venerdi 03 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Foglio - L'Opinione - Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.12.2006 Iran: gli ayatollah "riformisti" non esistono
un'opposizione al regime sì

Testata:Il Foglio - L'Opinione - Corriere della Sera
Autore: Tatiana Boutorline - Stefano Magni - Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Due Iran, un regime - Mujaheddin e studenti sfidano Teheran - L'Iran abbandona il dollaro»
Tatiana Boutorline sul FOGLIO del 19 dicembre 2006 spiega perché i "riformisti" del regime iraniano sono soltanto un'invenzione e un'illusione:

Roma. Soltanto il ghigno luciferino di Mahmoud Ahmadinejad poteva restituire smalto all’immagine sbiadita dei riformatori iraniani. Ma è bastato un anno e mezzo di esternazioni del nuovo presidente a far rimpiangere la retorica buonista dei paladini del “dialogo tra le civiltà”. Riecco i riformatori risorti ai fasti delle cronache internazionali grazie alla provvida alleanza con realpolitiker Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Stando ai titoli della stampa internazionale, l’Iran sfugge al controllo dei falchi torna a credere nei moderati. Tutto vero se non fosse che la moderazione andrebbe qualificata, perché troppo a lungo in Iran bastato chiamarsi riformatori per essere annoverati come tali. La distinzione manichea conservatori-riformatori è una falsa categoria, utile a quanti ancora sperano in un’evoluzione democratica del regime. Purtroppo, al netto dei distinguo, le differenze sono più formali che sostanziali. Il mite presidente Mohammad Khatami inorridiva quando lo definivano il Gorbaciov iraniano e non ha perso occasione per tributare roboanti encomi alla leadership di Hezbollah. La Repubblica islamica è un sistema chiuso: alla base della piramide le clientele avvincono al regime gli insider, al vertice si scontrano i poteri forti. Contano le grandi famiglie clericali e gli investimenti economici. E non serve nemmeno invocare i brogli per definire le elezioni iraniane il termometro dei rapporti di forza interni all’establishment. In questa gara hanno perso Ahmadinejad e il suo ambizioso mentore, Mesbah Yazdi, vinto Rafsanjani, Khatami e l’ex capo della polizia, il conservatore Mohammed Bagher Ghalibaf, ma l’unico a uscire trionfante dal responso elettorale non ha corso per una poltrona. Nella partita appena giocata a sbaragliare tutti gli avversari è stato l’arbitro. Lo descrivevano stanco, fiaccato dalla malattia e dall’irresistibile ascesa di Ahmadinejad, ma il trionfatore delle ultime elezioni è lui, l’“uomo senza qualità” Ali Khamenei. C’è la mano di questo burattinaio – povero di carisma, ma portato per le alchimie di palazzo – dietro l’esito dei duelli che hanno opposto l’anima pragmatica a quella oltranzista del regime. In Iran è in atto una lotta di classe che oppone la mullahcrazia plutocratica dei businessman “aghazadeh” (figli di mullah, ndr) ai nuovi potenti delle milizie paramilitari. L’ayatollah Khamenei ha rassicurato gli uni e arginato le ambizioni degli altri. Il risultato delle consultazioni ha premiato il principe della nomenklatura Hashemi Rafsanjani e la coalizione riformatrice. Il baricentro della politica nazionale tornato nelle mani dei conservatori tradizionali, uomini di mondo, infastiditi dal nuovo corso di Ahmadinejad, tanto in campo internazionale quanto in tema di politiche economiche. Per garantire la continuità del regime Khamenei sa che gli equilibri tra “grandi elettori” all’interno del sistema non possono essere stravolti. Il voto non è stato una manovra correttiva. Se nel ’97 si risolse ad accettare Khatami, convinto che fosse un male minore, nel giugno 2005 si persuase che il partito del fucile andava premiato. Quest’anno il kingmaker si è battuto per la continuità. Il regime non cambia pelle. Le vittorie non sono schiaccianti. Premiati e delusi avranno bisogno dell’investitura dell’ayatollah Khamenei. Il nuovo uomo forte di Teheran I quotidiani riformatori hanno dato grande risalto a una foto di Khatami e Rafsanjani giunti insieme per votare alla moschea di Jamaran nel nord della capitale. Il giornale Ayandé ha scritto che “a prescindere dai risultati l’elemento chiave delle consultazioni è rappresentato dalla coalizione dei riformatori”. Il rovescio della medaglia è che pragmatici e riformatori da soli non sfondano più. L’intesa “al centro” emargina le componenti più estreme dei due schieramenti, ma la coalizione appare ancora disomogenea. Il fiore all’occhiello dell’alleanza è la vittoria di Rafsanjani su Yazdi (secondo gli ultimi dati un milione e mezzo di voti contro novecentomila), la cartina di tornasole del cartello elettorale, ha spiegato nel suo blog webneveshta, il consigliere di Khatami, Mohammed Ali Abtahi. Per quanto riguarda invece i consigli municipali nei dati parziali la coalizione rimonta (4 consiglieri su 15 Teheran), ma sono soprattutto le liste legate ad Ahmadinejad a perdere (solo 3 consiglieri su 15 a Teheran, 3 su 11 a Isfahan, 4 su 16 a Tabriz, 3 su 9 a Qom, nemmeno uno nella città di Bandar Abbas). I dati locali confermano nella capitale l’appeal del sindaco di Teheran Ghalibaf, conservatore populista, che il potere sta trasformando in pragmatico (7 consiglieri su 15 a Teheran). Nemico di Ahmadinejad, Ghalibaf è un fedelissimo dell’ayatollah Khamenei. E anche nella sfida più attesa – per il controllo del Consiglio degli esperti – la vittoria di Rafsanjani è funzionale al disegno della Guida suprema. Le mire di Yazdi sull’unico organo in grado di contrastare il ruolo del leader supremo da mesi fanno gridare al golpe gli insider. L’insistenza sulla natura islamica del regime unita al disprezzo per la sua forma repubblicana e il sogno di un governo islamico che faccia piazza pulita di Parlamento e Guida suprema, inglobando in una sorta di califfato tutte le funzioni dello stato, ha urtato la suscettibilità della guida della rivoluzione. Khamenei ha dato agli uni e tolto agli altri, le gerarchie sono state ripristinate e chi ha osato troppo è stato punito. Per quanti attendono una glasnost del regime, il progetto è fermo alle glaciazioni. E chi spera in Rafsanjani dovrà sempre, più di sempre, fare conti con Khamenei.

Stefano Magni sull'OPINIONE del 18 dicembre 2006, sulla fragilità del regime iraniano:

Tira aria di rivolta in Iran. All’indomani della Conferenza sull’Olocausto indetta dal regime dei mullah per negare l’esistenza dello sterminio degli Ebrei e dunque delegittimare Israele, l’opposizione ha ricominciato a farsi sentire. Sono ormai lontani i tempi della rivolta studentesca del 1999, quando migliaia di studenti universitari scesero in piazza. Ma, evidentemente, le università sono ancora in ebollizione, tanto che, lo scorso settembre, Teheran ha creato un’apposita branca di polizia per controllare scuole e accademie iraniane. Lunedì scorso la contestazione studentesca del Politecnico Amir Kabir, a scena aperta, contro Ahmadinejad è stata la più esplicita e coraggiosa di una serie di proteste di studenti e professori. Quattro tra gli studenti che hanno partecipato alla contestazione sono scomparsi nel nulla e risultano tuttora dispersi. Ma da parte dei ribelli non sembra esserci alcuna intenzione di mollare. “Gli studenti iraniani hanno alzato la bandiera della lotta contro questo governo corrotto e liberticida e non intendono dar tregua alle forze della repressione, sperando che altri settori della società si uniscano in questa loro battaglia” – recita un comunicato del comitato studentesco Tahkim Vahdat, aggiungendo che: “Le grida degli studenti, quando si sono trovati faccia a faccia con il capo dell’esecutivo, volevano denunciare la gravità della repressione, l’incapacità di questo governo di gestire il Paese, la corruzione galoppante e la disastrosa situazione economica”.

Intanto, anche all’estero, la resistenza anti-mullah festeggia una prima vittoria: la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha sbloccato i fondi dell’organizzazione Mujaheddin del Popolo, fondi congelati sin dal 2002, quando la formazione dissidente era stata inclusa nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. I Mujaheddin del Popolo, di ispirazione marxista, erano stati tra i protagonisti della rivoluzione del 1979, ma ben presto finirono nel mirino del nuovo governo islamista di Khomeini. Nel 1986, durante la guerra Iran-Iraq ricevettero protezioda Saddam Hussein. Le loro milizie, presenti in Iraq sino al 2003, sono state disarmate dall’esercito statunitense e confinate in un campo nei pressi di Baghdad. In Francia, 165 loro militanti furono arrestati nel giugno del 2003. È possibile che quest’ultima sentenza modifichi l’atteggiamento delle istituzioni europee nei confronti del gruppo dissidente. Ma quanto è solido il regime di Teheran? Gli analisti “realisti”, considerando che Teheran detiene tutte le risorse di violenza, mentre l’opposizione è disarmata o esiliata, ritengono che non vi siano chance per un cambio di regime. Ma ancor più realisti si dimostrano gli stessi mullah, che temono per la sopravvivenza del loro potere. Basti vedere l’incertezza con cui le massime autorità religiose hanno affrontato le elezioni dello scorso venerdì, temendo sin da subito un vuoto alle urne. L’ayatollah Khamenei è ricorso alla supplica per invitare gli elettori a uscire di casa, definendo le elezioni come un modo “per dimostrare al mondo la volontà degli Iraniani di proseguire sulla strada di Allah”. Non sono atteggiamenti tipici di un regime troppo sicuro di se stesso.

L'Iran sostituisce il dollaro con l'euro per le riserve valutarie e le transazioni petrolifere.
La cronaca di Cecilia Zecchinelli:


Se un giorno il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad dovesse venir catturato come l'ex rais iracheno Saddam Hussein — cosa che gli americani si augurano — non lo si scoprirebbe in compagnia di una valigia piena di dollari. Ma di euro. Al limite misti a yen e sterline. Perché la moneta del Grande Satana, da ieri, è stata dichiarata ufficialmente non grata dalla Repubblica Islamica.
«Il governo ha ordinato alla banca centrale di sostituire i dollari con gli euro nelle riserve valutarie, per limitare i problemi delle nostre istituzioni nelle transazioni commerciali. Useremo la moneta europea in tutte le operazioni con l'estero, comprese quelle petrolifere», ha annunciato ieri il portavoce del governo, Gholam Hossein Elham. E ancora: «I nostri fondi all'estero verranno convertiti in euro e il bilancio dello Stato sarà calcolato nella stessa valuta». Poco dopo, il governatore della banca centrale Ebrahim Sheibani precisava: «Non solo euro, ma anche altre valute».
L'importante è allontanarsi dal dollaro.
Un annuncio choc, a prima vista.
Una sfida all'America di Bush attraverso la destabilizzazione della sua moneta, forse un tentativo di suscitare più simpatie in Europa. Fallito sul nascere, però: un portavoce della Commissione europea ha reagito subito dichiarando che «Bruxelles non incoraggia i Paesi al di fuori dell'Unione europea a utilizzare l'euro».
Ma in realtà la decisione di Teheran non significa un immediato e totale abbandono del biglietto verde, impossibile in un sistema economico globalizzato, tanto più per il quarto produttore mondiale di petrolio, ovvero di una materia prima che è e resterà trattata in dollari. E comunque le riserve valutarie iraniane, a quanto si sa, sono già ora solo per il 30% in dollari. In calo come quelle di tantissimi Paesi, soprattutto se produttori di greggio.
L'annuncio, che era nell'aria da tempo e non ha provocato effetti sui mercati, ha piuttosto una valenza politica. E indica che il regime iraniano è meno forte di quanto dichiari.
Accusata da Washington di preparare la Bomba e di essere la «banca centrale» del terrorismo internazionale, nel mirino dell'intero Occidente per la sua politica anti-Israele, Teheran sa infatti molto bene che potrebbe presto essere oggetto di sanzioni da parte dell'Onu. L'amministrazione Bush fa da mesi pressione sulle grandi istituzioni finanziarie perché cessino ogni rapporto con la Repubblica Islamica e da settembre ha vietato ogni transazione con la grande banca Saderat di Teheran. Il Tesoro Usa ha chiesto agli istituti di credito di essere «molto prudenti» con i clienti iraniani. E di recente perfino le banche europee e del Golfo hanno iniziato a rifiutare ogni transazione in dollari da e per l'Iran. Dollaro sempre meno agevole per la Repubblica degli Ayatollah, quindi. E dollaro deprezzato, come per tutti.
«Molte banche centrali stanno mutando le riserve, vendendo dollari per euro e oro, ormai da due anni: è uno dei motivi della debolezza della valuta Usa — dice Maurizio Mazziero, direttore dell'istituto di analisi sulle materie prime Club Commodity —. E anche in campo petrolifero non è la prima volta che si sente parlare di scambi in euro, in parte già esistono (anche Saddam ne aveva fatti, ndr). Ma il mercato dei contratti a termine del greggio è in dollari, alla fine è sempre lì che si torna. L'annuncio di Teheran mi sembra quindi soprattutto politico, in fondo sono in un delicato periodo elettorale». In realtà, la «conversione» del governo iraniano all'euro era iniziata prima della débâcle dei candidati pro-Ahmadinejad di venerdì scorso. Ma non è escluso che quei risultati abbiano spinto il presidente fondamentalista ad accelerare i tempi.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio, dell'Opinione e del Corriere della Sera

lettere@ilfoglio.it
diaconale@opinione.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT