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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio - L'Opinione Rassegna Stampa
26.04.2006 Per l'America é il tempo delle scelte
la minaccia iraniana richiede una risposta definita

Testata:Il Foglio - L'Opinione
Autore: la redazione - Stefano Magni
Titolo: «L'America di fronte all'Iran - Bombardare o non bombardare ?»

Il FOGLIO di mercoledì 26 aprile 2006 pubblica un editoriale dei Wall Street Journal (ripreso da Milano Finanza )  sulla minaccia iraniana e sulla necessità che l'amministrazione Bush definisca una chiara strategia per farvi fronte.
Ecco il testo:

Bill Clinton si è spesso lamentato che la storia gli ha negato una qualche sfida storica – una Grande depressione o una guerra – che avrebbe potuto rendere memorabile la sua presidenza. Abbiamo il sospetto che, dopo cinque tumultuosi anni, il presidente George W. Bush abbia più di una volta desiderato di essere altrettanto fortunato. Ma non è tale il destino di questo presidente, che ha dovuto confrontarsi con gli effetti di quella vacanza della storia che sono stati gli anni Novanta: l’11 settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq, e ora il test più serio, il profilarsi minaccioso della crisi con l’Iran che si muove verso le armi nucleari.
L’annuncio dato dall’Iran di avere arricchito l’uranio fino a renderlo utilizzabile per l’alimentazione di reattori nucleari di uso civile segna una svolta, e non c’è più alcuna illusione cui affidarsi. Ora l’Iran è in grado di svolgere autonomamente l’intero processo di produzione del carburante nucleare, dall’estrazione dell’uranio grezzo nei propri depositi, alla sua frantumazione, conversione in gas di esafluoruro e al suo arricchimento in centrifughe prodotte in Iran. Tecnicamente, l’arricchimento dell’uranio per l’utilizzo in reattori è la fase più difficile del processo. Da qui all’atomica il percorso è ben più facile. “Si possono incontrare molte difficoltà con il primo ciclo di centrifugazione – ci ha riferito una fonte affidabile del governo statunitense – Ma quando si è imparato a farlo, lo si può replicare ovunque”.
E non è tutto. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad dice che l’Iran sta “conducendo ricerche” su una centrifuga avanzata ottenuta dal disonesto scienziato pachistano A. Q. Khan: in precedenza Teheran ne aveva negato l’utilizzo. Questo significa che l’Iran ha ancora una volta ammesso di aver mentito all’Agenzia per l’energia atomica (Aiea). Indica anche che ha un programma nucleare nascosto più vasto rispetto a quanto è stato ammesso e che è ben più vicino all’obiettivo di sviluppare il nucleare su scala industriale di quanto sia stato presunto. Detto in parole semplici, l’idea che all’Iran serva almeno un’altra decade per arrivare all’atomica – com’è stato valutato l’anno scorso dal National Intelligence Estimate – ora sembra un pio desiderio. La bomba iraniana rappresenterà un problema per questa Amministrazione, non per la prossima, e Bush non ha altra alternativa se non mostrare la leadership che ha finora esternalizzato a europei e Nazioni Unite. Questo non significa rinunciare alla diplomazia, ma vuol dire essere realisti rispetto ai propri limiti e chiari rispetto alle alternative. La minaccia di sanzioni – embargo commerciale e petrolifero, divieto ai funzionari iraniani di viaggiare all’estero e agli atleti iraniani di partecipare a eventi sportivi internazionali – potrebbero convincere i leader iraniani che c’è un prezzo proibitivo da pagare per diventare una potenza nucleare. Ma dubitiamo che ciò possa accadere. Più che agire come deterrente, le sanzioni finirebbero per accelerare la volontà dei mullah di ottenere la bomba, anche soltanto perché i regimi armati con il nucleare sono più difficili da isolare di quelli che non lo sono. Le sanzioni al Pakistan e all’India, imposte dopo i test nucleari del 1998, sono durate pochi anni.

Il “grand bargain” con i mullah inaffidabili
Le chance per la comunità internazionale che impone sanzioni – e le fa valere – sono piccole. Russia e Cina si sono già opposte. Pechino non può permettersi di restare senza rifornimenti di petrolio e di gas naturale. E Mosca vede sempre di più in Teheran un cliente prezioso: il reattore nucleare a Basher è costruito dalla Russia, che fornisce anche missili avanzati per difendere il sito. Quanto agli europei, tre anni di diplomazia infruttuosa li hanno perlomeno convinti della malafede di Teheran. Ma né la Germania né la Francia – che hanno forti legami commerciali con l’Iran – sembrano pronte a procedere con le sanzioni, e il ministro degli Esteri inglese, Jack Straw, ha fatto carriera cercando di coltivarsi i mullah.
Invece la “comunità internazionale” e l’establishment della politica estera statunitense continueranno a fare pressioni sull’Amministrazione per seguire quello che è chiamato il “grand bargain”, il grosso scambio: colloqui diretti tra Washington e Teheran per mettere fine all’embargo degli Stati Uniti e per reinstaurare i legami diplomatici in cambio della promessa da parte dell’Iran di abbandonare il progetto nucleare. L’idea dello scambio ha già avuto una spinta da Richard Lugar, il repubblicano dell’Indiana che presiede il Foreign Relations Committee del Senato. Parlare con i mullah, ha detto recentemente Lugar a George Stephanopoulos dell’Abc, “sarebbe utile”, e ha aggiunto che l’Amministrazione ha bisogno di “fare progressi diplomaticamente”. E’ quello che Clinton ha cercato di fare con la Corea del nord negli anni Novanta, quando Pyongyang ricevette un’offerta economica e assistenza tecnica in cambio della rinuncia alle ambizioni nucleari. La Corea del nord intascò l’accordo, proseguì di nascosto il programma di sviluppo delle armi e ora chiede all’America nuove concessioni.
Comunque nulla di ciò che ha fatto l’Iran offre qualche certezza del fatto che rispetterebbe lo scambio. Ha mentito all’Aiea, ha buttato nel cestino i suoi accordi con l’Europa, si è fatto beffa delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha fornito esplosivi ai guerriglieri in Iraq, ha sviluppato missili balistici con un raggio d’azione sempre più ampio (vedi fotografia, ndr), ha scelto un presidente con impulsi religiosi apocalittici, si è impegnato in una retorica antiamericana e antisemita al vetriolo. Questo non è il comportamento di uno stato ordinario che vuole normalizzare la sua posizione nel mondo attraverso la diplomazia. Questi sono piuttosto gli atti di un regime rivoluzionario che cerca di seminare la sua ideologia e il suo potere con la forza e l’intimidazione. Gli Stati Uniti devono pensare attentamente a stringere patti con un regime dispotico che ha il sostegno di soltanto il 20 per cento della popolazione, almeno se l’obiettivo è vedere il regime ribaltato in modo pacifico dall’interno. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2006, Bush ha parlato direttamente agli iraniani: “Noi rispettiamo il vostro diritto di scegliere il vostro futuro e di conquistare la vostra libertà”. Un “grand bargain” del tipo suggerito da Lugar tradirebbe questa promessa e aiuterebbe i mullah a mantenere il potere.

Coinvolgere anche il Congresso
Ora il compito di Bush è quello di cominciare a parlare pubblicamente del perché un Iran nucleare sia, come dice lui, “inaccettabile”. Lungi dal prepararsi a una guerra, l’Amministrazione ha appena cominciato a valutare in concreto le difficili alternative. Le ragioni di tale riluttanza sono facili da capire: il futuro dell’Iraq democratico è ben lontano dall’essere sicuro; la popolarità di Bush è bassa e il suo capitale politico è svuotato; le opzioni militari contro l’Iran hanno limiti e rischi. Ma Bush resterà presidente ancora 33 mesi, con la responsabilità costituzionale di garantire la sicurezza degli americani. E non c’è pericolo più chiaro e attuale del programma nucleare dell’Iran.
Il nostro desiderio oggi non è sostenere azioni specifiche. Ma l’Amministrazione non può più rimandare una discussione schietta sulla natura e sull’urgenza della minaccia iraniana. Deve coinvolgere pure il Congresso. Ciò sarebbe utile anche per togliere forza a quel che il senatore Lugar e i seguaci del “grand bargain” stanno proponendo come alternativa alle sanzioni o alla forza. Se pensano che un Iran nucleare sia accettabile, devono dirlo. Bush deve cominciare a educare l’opinione pubblica su quello che è in gioco in Iran e su ciò che l’America deve prepararsi a fare. Finché non lo fa, sarà in ostaggio di una serie di “annunci” sempre più pericolosi di Teheran, la pace e le sue tempistiche saranno dettate dai religiosi e dai fanatici che ci vogliono tutti debilitati.

Da L'OPINIONE, un articolo di Stefano Magni sul dibattito statunitense sulla migliore risposta da dare alla minaccia iraniana:  

 

Si può o non si può bombardare l’Iran? Rumsfeld ha liquidato le speculazioni dei giornalisti su un imminente attacco americano: “I giornalisti la smettano di lavorare di fantasia” ha dichiarato testualmente. Per ora gli Stati Uniti stanno prendendo in considerazione solo la diplomazia. Bombardare l’Iran non è cosa da poco. Non sarebbe l’equivalente del bombardamento del reattore di Osiraq in Iraq del 1981, quando, con una sola squadriglia di F-16, l’aviazione israeliana decapitò l’intero programma nucleare iracheno. Per danneggiare (nemmeno distruggere) il programma iraniano, occorrerebbe condurre un’intera campagna aerea/navale per colpire Bushehr, Arak, Natanz e molti altri siti, ben fortificati, sotterranei, di volta in volta scoperti grazie alle defezioni di scienziati iraniani o all’intelligence occidentale. Dal punto di vista tecnologico, queste difficoltà potrebbero essere superate facilmente dalla marina e dall’aviazione americana. Per gli obiettivi più fortificati, sia l’aviazione americana e (da un anno a questa parte) anche quella israeliana, dispongono di ordigni perforanti sufficienti a “bucare” le difese passive nemiche. Gli Americani prevedono anche di testare nel Nevada, nuovi ordigni in grado di provocare piccoli shock sismici per distruggere installazioni e basi situate in profondità.

Anche le difese attive iraniane (caccia e missili contraerei), possono essere facilmente aggirati, conducendo raid con aerei invisibili (F-117, F-22 e B-2) o lanciando missili dai sottomarini. Il rischio non è tanto insito nei limiti militari americani quanto piuttosto nella validità delle fonti di informazione dall’Iran, che non sono del tutto sicure: il Pentagono teme che gli impianti noti siano solo la metà di quelli già funzionanti. Un conflitto con l’Iran è temibile proprio per questo si rischia di non scalfire nemmeno il nemico, regalandogli, in compenso, l’occasione di rispondere con atti di terrorismo, destabilizzazione e guerriglia in tutto il mondo musulmano. Come in tutte le scelte difficili, il dibattito sul da farsi è ricchissimo, anche tra coloro che sono considerati “falchi”. L’immagine dei “neocon” impazienti di bombardare è falsa, tant’è vero che uno dei più noti neoconservatori americani, Michael Ledeen, è contrario all’intervento armato. Ledeen sostiene che il problema non è tanto l’atomica in sé, quanto il regime teocratico disposto a usarla. Se il problema reale è il regime, la strategia americana deve concentrarsi sul sostegno ai rivoluzionari e ai dissidenti iraniani, per indebolire e far cadere, dall’interno, una élite minoritaria al potere a Teheran. E ci si deve avvalere di tre strumenti: l’appoggio finanziario e politico ai sindacati dissidenti dei lavoratori iraniani; il sostegno agli studenti dissidenti, coordinandosi direttamente con i leader studenteschi; l’apertura di nuovi canali di comunicazione, radiofonica, televisiva e via Internet, per bucare il muro di propaganda del regime di Teheran.

Queste sono strategie che possono produrre effetti solo dopo molti anni, ma sono comunque ritenute preferibili ad azioni militari. Anche William Kristol, editor della rivista The Weekly Standard, non sostiene apertamente l’idea di un conflitto con l’Iran, ma suggerisce di incominciare espliciti preparativi militari nel Golfo Persico, così da rendere più efficace la pressione diplomatica. Senza la minaccia concreta di un intervento militare, la diplomazia non avrebbe alcuna speranza di cambiare l’atteggiamento del regime dei mullah. Ma poi si fa la guerra o no? Meglio di no, sembra rispondere Kristol, ma non si sa mai… Sulla rivista City Journal, l’editorialista conservatore Mark Steyn ricorda il pericolo di un’atomica iraniana nelle mani del regime dei mullah. Un regime che, a differenza di tutti gli altri, ha sempre messo in pratica gli slogan della sua propaganda estremista e che, da più di un decennio, da Rafsanjani a Ahmadinejad, predica la distruzione dello Stato di Israele. Steyn conclude che un attacco all’Iran è un rischio, ma un rischio ancora maggiore si correrebbe se non si agisse. E più passa il tempo, più si regala tempo prezioso al regime di Teheran, più la rappresaglia terroristica iraniana sarà peggiore. A premere per un’azione militare immediata sono soprattutto gli oggettivisti, l’anima più individualista della destra americana.

In particolar modo, il giornalista Robert Tracinski, tramite il suo The Intellectual Activist, ha lanciato una “Mobilization Alert”, in cui elenca le ragioni dell’intervento armato: il programma nucleare iraniano è palesemente militare e ostile; non solo il regime dei mullah minaccia Israele di distruzione, ma è già impegnato ad alimentare la guerriglia irachena contro le truppe statunitensi e punta a instaurare un regime islamista anti-occidentale in Iraq; Teheran appoggia direttamente gli Hizbollah e finanzia Hamas e Jihad Islamica e c’è il sospetto di un collegamento anche con Al Qaeda; Ahmadinejad ha stretto rapporti ancor più amichevoli e cooperativi con altri nemici degli Stati Uniti, quali Fidel Castro e Hugo Chavez. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di rispolverare la dottrina dell’“attacco preventivo”: stando così le cose, un intervento americano in Iran non sarebbe altro che una risposta ad una continua aggressione iraniana.

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