mercoledi` 13 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
20.02.2023 La democrazia non è disarmata
Paola Peduzzi ne discute con Anne Applebaum

Testata: Il Foglio
Data: 20 febbraio 2023
Pagina: 5
Autore: Paola Peduzzi
Titolo: «La democrazia non è disarmata»

Riprendiamo dal FOGLIO  di oggi, 20/02/2023, a pag. 5, con il titolo "La democrazia non è disarmata", l'analisi di Paola Peduzzi.

Risultati immagini per paola peduzzi
Paola Peduzzi

Anne Applebaum - Premio Nonino 2022
Anne Applebaum

Il taccuino di Erika Kinetz è piccolo con le pagine bianche piene di disegni semplici: una strada, un bivio, dei puntini. Sono le piccole mappe dell’orrore russo per le strade di Bucha, Irpin, Chernihiv: i puntini sono i cadaveri ritrovati, uno due, tre corpi qui, altri corpi là – “otto in tutto”, in pochi metri – di fianco ci sono i quadratini che indicano i palazzi distrutti. Erika Kinetz è una giornalista dell’Associated Press, è arrivata in Ucraina poco dopo l’invasione della Russia, il 24 febbraio 2022, per raccontare la guerra e si è ritrovata a documentare un massacro di esseri umani che il ministro degli Esteri ucraino, Dmitro Kuleba, sintetizza così: “Può succedere di tutto, puoi essere ucciso, stuprato, torturato, tagliato a pezzi, tutto”. Il lavoro della Kinetz e di altri suoi colleghi è diventato un documentario prodotto assieme alla Pbs, “Putin’s attack on Ukraine”, che è stato pubblicato alla fine dell’ottobre scorso: ripercorrendo i primi mesi dell’aggressione russa, puntino per puntino, quadratino per quadratino, ogni storia riemerge dalla memoria – è passato quasi un anno e sembra un secolo di violenza. Di questo film – ce ne sono altri e ne stanno uscendo di nuovi per l’anniversario – colpiscono tre cose: gli occhi increduli dei sopravvissuti; gli “oh God” che sfuggono alla Kinetz anche dopo che ha preso quaderni di appunti, dopo che ha fatto cento disegni con i puntini e i quadrati, e i testimoni ne hanno aggiunti altri a mano, dopo che ha visto e rivisto che i soldati di Vladimir Putin hanno commesso e commettono crimini di guerra; le enormità che sono successe dopo, a documentario concluso: tanto orrore è soltanto una parte, l’inizio.

