo della Thailandia lo avrebbe imitato e se ciò avesse funzionato, ci avrebbe provato anche la Malesia e ben presto anche l'Indonesia avrebbe seguito il sentiero dell'indipendenza e quindi una porzione significativa di tutta la Grande Area sarebbe stata perduta. Se vuoi un sistema globale sottomesso agli interessi degli investitori statunitensi, non puoi lasciarti sfuggire qualche pezzo»5. Ma l'idea che l'intervento nel Vietnam fosse una guerra americana contro un popolo sollevatosi in massa per ottenere «l'indipendenza e la giustizia», non era condivisa solo negli ambienti di estrema sinistra. Anche il maggior teorico libertario contemporaneo, Murray Newton Rothbard, all'indomani della caduta di Saigon e della presa del potere di Pol Pot in Cambogia, scriveva: «La lezione del Vietnam e della Cambogia, per i libertari, sta nel vedere come si distrugge uno Stato. La superiore potenza di fuoco americana non ha potuto prevalere sulla volontà e la determinazione della massa dei vietnamiti e dei cambogiani impegnati a lottare per raggiungere l'obiettivo, solo apparentemente impossibile, del rovesciamento dei loro governi dittatoriali. La morte dello Stato sudvietnamita vendica una volta di più le ragioni di chi sostiene la teoria della guerriglia di massa. Dopo una lunga, lenta e paziente lotta, condotta dalle armate di guerriglieri (appoggiate dal popolo) contro le armate dello Stato (appoggiato da potenze imperialiste esterne), è stato sferrato un colpo mortale allo Stato, facendolo crollare con sorprendente rapidità»6.

Il Vietnam reale
Al di là delle lenti ideologiche impiegate da analisti e commentatori americani durante la Guerra del Vietnam, la realtà era ben diversa. Il Vietnam del Nord non era una “mela marcia” pronta a contagiare tutto il resto del barile, né il primo tassello di un effetto domino, pronto a travolgere tutti gli Stati confinanti, né tantomeno un buon esempio”che i vicini avrebbero voluto seguire per ottenere l'indipendenza. Il Vietnam del Nord era prima di tutto un regime dittatoriale che si era affermato con la violenza sulla sua stessa popolazione. Il regime di Hanoi, non solo non fu mai scelto liberamente dalla popolazione, ma si impose con una serie di purghe ai danni dei membri delle forze politiche non comuniste, poi nelle stesse file comuniste ai danni dei membri meno allineati alla classe dirigente di Ho Chi Minh e infine di tutta quella popolazione che era considerata nemica per motivi puramente classisti. La prima purga avvenne fra il 1945 e il 1947, quando furono eliminati gli indipendentisti non comunisti e, dalle stesse file dei comunisti, furono epurati gli elementi trotzkisti. In quegli anni, nelle aree controllate dai comunisti, venticinquemila dissidenti furono incarcerati e cinquemila eliminati fisicamente7. La violenza peggiore scatenata dai comunisti nordvietnamiti, comunque, si ebbe tra la fine della guerra contro la Francia e l'inizio della Guerra del Vietnam propriamente detta.

Nel 1953, quando la guerra di indipendenza non si era ancora conclusa, i comunisti controllavano gran parte del Vietnam del Nord e in quella regione avviarono una campagna di collettivizzazione delle terre di tipo staliniano: eliminazione fisica totale dei proprietari terrieri. Il massacro fu imponente, considerando che in alcune regioni, come quella del Fiume Rosso, praticamente tutte le terre erano di proprietà dei contadini. I quadri comunisti vietnamiti, con l'aiuto di consiglieri cinesi, suddivisero scientificamente la popolazione in numerose classi sociali, per poi passare all'eliminazione fisica di quelle ritenute ricche. Non appena una classe superiore veniva debellata, si passava all'eliminazione di quella sottostante. Quando anche questa era stata sterminata, veniva effettuata una riclassificazione dei contadini poveri in sottoclassi e quelli relativamente più ricchi venivano anch'essi eliminati. In alcune regioni, dove non era possibile suddividere in classi sociali la popolazione, i comunisti procedettero, sempre sull'esempio staliniano, ad eliminazioni per quota: forse la più inumana forma di sterminio che la storia delle dittature ricordi, con un calcolo simile a quello fatto dai no-global odierni sull'iniquità della distribuzione della ricchezza, il partito sosteneva che il 95 per cento della ricchezza fosse posseduto dal 5 per cento della popolazione. E quel 5 per cento doveva essere eliminato fisicamente, villaggio per villaggio. Le quote dovevano essere rispettate: non importava chi fucilare, ma quanta gente uccidere. Il tutto senza troppi sensi di colpa: «È meglio uccidere dieci innocenti che lasciar vivo un solo nemico», aveva dichiarato il dirigente comunista Nguyen Manh Tuong nel 1953.

