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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - L'Opinione Rassegna Stampa
15.06.2007 Hamas controlla Gaza
che diventa un avamposto della jihad iraniana

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - L'Opinione
Autore: Magdi Allam - Davide Frattini - Francesca Paci - la redazione - Stefano Magni
Titolo: «Stato palestinese addio - Gaza, adesso regna la legge di Hamas Abu Mazen scioglie il governo di unità - La sconfitta di Dahlan, l'uomo forte Gli islamici accusano: «E' fuggito» - Medici disperati “Ci manca tutto” - Una tempesta militare perfetta - Gaza av»
Dal CORRIERE della SERA del 15 giugno 2007, l'editoriale di Magdi Allam

Stato palestinese addio. E' finito nella guerra fratricida, nel sangue e nella vergogna il progetto nazionale palestinese che, stando alla Carta dell'Olp e allo Statuto di Hamas, si fonda sulla volontà di distruggere Israele, anziché soddisfare le aspettative economiche, sociali e politiche dei palestinesi.
La vittoria militare di Hamas segna una svolta storica perché mette la parola fine al sogno di «due Stati per due popoli». Assistiamo ora alla nascita di «due Stati per il solo popolo palestinese», uno integralista- islamico a Gaza e l'altro laico-nazionalista in Cisgiordania. Un epilogo che attesta come l'ideologia dell'odio, della violenza e della morte, che si alimenta dell'ostilità a Israele, alla fine si ritorce contro gli stessi carnefici palestinesi; che conferma la natura aggressiva di un terrorismo che non è affatto reazione all'occupazione israeliana, bensì strategia per il potere assoluto.
In questa tragedia nessuno è senza colpe. L'errore più grave commesso da Israele è stato di aver messo all'asta il proprio diritto all'esistenza, immaginando che esso potesse essere riconosciuto dagli arabi come approdo di un negoziato in cambio della restituzione di territori occupati nel '67, in una guerra preventiva per impedire la propria distruzione.
Quanto all'Occidente ha sbagliato scommettendo e premiando con il Nobel per la Pace il più cinico funambolo della politica mediorientale, Yasser Arafat, che nel 2000 non ha esitato a gettare alle ortiche uno Stato palestinese sul 96% dei territori palestinesi, pur di salvaguardare un potere personale frutto di compromessi con gli estremisti dell'Olp e i terroristi di Hamas. L'Occidente ha sbagliato ancor di più quando nel 2006 ha legittimato Hamas, violando lo stesso bando vigente negli Usa e nella Ue, nell'illusione che la semplice partecipazione alla gestione del potere avrebbe trasformato i terroristi in politici, scoprendo tardivamente che Hamas mai riconoscerà Israele, rinuncerà al terrorismo e accetterà gli accordi internazionali.
Ben maggiore è la responsabilità dei Paesi arabi, i veri traditori della causa palestinese, quelli che impedirono la nascita dello Stato palestinese nel 1948 per spartirsi le sue spoglie, negando successivamente la possibilità di ricostituire lo Stato indipendente in Cisgiordania e Gaza, annessi da Giordania ed Egitto fino al 1967. Ebbene, i «fratelli-nemici» continuano a strumentalizzare la tragedia palestinese come una valvola di sfogo per le frustrazioni dei loro popoli sottomessi alla dittatura.
Mi auguro che di fronte alle drammatiche immagini di Gaza, Israele non si illuda che il fallimento del progetto nazionale palestinese si traduca automaticamente in un proprio successo politico. «Hamastan » potrebbe rivelarsi ben più deleterio dello Stato palestinese, trasformandosi in una roccaforte del terrorismo islamico. Appare paradossale, ma oggi Israele potrebbe avere l'interesse a salvare la speranza in un futuro migliore per i palestinesi. Così come nel 1993 fu Israele a offrire, per la prima volta nella Storia, la prospettiva di uno Stato palestinese indipendente, oggi Israele è il solo argine al radicamento di un'entità terroristica islamica che costituirebbe una catastrofe per palestinesi, israeliani e tutti noi.

La cronaca di Davide Frattini:

GERUSALEMME — Hamas sgomina Fatah e conquista Gaza in una guerra civile che è costata cento morti nell'ultima settimana. L'attacco decisivo è stato sferrato ieri, quando i guerriglieri del gruppo fondamentalista hanno conquistato tutte le postazioni della fazione rivale al termine di scontri sanguinosi.
Schiacciato dalla supremazia militare dei nemici, il presidente palestinese Abu Mazen ha sciolto il governo di unità nazionale che da marzo lo legava ad Hamas e ha proclamato la stato d'emergenza, indicendo elezioni anticipate (ovviamente senza fissare una data precisa). Gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno espresso la loro solidarietà ad Abu Mazen. Hamas, però, ha già fatto sapere di essere contraria all'arrivo di una forza di pace internazionale a Gaza.
Ancora ricordano dell'umiliazione, della barba rasata perché il raìs voleva che quel simbolo di devozione islamica, portato come una bandiera, venisse ammainato. Adesso un vessillo verde sventola sul tetto della caserma.
Non hanno dimenticato i leader di Hamas. Non ha dimenticato Mahmoud Zahar, ex ministro degli Esteri nel primo governo di Ismail Haniyeh e uno dei capi più intransigenti del movimento fondamentalista. Lo sgarbo è stato cancellato: i miliziani sono entrati nelle stanze e nelle celle della Sicurezza preventiva, hanno sparato contro i computer sulle scrivanie, distrutto gli schedari, si sono messi in posa sotto i ritratti frantumati di Arafat e del suo successore Abu Mazen. Le foto di un potere che a Gaza non c'è più.
Le radio e le tv della Striscia trasmettono altri ordini con altre parole, quelle del Fatah sono state zittite. «Vogliamo annunciare alla gente che il passato è stato spazzato via e non ritornerà. L'epoca della giustizia e del dominio islamici sono arrivati », proclama un portavoce dell'organizzazione. I fondamentalisti la chiamano «la seconda liberazione», dopo il ritiro israeliano nell'estate di due anni fa. «Oggi vi abbiamo liberati dai greggi dei collaborazionisti ».
Traditori. Così è stato bollato Samih Mahdoun, prima di essere freddato con sei colpi nel petto. Era uno dei capi delle truppe organizzate da Mohammed Dahlan per contrastare il potere delle squadre di Hamas. Si era vantato di aver eliminato numerosi fondamentalisti, di aver bruciato le loro case. La sua condanna a morte è stata pronunciata al mattino, dal pulpito di una moschea: un imam ha emanato una fatwa, ha decretato che fosse lecito ammazzarlo.
Traditori. Così stati bollati i diciotto uomini della Sicurezza preventiva uccisi uno dopo l'altro, quando il palazzo è stato conquistato. «Li hanno presi sulle spalle uno alla volta, scaricati sulle dune di sabbia di spalle e fucilati », racconta un testimone, Jihad Abu Ayad all'Associated
Press. Gli ospedali vanno avanti con la poca elettricità fornita dai generatori, il sangue per le trasfusioni è finito. Ieri sono arrivati altri 29 morti, dall'inizio dell'offensiva, sei giorni fa, sarebbero 110.
La Forza esecutiva di Hamas, l'organizzazione paramilitare messa in piedi nell'ultimo anno, controlla le basi più importanti nel centro della città. L'ultima a cadere è stato il palazzo presidenziale. Prima era sta espugnata la sede della Sicurezza nazionale, un altro simbolo dell'Autorità palestinese. I miliziani impongono i loro simboli e li trasmettono dalla televisione di Hamas, perché tutti possano vedere: escono dai palazzi e si inginocchiano in preghiera, mentre i prigionieri vengono fatti marciare mezzi nudi, in mutande e camicia. «Non ci sarà dialogo con il Fatah — minaccia Nezar Rayyan, uno dei leader —. Condurremo la preghiera del venerdì nell'ufficio del presidente e trasformeremo la sua fortezza in una moschea».
Gli uomini in nero celebrano per le strade, mostrano le armi strappate agli avversari. Chi non celebra, è fuori a caccia. I nomi sulla lista nera vengono elencati dalle radio integraliste, va in onda la contabilità della morte. «Adesso stiamo cercando Tawfiq Abu Khoussa. Ci hanno riferito che Mansour Shalayel si nasconde nel palazzo del presidente. Nessuno di loro deve lasciare la Striscia vivo ». I miliziani si sono schierati al confine sud, con l'Egitto, e al valico di Erez a nord, verso Israele: vogliono impedire le fughe, controllano chiunque tenti di passare.
I consiglieri di Abu Mazen — racconta la Reuters — hanno ammesso che centinaia di soldati fedeli al raìs hanno lasciato le posizioni senza combattere, altri hanno finito le munizioni. Al mattino, il presidente aveva dato da Ramallah l'ordine esplicito di contrattaccare a Gaza. Il Fatah aveva reagito in Cisgiordania, dov'è più forte, arrestando un gruppo di sostenitori di Hamas. Nella notte, il leader della Muqata ha dichiarato lo stato d'emergenza e smantellato il governo di unità nazionale, guidato da Ismail Haniyeh. Al suo posto dovrebbe nascere un esecutivo che gestisca la situazione fino alle elezioni anticipate, «che si terranno appena sarà possibile». Abu Mazen vuole anche ottenere il dispiegamento di una forza multinazionale nella Striscia. Tutte decisioni prive di valore per Hamas. «Può dire quel che vuole, Haniyeh resta primo ministro», ha replicato il portavoce Sami Abu Zuhri.
Il raìs è sostenuto da Condoleezza Rice, segretario di Stato americano: «Esercita la sua autorità legittima, in quanto rappresentante del popolo palestinese». Il premier israeliano Ehud Olmert sarà negli Stati Uniti settimana prossima e vuole convincere la Casa Bianca della necessità di separare Gaza dalla Cisgiordania, considerandole come due entità divise. Dalla Siria, Moussa Abu Marzouk, uno dei leader di Hamas, replica: «Gaza resterà Gaza, non imporremo uno Stato islamico e le leggi rimarranno quelle valide in tutta l'Autorità palestinese ».
«Siamo arrivati alla conclusione peggiore: due popoli, tre Stati», commenta sconsolato un politico palestinese.

