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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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L'Opinione - Europa Rassegna Stampa
20.07.2007 Damasco tira le fila del terrore in Libano
e destabilizza l'Iraq

Testata:L'Opinione - Europa
Autore: Stefano Magni - Saad Kiwan
Titolo: «La “pace armata” siriana - Assad, regista del terrore»
Da L'OPINIONE del 20 luglio 2007:

C’è ancora qualcuno che crede nel ruolo pacificatore del regime di Damasco in Libano? Forse solo il nostro governo, visto che la Farnesina, in occasione della visita di D’Alema a Damasco, il 4 giugno scorso pubblicava una nota ufficiale in cui si spiegava che: “L’Italia intende svolgere un ruolo efficace in un percorso negoziale che coinvolga Damasco ed incoraggi il Governo siriano ad adoperarsi per la pacificazione della regione, con particolare riguardo alle relazioni siro-libanesi, alla soluzione della crisi politica interna in Libano, al processo di pace israelo-palestinese ed alla stabilizzazione e pacificazione dell’Iraq”. Il 5 giugno scorso D’Alema affermava che: “Anche la Siria è interessata alla stabilità politica a Beirut. In questo momento il pericolo per tutti è rappresentato da Al Qaeda”.

Sul serio il pericolo per tutti è rappresentato da Al Qaeda? Anche per il regime di Damasco? Proprio in questi giorni, mentre l’esercito regolare libanese sta finendo di ripulire le postazioni di Fatah al Islam nel campo profughi di Nahr el Bared, emergono sempre più prove e testimonianze a favore della tesi opposta: è la Siria ad alimentare la formazione di guerriglia islamista vicina ad Al Qaeda. “Dietro i piani di Fatah al Islam ci sono i servizi segreti militari siriani” aveva dichiarato il 18 luglio un disertore del gruppo guerrigliero in un interrogatorio al tribunale di Beirut, come riportato dal noto quotidiano arabo Al Sharq al Awsat. Secondo l’ex guerrigliero pentito, l’intelligence siriana era perfettamente a conoscenza dei piani di Fatah al Islam che, stando alla testimonianza di alcuni prigionieri catturati alla fine di maggio dai regolari libanesi, prevedevano anche la distruzione del tunnel sull’autostrada tra Beirut e Tripoli, l’isolamento del Nord del Libano e la costituzione nell’area di uno Stato islamico autonomo. Con buona pace di chi sostiene che la Siria sia uno Stato laico nemico degli integralisti, il regime di Damasco avrebbe dunque appoggiato la creazione di un nuovo emirato, simile a quello imposto a Gaza da Hamas.

“Ci hanno inoltre aiutato ad entrare dalla Siria in Libano clandestinamente attraverso un valico non controllato e in un posto lontano dalle guardie di frontiera” spiega ancora il pentito, sottolineando quanto fosse profonda questa collaborazione siriano-qaedista. Queste dichiarazioni sono confermate da prove. L’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Zalmay Khalilzad, ha denunciato ieri “trasferimenti di armi ai gruppi terroristi” in Libano lungo il confine siriano. “Ci sono le prove sui preparativi di gruppi come Fatah al Islam e il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina/Comando Generale. Ci sono anche armi che arrivano per gli Hezbollah”. Nonostante il ministro degli esteri siriani neghi tutto e affermi che le tesi sul contrabbando delle armi provengano solo da fonti di intellingence israeliane, il rapporto Onu sul traffico di armi è basato quasi interamente su fonti governative libanesi. Ed è sempre dal Libano che, dal 20 maggio scorso (cioè da quando è iniziata la guerriglia metropolitana di Tripoli e Nahr el Bared) sono partite le denunce sull’ingerenza militare di Damasco. Il dittatore siriano Assad ha realmente interesse nella stabilità del Libano? Sicuramente sì, ma a modo suo. Come ha dichiarato in occasione del suo incontro con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, il 24 aprile scorso: “Il Libano ha conosciuto il periodo più pacifico della sua storia quando vi si trovavano le forze siriane, dal 1976 al 2005. Allora il Libano era stabile, ma ora vi regna una grande instabilità”.

Da EUROPA:

Il contagio integralista scuote ormai tutta la regione araba.
Dall’Iraq alla Palestina, dall’Arabia saudita allo Yemen, dall’Algeria al Marocco, la ricetta “binladeniana” si espande a macchia d’olio. L’occupazione americana dell’Iraq attira plotoni di jihadisti che attraversano quasi indisturbati i confini del triangolo Siria-Iraq-Arabia Saudita.
Pochi giorni fa Ayman Zawahiri, numero due di al Qaeda, ha annunciato l’apertura di un «nuovo fronte» in Libano. Zawahiri ha «benedetto» l’attentato ai soldati spagnoli dell’Unifil (la forza di pace dell’Onu in Libano) del 24 giugno scorso come un atto coraggioso contro le «nuove crociate» nel sud del paese. Ieri, un altro attentato ha colpito i malesiani dell’Unifil, senza provocare vittime.
I paesi del Golfo e quelli del Maghreb “subiscono” questo fenomeno, alimentato perlopiù da gruppi locali. Da gruppi, cioè, che nascono e si sviluppano all’interno di paesi – Arabia Saudita, Yemen e Marocco, a maggioranza sunnita – che a livello politico e religioso rappresentano terreno fertile per il terrorismo.
Le dinamiche d’affiliazione sono due: o il gruppo sposa i princìpi del terrorismo islamico e si “ripara” successivamente sotto l’ombrello di al Qaeda, oppure i vertici dell’organizzazione, spesso per bocca di Zawahiri, riconoscono questo o quel nucleo come membro della centrale del terrore.
Così succede in Marocco, in Algeria e in parte in Iraq. In Arabia Saudita, invece, la minaccia terrorista viene da cellule addormentate, che si risvegliano periodicamente.
Nel Mashreq (le regioni arabe comprese tra Egitto, Arabia Saudita, Iran e Turchia), dove il tessuto etnico e socio-religioso ha caratteristiche meno monolitiche, il terrore non trova invece condizioni così favorevoli. Laddove convivono cristiani e sunniti, sciiti e alawiti, o anche drusi, il verbo fondamentalista – quello salafita in particolare – attecchisce difficilmente. A maggiore ragione se esiste anche un clima di pluralismo. È, questo, il caso del Libano, della Palestina, della Giordania e in parte dell’Iraq.
La Siria sta a cavallo tra queste realtà. Esistono, sì, più fedi e più etnie, ma c’è un regime autoritario che soffoca gli spazi di libertà. Ciò fa sì che sia lo stato a “dirigere” e indirizzare il terrorismo. In seguito all’occupazione americana dell’Iraq, nel marzo 2003, gli equilibri regionali sono cambiati: Damasco è finita nel mirino di George Bush.
Bashar non è più in grado di seguire la politica del padre (l’ex capo di stato Hafez al Assad), astuto e pragmatico, abile a contenere le pressioni americane e israeliane.
Lesto a schierarsi, per interesse, con gli Stati Uniti – dopo l’invasione del Kuwait nell’agosto del 1990 da parte di Saddam Hussein.
Oggi la Siria è però debole. Ad Assad junior è stato ultimato di blindare o comunque controllare i suoi confini con l’Iraq, per impedire l’afflusso dei “volontari” che si arruolano nell’esercito del terrore. Gli è stato anche intimato di ritirare le truppe siriane dal Libano, dopo circa 30 anni d’occupazione. Nonché di troncare i rapporti con gruppi estremisti quali Hamas e Hezbollah, e di collaborare con il tribunale internazionale incaricato di indagare sull’omicidio dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri, ucciso a Beirut il 14 febbraio del 2006. Ma Bashar ha deciso di resistere. Come? Con la solita tattica: la guerra, subdola, contro americani e israeliani.
Con quali armi? Le migliaia di jihadisti pronti a uccidere e farsi uccidere. Manovalanza, esplosivi e soldi ci sono già. A lui, ad Assad, spetta solo gestirli.
Il flusso di kamikaze attraverso il confine con l’Iraq fa parte di questa strategia. Arrivano da tutte le parti, i “martiri”: siriani, sauditi, somali, yemeniti, afghani, i cosidetti “afghani arabi” e perfino alcuni cingalesi. Tutti in nome della jihad contro le «nuove crociate» dell’Occidente. In Palestina, poi, il compito è affidato direttamente a Hamas, che riflette la saldatura tra Damasco e Teheran, essendo il movimento radicale palestinese un gruppo con sede a Damasco e “cassaforte” a Teheran. Gli integralisti di Hamas hanno usato il consenso palestinese nelle urne per compiere un golpe contro l’Autorità palestinese, occupando la Strisica di Gaza e isolandola dal resto dei Territori. Anche qui in nome della jihad.
In Libano, la situazione è assai diversa e –soprattutto – molto più complessa. I libanesi hanno ottenuto una grande vittoria con la rivoluzione dei cedri, con i sunniti che hanno rappresentato l’avanguardia di questa “seconda indipendenza”.
Il leader Saad Hariri (figlio dell’ex primo ministro ucciso) ha abbandonato il vecchio credo arabista, lanciando lo slogan «prima il Libano». Con la conseguenza che la jihad, oggi, non trova più spazio all’interno della comunità sunnita.
Come, allora, tentare di ripristinarne l’ipoteca esterna sul paese? Semplice: Assad ha inviato i suoi volontari jihadisti verso il nord del paese dei cedri. Attraverso il confine siro-libanese sono giunti miliziani siriani, sauditi, iracheni, somali e asiatici (tra loro non c’era nessun libanese), con il loro carico di armi e munizioni.
I guerriglieri si sono uniti a Fateh-Islam, il gruppo radicale che recentemente ha dato filo da torcere all’esercito regolare libanese (la stessa Siria aveva contribuito a ricostituirlo) nella battaglia del campo profughi di Nahr al-Bared.
Ma non è solo il nord a ribollire.
Attentati si registrano in tutto il paese, allo scopo di allargare il conflitto, fin verso il meridione, dove sono dispiegati 13mila caschi blu dell’Onu, insieme a 15mila soldati libanesi. Il terreno era stato preparato un anno prima, quando lo stesso Bashar aveva preannunciato, a mo’ di allarme, che al Qaeda stava arrivando in Libano. Ora che la succursale del terrore in Libano c’è sbarcata davvero, Bashar condanna gli attentati e parla di «pericolo comune» per Beirut e Damasco. Ma lo fa solo per camuffare il suo ruolo di “regista”.

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