Questo massacro andò avanti senza sosta dal 1953 al 1956, fino a quando la collettivizzazione delle terre non fu portata a termine. Finita la collettivizzazione, si passò all'eliminazione fisica dei quadri comunisti ritenuti non sufficientemente affidabili. In tre anni di potere assoluto e terrore, il regime di Ho Chi Minh aveva assassinato a sangue freddo circa 420mila persone. Si può capire come mai, dopo la ritirata dei francesi e l'accordo di pace firmato a Ginevra nel 1954, quando il paese fu diviso in due (il Nord comunista e il Sud nazionalista) nessuno volesse vivere al Nord e nessuno al Sud desiderasse la riunificazione del paese. Basti pensare che, subito dopo la firma dell'accordo di Ginevra, quando la frontiera fu lasciata aperta per trecento giorni, un milione di nordvietnamiti scappò al Sud, mentre solo centomila sudvietnamiti (quasi tutti guerriglieri comunisti che avevano combattuto contro i francesi) si trasferì al Nord8. Il regime di Hanoi, insomma, lungi dal rappresentare la volontà del popolo (come credeva anche Eisenhower), era un'élite brutale, odiata dal popolo, priva di qualsiasi legittimazione dal basso.

Il Vietnam del Sud sarà stato anche governato da un regime (quale quello di Diem) nazionalista, autoritario, corrotto e fortemente razzista, ma appariva, agli occhi dei vietnamiti del Nord, come un rifugio sicuro in confronto all'inferno in cui erano costretti a vivere, un po' come i tedeschi dell'Est guardavano alla Repubblica Federale Tedesca. Non stupisce, quindi, che il regime di Ho Chi Minh, di fronte al rischio di rimanere addirittura senza cittadini, non solo volle la chiusura della frontiera, ma esportò al Sud la stessa campagna di terrore che stava conducendo al Nord. Terroristi infiltrati nel Vietnam del Sud incominciarono ad assassinare elementi anticomunisti (funzionari, politici, intellettuali, cittadini politicamente impegnati) e poi anche nemici di classe, con gli stessi criteri seguiti al Nord. In tre anni, i terroristi rossi uccisero circa quattromila persone in tutto il Vietnam del Sud. Constatando che la campagna di terrore non portava alla destabilizzazione politica del Sud, il regime di Ho Chi Minh passò ad una logica di guerra. Non una guerra convenzionale, ma una guerriglia combattuta infiltrando piccole unità di fanteria nel paese nemico, attraverso piste nascoste dalle foreste pluviali. Nel 1959 fu inaugurata la prima di queste vie di accesso, denominata B-59: sarebbe stata la prima arteria della famosa “pista di Ho Chi Minh”. È dunque nel 1959 che iniziò la Guerra del Vietnam, evento sancito formalmente dal XV Congresso del partito comunista vietnamita, in cui Ho Chi Minh parlò di «riunificazione del paese con mezzi appropriati». Dal 1959 al 1964, i nordvietnamiti conquistarono quarantuno province del Sud su un totale di quarantaquattro. Ovunque avessero il controllo del territorio, applicavano (coerentemente alla loro ideologia) gli stessi metodi terroristici già sperimentati al Nord, comprese le eliminazioni per quota nei villaggi conquistati. I “cuori e le menti” dei sudvietnamiti non furono mai conquistati alla causa dell'invasore. Nemmeno quando, nel febbraio 1968, questo compì le sue gesta più eclatanti, come quando violò la tregua concordata per la festa del capodanno lunare (Tet) e lanciò un'offensiva generale contro il cuore del sistema difensivo sudvietnamita e statunitense. L'Offensiva del Tet era stata pianificata dal regime nordvietnamita in vista di un'insurrezione generale del Sud: «Avanzate in modo aggressivo per portare attacchi decisivi e ripetuti in modo da annientare il maggior numero possibile di soldati americani e di paesi satelliti e fantocci, congiuntamente alla lotta politica e alle attività di proselitismo militare»9, si legge in un proclama nordvietnamita immediatamente precedente il Tet. Prima dell'offensiva, la propaganda del Vietnam del Nord diffondeva cifre false sul controllo territoriale, affermando, per esempio, che 10 dei 14 milioni di sudvietnamiti vivevano ormai sotto il controllo comunista. Il proselitismo militare, tuttavia, non sortì alcun effetto. «La gran parte della popolazione locale se ne stette in disparte a guardare. – scrive lo storico Victor Davis Hanson, in Massacri e cultura – Pressoché nessuno si unì alla rivolta comunista e quasi tutti si limitarono a valutare il grado di successo dei Viet Cong e soppesare l'eventualità che di lì a poco potessero essere i comunisti, e non più gli americani, padroni delle loro vite»10. In compenso, durante l'offensiva del Tet, i comunisti fecero di tutto per alienarsi le simpatie della popolazione locale, applicando, come di consueto, i loro metodi di “proselitismo”: «Si devono uccidere da tre a cinque elementi reazionari e mettere fuori combattimento da cinque a dieci altri per ogni strada e in ogni isolato», si legge negli ordini trovati nella giubba di un soldato nordvietnamita ucciso nella provincia di Ban Tre durante l'offensiva del Tet. Oppure: «Distruggete il personale amministrativo di tre villaggi a Phu My, Phuoc Thai, Phuoc Hoa. Villaggi situati lungo l'autostrada n. 5. Uccidere i dieci amministratori del villaggio, tre membri del Consiglio del Popolo e altro personale di organizzazioni politiche reazionarie», altro ordine diramato da un comando locale nel 1968. Nella sola città di Hue e in soli venticinque giorni di occupazione, i comunisti vietnamiti riuscirono ad uccidere tremila civili a sangue freddo.

I campi profughi, inoltre, erano bersagli abituali delle forze nordvietnamite. Anche questa era una strategia pianificata direttamente dal regime di Ho Chi Minh per terrorizzare la popolazione del Sud. L'ordine numero 9 emesso dal partito nel 1969 decretava che i campi profughi fossero da considerarsi un obiettivo principale11.
È lecito, in queste circostanze, parlare di “contagio comunista” (per usare i termini dell'establishment americano di allora) o di “guerra popolare di liberazione” (secondo i liberal)? O è meglio parlare di guerra di conquista del Vietnam del Nord, per di più sanguinosa, lenta e difficile? Non era meglio per l'establishment americano parlare di invasione comunista del Vietnam del Sud?

Il popolo del Vietnam del Sud non si rassegnò nemmeno dopo la sconfitta. Sebbene poco incline alle migrazioni, attaccata alle tradizioni locali e alla propria terra, la popolazione vietnamita accettò il rischio e il sacrificio della fuga massiccia dal nuovo Stato comunista. Più di due milioni furono i vietnamiti che fuggirono via mare, evitando una fuga, geograficamente più comoda, verso la Cina e la Cambogia: entrambi i paesi erano comunisti e fuggirvi avrebbe comportato una brutta fine o almeno la restituzione alle autorità vietnamite. Dei due milioni che presero il mare, con mezzi di fortuna e rischiando di morire per tempeste, squali e pirati, mezzo milione perse la vita. Di quelli che rimasero in Vietnam, più di due milioni e mezzo (fra i quali anche tantissimi religiosi e attivisti pacifisti) furono deportati nei “campi di rieducazione”, cioè campi di lavoro forzato fra i più duri dell'Asia12.

Come era sicuramente falsa e ideologica l'idea di lotta di un popolo per la sua liberazione nazionale, così erano esagerati anche i timori di una possibile escalation del conflitto, con annesso intervento di Cina e Unione Sovietica. Per tutta la durata della guerra nel Sud-Est asiatico, le due grandi potenze comuniste fornirono al Vietnam del Nord armi sofisticate e consiglieri militari non combattenti. Non inviarono mai truppe e non intendevano nemmeno farlo. La potenza comunista confinante con il Vietnam del Nord, la Cina, dal 1964 fu sconvolta dalla Rivoluzione Culturale, che avrebbe mietuto, all'interno dei suoi confini, più di sette milioni e mezzo di vittime in poco più di un decennio. L'esercito popolare cinese rimase pienamente coinvolto in questa lotta di potere interna, senza alcuna possibilità di volgere le proprie armi contro gli americani in un eventuale confronto in Vietnam. L'ultima volta che si erano battuti con gli americani, in Corea, i cinesi avevano perso 800.000 soldati e Mao Tse-Tung non si augurava di ripetere la stessa esperienza13. Quanto all'Unione Sovietica, Chrushev prima e Breznev poi, avrebbero rischiato uno scontro nucleare con gli Stati Uniti per difendere un pezzo di giungla? Avrebbero rischiato l'olocausto nucleare per proteggere un alleato lontano, a cui davano aiuti misurati con il contagocce? è ragionevole avere dei dubbi in merito.

Perché gli americani persero?
Come si è visto, la popolazione vietnamita, nonostante il parere ideologico di Chomsky, di Rothbard e di tanti altri opinion leaders americani, non si illuse mai sulla natura dell'invasore.
Anche la popolazione americana sostenne sempre il conflitto, nonostante il rumore provocato dalle manifestazioni pacifiste. Fino alla fine dell'intervento statunitense nel Vietnam, con il ritiro delle ultime truppe dal Vietnam del Sud nel 1968, l'anno in cui gli americani incominciarono a ritirarsi gradualmente, i sondaggi rivelavano che il 70 per cento dell'opinione pubblica avrebbe voluto proseguire e vincere la guerra.

Il morale non crollò nemmeno fra le truppe combattenti statunitensi al fronte. Nonostante l'opera di propaganda anti-bellica effettuata anche sul campo da figure carismatiche, come Jane Fonda, il 91 per cento dei soldati che parteciparono alla guerra nel Vietnam dichiararono a posteriori di avere combattuto per una giusta causa. Il 97 per cento dei soldati che parteciparono al conflitto furono congedati con onore. I problemi psicologici e di reinserimento sociale diffusi fra i reduci, benché ingigantiti dai media e dal cinema, non erano superiori, in percentuali, a problemi analoghi seguiti agli altri conflitti combattuti dagli Stati Uniti. La diffusione delle droghe fra i soldati e i reduci non superò, in media, quella fra i coetanei civili che non avevano combattuto.

Soprattutto, dal punto di vista militare, gli americani vinsero tutte le battaglie. Anche l'unico grande scontro in cui i nordvietnamiti e i Viet Cong attaccarono direttamente gli americani, l'Offensiva del Tet del febbraio-aprile 1968, fu una sconfitta per i comunisti di proporzioni colossali: 40.000 morti (contro appena un migliaio di americani), nessuna città conquistata, nessuna postazione espugnata, le basi logistiche scoperte e distrutte. Per il Vietnam del Nord ci vollero due anni prima di poter riprendere l'iniziativa. La sconfitta fu ammessa persino dagli acritici ufficiali nordvietnamiti, come si può leggere distintamente in questa imbarazzata dichiarazione del generale Tran Van Tra: «Non ci basammo su un calcolo scientifico o su un'attenta valutazione di tutti i fattori, ma in parte su un'illusione basata sui nostri desideri. Per tale motivo, per quanto quella decisione fosse stata saggia, ingegnosa e tempestiva e la sua applicazione audace e ben organizzata, per quanto vi fosse stato un eccellente coordinamento su tutti i campi di battaglia, tutti avessero dato mostra di grande valore e avessero sacrificato la loro vita e si fosse creata una significativa svolta strategica in Vietnam e in Indocina, subimmo grandi sacrifici ed enormi perdite di uomini e materiali, soprattutto di quadri a vari livelli, la qual cosa chiaramente ci indebolì».

E di fronte alla vittoria, il presidente Johnson decise di iniziare a ritirare le truppe americane: gettò la spugna. Il suo successore, Richard Nixon, pose fine definitivamente all'intervento nel Sud Est asiatico. L'Offensiva del Tet, che era stata una grande vittoria americana, divenne la svolta del conflitto, non a favore degli Stati Uniti, ma paradossalmente degli sconfitti, del Vietnam del Nord. Se non fu la popolazione a volere la ritirata, se non furono i soldati a crollare, se non fu una sconfitta militare a far prendere questa piega agli eventi, che cosa determinò la decisione di abbandonare il Vietnam del Sud alla devastazione del nemico? Cosa se non la pressione di una élite intellettuale su una élite politica?

La convinzione di combattere non una guerra contro un invasore privo di consenso anche all'interno dei suoi confini, ma una guerra di contro-insurrezione contro un nemico che godeva del favore popolare anche nel Vietnam del Sud; la paura di un coinvolgimento della Cina e dell'Unione Sovietica; la pressione di una élite intellettuale che identificava nella guerra combattuta dal Vietnam del Nord una lotta di liberazione nazionale. La convinzione, insomma, di navigare contro il vento della storia, fece sì che la leadership americana combattesse una guerra con la certezza di non poterla vincere. Dal 1964 al 1969, gli americani combatterono letteralmente con una mano legata dietro alla schiena, non potendo nemmeno toccare i centri nevralgici della nazione nemica, proibendo addirittura ai piloti americani di inseguire gli aerei nemici sui cieli del Vietnam del Nord, non dichiarando nemmeno guerra al Vietnam del Nord. Dal 1969 al 1973, Nixon iniziò una nuova fase bellica, in cui il Vietnam del Nord poté essere colpito in modo più massiccio, ma solo al fine di ottenere una pace onorevole e poter ritirare i propri uomini.

Molto spesso si è parlato del ruolo dei media nella Guerra del Vietnam. Autori conservatori come Ann Coulter, attribuiscono soprattutto ai media e alla loro informazione faziosa, la sconfitta americana14. Diffusero le immagini e le notizie di una forza militare straordinariamente potente impegnata contro quello che appariva come un popolo intero, un esercito senza armi e senza divisa. Evitarono accuratamente di far vedere le fosse comuni riempite dai comunisti (eppure a Hue, durante l'eccidio, c'erano centinaia di fotografi e corrispondenti da tutto il mondo)15, di raccontare le devastazioni provocate dai nordvietnamiti nei villaggi e nelle città conquistate, di far sentire le testimonianze di milioni di persone sfuggite alla brutalità stalinista del Vietnam del Nord.

Tuttavia i media non fecero altro che replicare, nei loro servizi, le idee diffuse nell'intellighenzia politica e culturale americana. Da una parte si credeva che il vento soffiasse dalla parte dei comunisti, mentre dall'altra non si era nemmeno certi su quali valori occorresse difendere, come fece notare Ayn Rand al momento della caduta di Saigon nel 1975: «In accordo con un irrazionalismo epistemologico, fu una guerra e non-guerra allo stesso tempo – scrisse la filosofa in The Lessons of Vietnam – Fu una mostruosità moderna chiamata “guerra senza possibilità di vittoria”, in cui alle forze americane non era permesso di agire, ma solo di reagire; dovevano contenere il nemico, ma non sconfiggerlo. In accordo con la politica contemporanea, la guerra era volta a salvare il Vietnam del Sud dal comunismo, ma il proposito conclamato del conflitto non era quello di proteggere la libertà o i diritti individuali, non era quello di affermare il capitalismo o qualsiasi altro ordine sociale – era quello di difendere il diritto sudvietnamita all'autodeterminazione nazionale», leggasi: il loro diritto di scegliere qualsiasi sistema, compreso quello comunista stando a quanto i propagandisti americani continuavano a proclamare»16.

Una lezione per l'Iraq
La guerriglia che si sta combattendo in Iraq non è paragonabile a quella del Vietnam, per numero di vittime, numero dei soldati americani impiegati, percentuale della popolazione coinvolta direttamente o indirettamente nel conflitto. Se la situazione nel Vietnam fu sempre favorevole per gli Stati Uniti, quella in Iraq lo è infinitamente di più. Anche perché nel Vietnam si combatteva contro un regime nemico che rimase in sella e che alla fine della guerra riuscì a conquistare tutto il territorio, mentre in Iraq il regime nemico è già stato rovesciato da due anni, tutti i suoi vertici (compreso Saddam Hussein) catturati e processati. In Iraq si combatte uno strascico di guerra, contro i nostalgici del regime caduto e quegli estremisti giunti sul campo di battaglia a guerra finita approfittando del caos per uccidere più americani possibile nel nome del jihad.

Tuttavia per l'Iraq si riscontrano molte analogie con il Vietnam, soprattutto nel linguaggio impiegato dai media. I termini più diffusi per indicare il nemico sono “resistenza” (“resistenti”), o “insurgency” (“insurgents”), come se gli Stati Uniti stessero combattendo una guerra contro un popolo. Anche in Iraq, come in Vietnam, i crimini commessi regolarmente dai nostalgici del regime sono passati sotto silenzio, trascurati dai grandi quotidiani e quasi mai visti in televisione, così come sono dimenticate le violenze sistematiche inflitte da Saddam Hussein al suo popolo prima della guerra. Anche in Iraq, come in Vietnam, i crimini di guerra americani, benché di portata più limitata, finiscono in primo piano. Chi non conosce il nome Abu Ghraib? E chi, invece, conosce il nome Karabila, dove di recente sono state trovate camere di tortura dei guerriglieri iracheni?

Non c'è più il pericolo di una guerra nucleare con grandi potenze alle spalle del nemico, ma la paura di un'escalation viene ancora sventolata, questa volta sotto l'etichetta del “conflitto di civiltà”. L'idea che vi sia una solidarietà di religione fra i musulmani di tutto il pianeta, che vi sia un miliardo e mezzo di musulmani pronto a sommergere l'Occidente al primo paese musulmano attaccato da una democrazia occidentale, si è rivelata palesemente falsa.

Caduto Saddam, solo qualche migliaio di estremisti ha manifestato violentemente la sua opposizione in Egitto, in Pakistan e in Europa. I regimi arabi non hanno gradito (in alcuni casi, come per il Kuwait, hanno sostenuto attivamente l'impegno militare americano), ma non ci hanno pensato nemmeno a sfidare gli Stati Uniti. In compenso, oltre il 60 per cento degli iracheni ha risposto agli appelli degli “occupanti” anglo-americani e si è recato alle urne per eleggere per la prima volta liberamente i propri rappresentanti, nonostante le minacce di terrorismo, le bombe e i tiri di mortaio sui seggi.

L'immagine distorta che si ha dell'Iraq rischia di far commettere ai vertici americani gli stessi errori del Vietnam: combattere contro la guerriglia irachena con una mano legata dietro alla schiena. Gli americani non hanno nemmeno proibito l'assembramento di masse armate, non hanno imposto alcun tipo di coprifuoco, non sono penetrati nel cuore della guerriglia sciita a Najaf per paura di offendere la sensibilità religiosa dei musulmani, hanno atteso un anno intero prima di stroncare la principale roccaforte della guerriglia sunnita a Fallujah, preferendo trattare fino all'ultimo. Per anni si è discusso addirittura se reintegrare nella nuova amministrazione dell'Iraq membri dell'ex regime di Saddam. E quel che è peggio è che la cosa non ha suscitato scandalo. Iniziano a moltiplicarsi le dichiarazioni più pericolose: «La guerra non può essere vinta», «è necessaria una exit strategy», cose che sono ripetute molte volte anche negli stessi vertici statunitensi, non da ultimo dal segretario alla Difesa Rumsfeld.

Evitare la sindrome
Se il Vietnam ha insegnato qualcosa, gli americani non devono spaventarsi per le difficoltà che stanno attraversando adesso in Iraq. Se si spaventano, possono perdere una seconda volta una guerra già vinta, come in Vietnam. Per evitare la sconfitta, devono semplicemente essere convinti dei valori per cui combattono e vedere il nemico per quello che è: una tirannide priva del consenso popolare. Soprattutto, per vincere devono diffondere la percezione del vero effetto domino: la volontà delle popolazioni locali di ribellarsi contro le dittature oppressive. Questo contagio democratico ha sempre funzionato al meglio, contrariamente alle lente e sanguinose guerre di conquista comuniste. Si tende a dimenticare che, nel solo 1989, la democratizzazione si compì senza spargimento di sangue in Polonia, Germania Orientale, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria nell'arco di pochi mesi. Solo in Romania vi furono scontri, rapidamente risolti con un numero limitato di vittime, mentre negli altri paesi ex-sovietici la democrazia vinse senza sparare un colpo.

Tra il 1991 e il 1993, la democrazia era arrivata a gran parte dell'America Latina e anche a molte repubbliche ex-sovietiche. Oggi ci sono circa 89 democrazie liberali stabili e metà della popolazione mondiale può sostituire pacificamente il proprio governo. L'ondata di democratizzazione a cui stiamo assistendo in questi anni è evidente quanto quella del 1989: le elezioni in Iraq, le prime elezioni nell'Autorità Palestinese, la sollevazione del Libano contro la dominazione siriana, gli annunci di prime libere elezioni in Egitto da parte di Mubarak, la parificazione dei diritti delle donne in Kuwait, sono tutti eventi compiuti nell'arco di soli tre mesi.

Nell'Europa orientale post-comunista e nell'ex-Urss il processo di espansione della democrazia è ancor più spettacolare e finora ha provocato pochissimi morti: rivoluzione in Serbia nell'autunno 2000, rivoluzione rosa in Georgia nel novembre 2003, rivoluzione arancione in Ucraina nel novembre 2004, rivoluzione dei tulipani in Kirghizistan nel 2005. Se questo non è un effetto domino…

 

Note
1. R. Crockatt, Cinquant'anni di Guerra Fredda, Salerno Editrice, Roma 1995, p. 261.
2. S. Karnow, Storia della Guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano 1994, p. 137.
3. Pseudonimo di uno speaker che dalla Germania trasmetteva programmi di propaganda filo-nazista in lingua inglese in Gran Bretagna e negli Stati Uniti; iniziò la sua attività il 18 settembre 1939 e trasmise per l'ultima volta il 30 aprile 1945, il giorno in cui le truppe britanniche presero Amburgo. La sua identità è tuttora sconosciuta, anche se attribuita solitamente a tre differenti speaker: Wolf Mitler, Norman Baille-Steward e William Joyce (ndr).
4. A. Rand, Capitalism, the Unknown Ideal, Signet Books, New York 1967, p. 224.
5. N. Chomsky, What Uncle Sam Really Wants, Odonian Press, Tucson 1993.
6. M. N. Rothbard, Death of a State, Reason, luglio 1975.
7. R. J. Rummel, Stati assassini, la violenza omicida dei governi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
8. Ibidem.
9. V. D. Hanson, Massacri e cultura, Garzanti, Milano 2002, p. 457.
10. Ibidem.
11. R. J. Rummel, Stati assassini, la violenza omicida dei governi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
12. Ibidem.
13. V. D. Hanson, Massacri e cultura, Garzanti, Milano 2002, p. 479.
14. A. Coulter, Tradimento, come la sinistra liberal sta distruggendo l'America, Rizzoli, Milano 2004.
15. V. D. Hanson, Massacri e cultura, Garzanti, Milano 2002, p. 461.
16. A. Rand, The Voice of Reason, Meridian, New York 1990, p. 140


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