Sempre di Frattini, un ritratto di Mohammed Dahlan, il capo di Fatah uscito sconfitto dalla scontro a Gaza:

GERUSALEMME — La caserma della Sicurezza preventiva ha sempre rappresentato il controllo di Mohammed Dahlan sulla Striscia. È lui che ha fondato e guidato fino al 2002 la struttura militare e di intelligence più potente. Poi l'ha affidata a Rashid Abu Shabak, un fedelissimo che si consultava su qualunque operazione. Succedeva quando il Fatah comandava, era continuato a succedere quando al governo è arrivato Hamas.
Nessuno dei due era a Gaza in questi giorni di combattimenti. Abu Shabak si nasconde da qualche parte in Cisgiordania, è fuggito con la famiglia dopo che le bande fondamentaliste hanno assaltato casa sua, uccidendo sette guardie del corpo. Dahlan manca da mesi. «Era in Egitto per la convalescenza, dopo un'operazione al ginocchio in Germania», dicono i suoi consiglieri. «Adesso è a Ramallah per coordinare il contrattacco del Fatah», assicurano. Le sue truppe ci credono poco. «Non abbiamo ricevuto ordini — racconta il colonnello Nasser Khaldi alla Reuters — C'è differenza tra comandare sul terreno e farlo con il cellulare».
Sotto la protezione degli egiziani, Dahlan stava addestrando la Forza esecutiva del Fatah, mille uomini da contrapporre alle squadre di Hamas, organizzate da Said Siyam, quand'era ministro degli Interni. Sembra troppo tardi, anche se ieri un sito palestinese aveva rilanciato la voce che il plenipotenziario di Abu Mazen nella Striscia fosse tornato di nascosto per organizzare la resistenza del partito laico. Dahlan aveva sollecitato gli israeliani a permettere l'invio di armamenti ai soldati della Guardia presidenziale: mezzi blindati, lanciagranate, munizioni per i fucili mitragliatori. Richieste fatte arrivare attraverso gli americani e il generale Keith Dayton, incaricato di coordinare l'addestramento dei militari legati al raìs. Lo Shin Bet aveva dato la battaglia per persa comunque: il giudizio dei servizi segreti era che il Fatah fosse sull'orlo del collasso nella Striscia e che qualunque fornitura di armi sarebbe finita, prima o poi, nelle mani di Hamas. «È improbabile che Dahlan possa presentarsi a Gaza in questo momento — scrive l'analista Khaled Abu Toameh sul Jerusalem Post —. Negli ultimi 18 mesi, Hamas ha tentato di ucciderlo numerose volte. All'inizio dell'anno, una jeep delle Nazioni Unite era stata attaccata perché i fondamentalisti pensavano che trasportasse Dahlan». Fonti della sicurezza palestinese sostengono che l'organizzazione ha minato i tunnel sotterranei che corrono lungo la strada principale per far saltare il suo convoglio, se mai tentasse di rientrare.
I fondamentalisti hanno intensificato la campagna contro di lui alla fine dell'anno scorso. Se dovevano nominarlo, usavano la formula
al mad'u, di solito usata per i collaborazionisti. Fino a pochi giorni fa, nella Striscia circolavano voci che fosse fuggito a Tel Aviv, per godersi le bella vita tra bar e ristoranti. Oppure che era in un letto d'ospedale in preda a crisi epilettiche. Tutto per distruggere la sua immagine di «uomo forte del Fatah», come i diplomatici occidentali l'hanno sempre identificato. Il «carismatico» e «pragmatico» quarantaseienne considerato il miglior successore di Abu Mazen. Il giovane che aveva colpito Bill Clinton, quando si erano incontrati alla Casa Bianca dopo la firma degli accordi di Oslo. E che nel 2004 sembrava aver previsto la guerra di questi giorni: il ritiro unilaterale israeliano dalla Striscia di Gaza — aveva detto in un'intervista alla televisione satellitare Al Arabiya — rischia di portare a uno scontro tra l'Autorità palestinese e Hamas.
Dahlan sa di essere in cima alla lista nera degli integralisti. Che lo hanno accusato di aver tentato di ammazzare il premier Ismail Haniyeh. L'8 dicembre del 2005, secondo un documento interno di Hamas, i leader del gruppo avrebbero preso la decisione di dare il via libera alle esecuzioni di capi del Fatah, se avessero temuto che il partito del presidente stesse preparando un colpo di Stato. Gli omicidi sono cominciati sei mesi dopo. E uno dopo l'altro, Dahlan ha perso i suoi luogotenenti.

Dalla STAMPA, l'"ordine" di Hamas a Gaza nella cronaca di Francesca Paci. Il titolo dell'articolo "Medici disperati “Ci manca tutto” ", seguito dal sottotitolo “L’embargo e i valichi chiusi: siamo isolati” , disinforma: la drammatica situazione di Gaza è ora dovuta agli scontri interpalestinesi, non all' "embargo" (mai attuato) e alla chiusura dei valichi (immediatamente successiva alla vittoria di Hamas)

Jamal Shawa abita al secondo piano di una palazzina che guarda l'ospedale civile Shifa. «Sono solo un ragioniere e non m'intendo di politica», dice. Ma gli basta affacciarsi alla finestra della cucina per capire che «questo è il funerale della Palestina, morta prima di nascere». I vetri delle sale operatorie rotti, i cecchini appostati sul tetto, decine di feriti in barella adagiati davanti all'ingresso e infermieri con l'elemetto: l'ultima trincea della guerra di Gaza.
Mentre gli abitanti di Jabalya, Beit Hanun, i villaggi a nord della Striscia definitivamente conquistati da Hamas mettono per la prima volta il naso fuori di casa dopo cinque giorni d'inferno, nella City si combatte ancora. Chi non può proprio fare a meno di uscire evita il centro, la zona della Muntada, il palazzo del presidente Abu Mazen, l'ospedale Shifa, dove fino a pochi mesi fa il professor Joma al Saqqa operava le vittime dei raid israeliani e ora cura quelle delle sparatorie palestinesi. Tra le corsie al collasso la parola che si sente ripetere più frequentemente è "touàri", emergenza. Il dottor Mohawia ben Hassanen, la voce disturbata dal fuoco dei mortai, spiega frettoloso che «manca tutto, il sangue, le garze, i farmaci di base». Da lunedì i medici lavorano in prima linea, e non si tratta di un film.
La guerra di Gaza è alle battute finali, le più violente. Le milizie islamiche hanno conquistato le strade ma capiscono che rischiano di perdere il cuore della gente. Al Aqsa, la radio di Hamas sulla cui frequenza sono sintonizzate le jeep con la bandiera verde dell'islam che pattugliano la città, diffonde musica trionfale. Una litania di versetti del Corano intervallata da frequenti «breaking news» stile Cnn, notiziari flash che annunciano l'esecuzione di un collaborazionista, la presa di una caserma, la capitolazione di un fortino di fedelissimi di Abu Mazen. La sede della radiotelevisione nazionale palestinese è stata data alle fiamme. I giornalisti di al Shabab, l'emittente di Fatah, sono fuggiti in Cisgiordania. La cronaca dal campo di battaglia è privilegio dei vincitori.
«Sono molto confuso», ammette Fares Akram, 39 anni, traduttore. Tre giorni fa una squadra di Hamas a volto coperto l'ha buttato fuori dal suo appartamento, riconvertito immediatamente in una postazione di tiro. «Come credete che mi sia sentito? Orgoglioso di contribuire alla causa? Ovviamente no. Sono costretto a dormire in casa di parenti, non ho abiti né libri, lavoro appoggiandomi in un coffe shop». Fares è ancora furioso, ma se provate a interrogarlo su chi abbia la responsabilità della guerra di Gaza esita. Perché è vero che le milizie islamiche l'hanno sfrattato senza troppi complimenti, ma ieri su al Aqsa tv ha visto un servizio interessante: «Nel quartier generale dell'Autorità Nazionale Palestinese hanno trovato migliaia di carte e cd che dimostrano i contatti tra Abu Mazen e gli americani, ci sono anche delle lettere dell'esercito israeliano». Da ventiquattore il portavoce dei Comitati di Resistenza Popolare Muhammed Abdel-El ripete alla radio e in televisione che «i documenti scoperti sono la prova del tradimento di Fatah». E non conta la difesa estrema di Maher Maeqdad, consigliere politico del presidente, che contraccusa Hamas di «fare il gioco degli israeliani e dividere i palestinesi». Una versione beffarda della soluzione «due popoli e due stati»: ma di questo Maeqda può convincere la Cisgiordania, a Gaza non ha voce.
Hazem abu Shana, docente all'università al Azar, si chiede preoccupato quale possa essere il prossimo passo: «Siamo isolati. Da una parte l'embargo, dall'altra i valichi chiusi, l'Egitto impossibilitato a sostenere una Republica islamica di Gaza senza aprire un fronte interno con i Fratelli Musulmani. A questo punto Hamas non può parlare con nessuno». Intanto parla con la gente di Gaza. Che se fino a mercoledì sera imprecava contro ambe le parti in lotta adesso, un po' per paura e un po’ per sfinimento, cede al vincitore. «Almeno qui è tornata la quiete» dice Kayed Hammad, 43 anni, cooperante in un'organizzazione non governativa italiana con base a Jabalya. Una quiete relativa, che la città celebra con il funerale di un combattente di Hamas. «L'ultimo martire», giurano i suoi sulla bandiera dell'islam.
Kayed non si preoccupa dell'isolamento internazionale: «Eravamo già isolati, di peggio non può capitarci. Non abbiamo nulla da perdere». Nulla se non l'onore: «Avete visto come hanno ceduto gli uomini di Fatah, gli amici di Mohammed Dahlan? Perchè erano traditori, "adnab" diciamo noi, lacchè degli americani». La propaganda di Hamas funziona: la guerra ha fatto pulizia in casa. Ma l'impressione è che siano rimaste solo le mura.

ln un colloquio con  FOGLIO lo storico israeliano Michael Oren analizza la  strategia militare di Hamas nella conquista del potere a Gaza:

L’analisi da un punto di vista militare degli scontri tra Hamas e Fatah non è semplice. Michael Oren, storico ed esperto militare dello Shalem Center di Gerusalemme, dice al Foglio che “le informazioni indipendenti e verificabili su quello che sta succedendo a Gaza adesso sono scarse. Si tratta di una guerra in territori non accessibili – o quasi – per la stampa occidentale. Detto questo, in teoria le forze fedeli al presidente di Fatah possono contare su circa 40 mila uomini in uniforme a Gaza e in Cisgiordania. Anche se sono organizzati in brigate, plotoni e squadre, non hanno però esibito quella coesione mostrata da Hamas, che pure non è una forza regolare”. Secondo Yossi Melman, analista militare del quotidiano Haaretz, Hamas dispone soltanto di tremila uomini. Ma Rami Nasrallah, capo del think tank palestinese International Peace e Cooperation Center di Gerusalemme est, dice che si tratta di una stima in gran difetto. “Le brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato del partito islamista, conta circa tremila uomini, è vero, ma ci sono almeno altri seimila miliziani riuniti nella cosiddetta Forza esecutiva, poi le gang locali e le famiglie affiliate, tutte con legami con Hamas. Se contiamo anche loro, a Gaza ci sono 20 mila uomini di Hamas, bene equipaggiati, ben addestrati e ben armati”. Hamas combatte con fucili d’assalto, lanciarazzi a spalla e missili anticarro. E ha già dimostrato contro i militari israeliani di avere appreso quelle tattiche di guerriglia usate in Iraq contro la Coalizione e la scorsa estate da Hezbollah nel Libano del sud, come l’uso degli ordigni piazzati a lato delle strade e le imboscate con missili anticarro. “E’ abbastanza. Avevano pianificato tutto per bene – dice Melman – avevano una lista di obiettivi molto precisa e sono andati casa per casa a uccidere i membri di Fatah. Per ogni missione, si sono mossi a centinaia”. La maggior parte delle armi è arrivata illegalmente dal confine con l’Egitto. “Semplice. Loro hanno i soldi, e quindi possono comprarsi le armi sul mercato nero – dice Melman – anche nel Sinai, dove la gente del posto ha fatto del contrabbando la sua principale fonte di sostentamento da secoli, e non ha bisogno necessariamente di motivazioni ideologiche”. I soldi? “Non è un mistero. Iran e Siria. Soltanto nell’ultimo anno, tutti i ministri di Hamas che sono andati all’estero sono tornati con borsoni pieni di banconote”. Secondo un rapporto militare del marzo del 2006, almeno 1.300 tonnellate di razzi, esplosivo, munizioni, armi anticarro e anche antiaeree sono passate di nascosto dal confine verso gli arsenali del gruppo islamico che ha conquistato Gaza. Oren spiega perché Fatah ha perso così rapidamente il controllo della Striscia con la compattezza ideologica di Hamas. “Sono disciplinati e coesi, mentre le forze di Fatah non hanno alcuna ideologia che li sorregga e sono pure percepiti dalla popolazione come soldati corrotti. I miliziani islamisti invece erano già visti come vincitori da tempo. E infatti le unità regolari del presidente non hanno combattuto molto. Sono fuggiti”. “La leadership delle forze di sicurezza preventiva, agli ordini del presidente – conferma Nasrallah – aveva già lasciato l’area da settimane”. “E’ finita – dice Melman al Foglio – Hamas ora consoliderà la propria presenza e regnerà su Gaza. Ha vinto”.

Gaza è ora un avamposto iraniano della jihad. L'Onu, l'Europa, il governo italiano, non se ne vogliono accorgere. E' l'analisi  del FOGLIO, in prima pagina:

Roma. L’alto rappresentante della politica estera europea, Javier Solana, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, e il ministro degli Esteri italiano, Massimo D’Alema, fingono ancora di non capire che è nato uno stato fondamentalista a Gaza, pensano che a Hamas interessi la creazione dello stato palestinese, nonostante i suoi dirigenti ribadiscano che innanzitutto vogliono distruggere Israele, e parlano ancora e a sproposito di “forza multinazionale di pace”. Continuano a negare l’evidenza di un’operazione politico-militare a Gaza, eterodiretta da Teheran e Damasco, per una ragione cogente: la realtà dei fatti dimostra che tutti i loro corteggiamenti a Hamas e Damasco, le loro critiche all’intransigenza israeliana erano surreali. Hamas ha attuato una strategia giacobina, in versione jihadista: ha conquistato un suo stato a Gaza, ha sconfitto prima politicamente e poi militarmente al Fatah e ha costituito sul Mediterraneo un avamposto dell’alleanza che lega il gruppo islamico ad Ahmadinejad, alla sua atomica e al suo progetto di distruggere Israele. Quando il premier israeliano, Ehud Olmert, chiede una forza multinazionale ai confini di Gaza, segnala che la vittoria di Hamas è una iattura non tanto per Israele, ma per il resto del mondo. Solana, D’Alema a Ban Ki Moon, invece, fanno finta ancora di credere che il punto sia mettere fine al mattatoio di Gaza, anche se è evidente che è troppo tardi. Hamas intanto irride e minaccia – ma loro fanno finta di non capire – dicendo con il portavoce, Sami Abu Zuhri, che “Hamas è contraria al dispiegamento di qualsiasi forza internazionale, le cui truppe verrebbero considerate come un esercito occupante non diverso dall’occupazione israeliana”. Traduzione: “Se venite ai confini, vi spariamo”. La minaccia dimostra come sia indispensabile che una forza multinazionale isoli Hamas e il suo stato dal suo retroterra politico, finanziario e militare, e impedisca alla metastasi fondamentalista e antisemita di espandersi. Il tutto, naturalmente, fornendo tonnellate di pane, cibo e medicinali ai palestinesi di Gaza. Non soldi, però. Chi, come D’Alema, definì sproporzionata la reazione israeliana alle provocazioni siriano-palestinesi dimostra oggi di non avere strumenti minimi di lettura della realtà e si trincera dietro parole come “far prevalere in campo palestinese i moderati”, non accorgendosi che i cosiddetti moderati, a Gaza, vinti e umiliati nel sangue, hanno ormai levato bandiera bianca, che al Fatah ha combattuto poco e male, che Abu Mazen si è dimostrato inadeguato, che ha dato l’ordine di attaccare solo quando tutti i suoi a Gaza erano con le braccia alzate o morti e che infine ha dimissionato un governo da cui era stato già cacciato a colpi di mortaio. L’Europa dovrà comunque prendere atto, prima o poi, della straordinaria novità della conquista di Gaza da parte dell’asse jihadista che fa capo a Teheran. L’assassinio di Walid Eido a Beirut ripropone, per il secondo giugno consecutivo, una perfetta sincronia tra gli attacchi di Hamas e quelli dei filosiriani in Libano. Conquistata Gaza, ora è più facile tentare ancora una volta la presa di Beirut, dopo avere decapitato parte della dirigenza avversaria. L’Unifil, in Libano, da oggi rischia di essere presa in mezzo a una tenaglia politica costituita dall’azione sincronizzata di Hamas e Hezbollah. Una ragione di più per isolare Gaza.

Da L'OPINIONE del 14 giugno, un'intervista di Stefano Magni a Deborah Fait (pubblicata quando gli scontri a Gaza non si erano ancora conclusi con la vittoria di Hamas)

A Gaza, ormai, è guerra civile. Hamas sta tentando apertamente di dare una spallata al presidente Abu Mazen per prendere il potere. La guerra viene condotta con tutti i mezzi, senza risparmiare orribili crimini, come documenta l’ultimo rapporto di Human Rights Watch: i prigionieri vengono uccisi da entrambe le formazioni, gli ospedali sono stati occupati, svuotati dei loro ricoverati e del personale o fatti segno da colpi di arma da fuoco. Certo è che la violenza tra fazioni palestinesi non è una novità, ma un fenomeno a cui si assiste da prima dell’inizio dell’Intifadah nel settembre del 2000. Perché se ne parla solo ora? Lo abbiamo chiesto a un’osservatrice diretta (e sempre fuori dal coro) della questione mediorientale, Deborah Fait, intellettuale israeliana di origine italiana, da sempre attenta alla scorrettezza di buona parte dell’informazione su Israele. “Fino a questo momento la violenza tra i palestinesi è stata in qualche modo censurata, quasi ci fosse una sorta di pudore nel far vedere quello che sono veramente: bande di gangster che lottano le une contro le altre” - ci spiega - “Adesso le violenze sono diventate una vera e propria guerra civile ed è impossibile far finta di niente. In Israele la cosa viene vissuta con sufficiente cinismo, ma credo sia inevitabile pensare ‘ecco: ci hanno tormentati e accusati per anni, adesso forse il mondo capirà’. Gli Israeliani però non si rendono conto che il mondo non capisce e che tende sempre a giustificare tutto ciò che è palestinese e a dare la colpa a Israele anche quando sono i Palestinesi ad ammazzarsi tra loro. Purtroppo ho letto anche questo su alcuni giornali italiani”.

Abu Mazen viene presentato generalmente come il moderato che combatte contro gli estremisti di Hamas. Ma Abu Mazen stesso può essere considerato come un uomo di pace? Nel caso Fatah vinca, Israele potrà considerarsi più sicura?
Abu Mazen non può essere considerato un uomo di pace e molte sue dichiarazioni confermano quanto dico. Abu Mazen è soltanto l’alter ego meno paranoico e criminale di Arafat. Israele non potrà mai considerarsi sicura perché l’obiettivo dei Palestinesi non è quello di avere un loro stato (credo che la loro storia quarantennale lo dimostri ampiamente), ma di distruggere il nostro. Se, Dio non voglia, dovessero raggiungere il loro obiettivo, la ex Palestina mandataria verrebbe suddivisa tra Giordania e Siria. E i Palestinesi sarebbero scornati ma felici e contenti di aver eliminato il nemico sionista... e con loro anche qualche europeo.

Guerra civile a Gaza, guerra in Libano e (da un mese a questa parte) si parla anche della possibilità di una guerra con la Siria: quale di questi pericoli viene considerato più immediato in Israele?
La guerra civile a Gaza è affar loro, Israele non ha nessuna voglia di entrarci anche se da più parti, nei territori palestinesi, chiedono a gran voce che Israele torni ad “occupare” Gaza. ‘Stavamo molto meglio sotto Israele’, è il leitmotiv della popolazione pensante. Lo ha dichiarato proprio oggi un giornalista palestinese. Credo che il pericolo più immediato sia una guerra col Libano visto che Hezbollah si è riarmato. Non so se la Siria vuole una guerra con Israele, credo che sia più interessata al petrolio libanese che al Golan.

Olmert viene accusato di non difendere a sufficienza la popolazione di Sderot (e del Negev in generale) dai lanci di razzi Qassam. L’opinione pubblica israeliana è favorevole ad un’azione militare più vasta? Anche un’occupazione della città di Gaza?
La popolazione israeliana è stanca, gli abitanti di Sderot sono anche troppo buoni e tranquilli. Qualsiasi altra popolazione di una qualsiasi altra città del mondo, bombardata quotidianamente da 7 anni, si sarebbe ribellata violentemente. L’opinione pubblica è divisa, c’è chi vorrebbe un’operazione militare più vasta e chi non sa più cosa pensare perché siamo senza un partner con cui parlare. Siamo soli a combattere contro chi vuole farci scappare da qui, dall’altra parte non esiste una sola persona con cui trattare qualcosa e i terroristi hanno carta bianca. Nemmeno l’Egitto riesce a fermarli. Occupare Gaza City sarebbe una disgrazia, soprattutto per noi. Gli abitanti di Sderot vorrebbero solo essere protetti, non chiedono altro. Si spera che lo saranno almeno le scuole (il governo Olmert sta provvedendo a fortificarle, per proteggerle dai razzi Qassam, ndr) a partire da settembre.

Nell’estate del 2005 pareva che in Israele fossero tutti (o quasi) d’accordo con il disimpegno dalla striscia di Gaza. Ora sono ancora tutti convinti che sia stata la cosa migliore da fare?
Nel 2005 la maggior parte degli Israeliani era d’accordo con il disimpegno. Tutti speravamo che i palestinesi avrebbero preso in mano il territorio evacuato per gettare le basi di uno Stato palestinese. Avevano tutto pronto: le serre per lavorare, la tecnologia... dovevano soltanto continuare il lavoro degli Israeliani evacuati che avevano creato un impero di esportazione di prodotti biologici. Invece l’unica cosa che hanno fatto è stato: distruggere le serre e trasformare la striscia in un deserto. Al posto delle serre hanno sistemato le rampe di razzi per colpire Israele più in profondità. Adesso in molti ci chiediamo se ne valeva la pena. Israele ha avuto coraggio, ma il mondo, dopo un paio di settimane, se lo era già dimenticato e ha ricominciato a darci addosso. Fosse almeno servito a guadagnarci la simpatia degli occidentali... ma così non è stato. No, non ne valeva la pena.

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