“Oh God” è il ritornello necessario per raccontare questo primo anno di guerra: non ci abitua alla violenza. Le immagini non si assomigliano l’una all’altra, ogni maceria conta, ogni cadavere conta, se ogni esplosione è uguale a quella dopo, se passa l’idea perversa che tutte le guerre sono brutte, si soffre e si muore, allora si banalizza anche la difesa dall’attacco: questa è una guerra ingiustificata in cui un popolo di cittadini normali ha dovuto, da un giorno all’altro, inventarsi soldato. E’ essenziale riconoscere gli oggetti della quotidianità sventrata dagli attacchi di Putin: le stanze divelte con le lenzuola ancora sui letti, la cucina tranciata e sospesa in cima a un condominio colpito da una bomba, le mele nel cestino in mezzo al tavolo, i portachiavi, le biciclette, i sacchetti della spesa, le mutande rubate dai soldati russi per spedirle alle loro fidanzate a casa, le lavatrici e i frigoriferi portati via, alcuni consegnati perché possono servire alla macchina della guerra russa altri inviati alle famiglie, le scarpe, i televisori, le scatolette di cibo, le tende, i pneumatici infilati in sacchi grigiastri che sono stati ritrovati nelle città russe vicine al confine ucraino – bottini di guerra che sanno di miseria e di disperazione. E poi i corpi, centinaia di corpi lasciati sulle vie dell’aggressione di Putin – le vie di ingresso, le vie di fuga, in questa continua e falsa “riorganizzazione” che la propaganda di Putin ci rifila per disorientarci – corpi russi, corpi ucraini, mani legate, cappucci in testa, vestiti sformati, bruciature, mutilazioni, mine ovunque perché nemmeno il ritrovamento e il lutto possano essere momenti di dolorosa calma. Gli oggetti, le cose, i corpi e la memoria si intrecciano sotto i nostri occhi, mentre una catastrofe umanitaria s’è abbattuta su un intero paese – un paese grande due volte l’Italia tutto sotto attacco da un anno, tutti i giorni – per la volontà imperialista e genocidiaria della leadership di Mosca. “L’Ucraina conta come simbolo del perduto impero sovietico”, dice Anne Applebaum, scrittrice che da almeno vent’anni, dal suo seminale “Gulag” pubblicato nel 2003, ci costringe ad andare a vedere da vicino quel che preferiremmo ignorare. “L’Ucraina era la seconda Repubblica sovietica più popolosa, la seconda più ricca e quella con i più profondi legami culturali con la Russia. Ma la moderna Ucraina post sovietica ha lottato per unirsi davvero al mondo delle democrazie occidentali. L’Ucraina ha organizzato non una, ma due rivoluzioni per la democrazia, contro l’oligarchia e contro la corruzione negli ultimi due decenni. Putin vuole che i democratici ucraini falliscano perché vuole che i democratici russi falliscano. La distruzione dell’Ucraina è legata, nella mente del presidente russo, alla sua sopravvivenza politica come autocrate illegittimo”. Applebaum dice che Putin ha attaccato l’Ucraina non soltanto in nome della sua ideologia sovietico-imperialista secondo cui quella terra, quel popolo, appartiene alla Russia – in questo sta il disprezzo letale del presidente russo per l’umanità, che considera una massa informe e quindi sacrificabile da possedere, in quanto non ha desideri, volontà, aspirazioni – ma perché l’Ucraina voleva buttarsi verso ovest, assaporare un modo di vivere fondato sulla libertà, con tutte le sue contraddizioni, ma anche con tutte le sue certezze. Se quel processo fosse cominciato e andato a buon fine, “se l’Ucraina fosse stata nella Nato, Putin non l’avrebbe invasa”, dice Applebaum, stracciando fulminea mezzo dibattito occidentale di aera filorussa: “Una delle rimostranze di Putin è che l’espansione verso est della Nato non abbia tenuto conto degli interessi di sicurezza della Russia. L’espansione della Nato ha creato una zona di sicurezza intorno ai 60 milioni di abitanti dell’Europa centrale, consentendo trent’anni di crescita, investimenti e sviluppo. Il risultato è stato il benessere, compreso quello tedesco. Dal 1991, quest’Alleanza non ha mai assunto una forma aggressiva: la Nato non ha piani per invadere la Russia né li ha mai avuti. Anzi, a un certo punto gli Stati Uniti hanno ritirato i loro carri armati dall’Europa e hanno iniziato a chiudere le basi militari, né c’erano mai state esercitazioni della Nato in Polonia fino alla prima invasione russa dell’Ucraina, nel 2014. Putin naturalmente queste cose le sa, ma ha trovato utile, ai fini della propria politica interna, trasformare la Nato in un nemico. Nel momento in cui ha perso un po’ di sostegno e il paese ha cominciato a ristagnare, il presidente russo ha cercato una compensazione, ripristinando l’impero russo all’estero”.

Il dibattito sulla guerra si è sviluppato su due piani, uno pratico e militare – gli obiettivi colpiti, la terra persa e riconquistata, le armi necessarie per contrastare l’avanzata russa – e l’altro ideale, lo scontro tra democrazie e autocrazie. Non sono due piani distinti: distinguerli anzi li svilisce entrambi perché il significato di questa aggressione, e quindi della difesa, sta nella brutalità contro le persone che diventa sovvertimento di un sistema che ha le persone al suo centro, la democrazia appunto. Nel catalogo delle cose della quotidianità distrutte e saccheggiate dai soldati russi, nei tostapane rubati, nei libri scolastici divelti, nei giocattoli mezzi bruciati (che con i loro colori sono così riconoscibili nello strazio grigio delle macerie), negli appartamenti distrutti e nelle auto carbonizzate sta la corsa degli ucraini verso ovest e sta la determinazione russa di ostacolare, reprimere, uccidere la voglia di vivere meglio, di permettersi un lusso un più, di compilare iscrizioni all’università in grandi città per i propri figli, di emanciparsi da uno stile di vita, quello russo, che è fatto di miseria e di povertà: la democrazia di qui, l’autoritarismo di là. Putin è brutale e soffoca tutto ciò che gli sembra pericoloso per la propria tenuta, considera il sacrificio umano come parte integrante della sua strategia di conquista, ma ha anche costruito un paese che ha un reddito pro capite pari a quello della Bulgaria (che è tra i paesi più poveri dell’Unione europea), un pil nazionale pari a quello della Spagna (pur avendo tre volte i suoi abitanti e trentatré volte la sua superficie), con un livello di diseguaglianza tra ricchi e poveri da far impallidire i nostri cantori dei danni del capitalismo, del liberalismo, della globalizzazione. Senza andare a vedere come va il rispetto dei diritti delle persone in Russia (malissimo, lo sappiamo), basterebbero questi pochi elementi per capire che il sistema autocratico è un sistema fallito e che il sistema ucraino, in transizione e con tutti gli acciacchi che ne vengono, era e sarà destinato a maggiore successo (faremmo anche bene a ricordarci, puntualizza la Applebaum, che “al momento Putin ha abbastanza soldi dai proventi di gas e petrolio da sostenere il suo esercito: concentriamoci su questo”). Il nichilismo feroce di Putin si ritrova nella smania dei suoi soldati di portare a casa alla mamma una camicia da notte con i fiorellini, nel fatto che questi soldati sono disposti a sparare come cecchini a persone in bicicletta per portarsi via ciò che avevano nel sacchetto della spesa: quel che non si può avere si ruba, si saccheggia e si distrugge, che sia un frullatore o l’intollerabile successo dell’Ucraina. Lo abbiamo visto in modo nitido nella seconda parte di quest’anno di guerra, nel violentissimo inverno, quando la strategia russa si è concentrata sugli attacchi aerei indiscriminati. “Oh God”: è necessario non ridursi a pensare che una rete elettrica colpita dai russi vale un’altra, che un palazzo schiantato da un missile russo è uguale a mille altri palazzi schiantati prima e dopo, che una bomba russa caduta su un trattore sia meno grave di una bomba russa su un passeggino. L’obiettivo finale è preciso e a suo modo chirurgico: rendere l’Ucraina invivibile, far passare agli ucraini la voglia di viverci e di vivere, quindi costringerli ad arrendersi. “Putin non ha rinunciato affatto al suo obiettivo originario – dice Applebaum – Vuole arrivare a Kyiv, conquistare il paese”.

Vale tutto, come per le torture, gli stupri, le esecuzioni: Mariupol, la città martire che rappresenta una delle poche ma grandi conquiste di Putin, è qui a dimostrarlo. La città è stata bombardata, svuotata, assediata, affamata, infine piegata e ora utilizzata come poster della “liberazione” russa, con i filmati di una finta ricostruzione: Mariupol ci ricorda ogni giorno, con il silenzio di una terra che restituisce cadaveri mai identificati, che cosa accadrà al resto dell’Ucraina se dovesse smettere di difendersi da un attacco che Putin potrebbe fermare in qualsiasi momento, ma non lo fa. “C’è soltanto un modo in cui questa guerra può finire – dice Applebaum – e con ‘finire’ intendo finire per sempre, non soltanto per pochi mesi: il regime russo deve capire che l’invasione è stata un errore. Proprio come gli inglesi in Irlanda all’inizio del XX secolo o i francesi in Algeria, il Cremlino deve arrivare alla conclusione che l’espansione imperiale è disastrosa, non soltanto per gli ucraini e i loro vicini, ma pure per sé stesso. Qualsiasi altra soluzione, un cessate il fuoco temporaneo, o un accordo per la cessione di territori, comporta il rischio che la guerra continui o riprenda in seguito, che i russi aspettino qualche mese o qualche anno e poi ricomincino l’invasione. E, naturalmente, il governo russo continuerà ad arrestare e uccidere ucraini nei territori occupati, la resistenza andrà avanti in quei territori, e la gente continuerà a morire”. Se si sottrae dall’equazione della guerra il suo costo umano, non si comprende più perché questa è una battaglia esistenziale – la sopravvivenza quotidiana, e poi la sopravvivenza di un modello o di un sistema.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT