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Il Foglio Rassegna Stampa
03.07.2022 L’antiamericanismo italiano viene da lontano
Analisi di Michele Masneri

Testata: Il Foglio
Data: 03 luglio 2022
Pagina: 1
Autore: Michele Masneri
Titolo: «L'America è sempre l'America»

Riprendiamo dal FOGLIO a pag. I, con il titolo "L'America è sempre l'America" il commento di Michele Masneri.

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Michele Masneri

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Hai visto la Corte Suprema, eh eh”. “Hanno svelato la loro vera faccia, col divieto all’aborto!”. “Hai visto Trump che minaccia un agente dei servizi segreti, ah ah”. “San Francisco? Piena di homeless!”. “La Silicon Valley? Finita!”. “Hanno gettato la maschera!”. “Il sogno americano era tutto finto! Lo dicevo io”. In un ideale dizionario di luoghi comuni aggiornato al 2022, il frasario antiamericano oggi è tornato di massima moda. Sparatorie di massa nelle scuole, Corte Suprema nazi, e naturalmente lei, sempre lei, la cancel culture! L’America è condannata, è finita! Quanto ci dispiace, dicono, con l’espressione degli esaminatori nel film “I complessi”: “Mi dispiace, caro candidato!”. E come no. L’idillio antiamericano trionfa in ogni strato sociale, come libero di vagare, e basta spingersi un po’ più in là, titillare gli interlocutori, ed ecco. A una cena il padrone di casa pensoso ti dice: quella in Ucraina è una guerra per procura, del resto “leggo sempre Limes”, pronunciato però come i piccoli agrumi, Laims (un giorno bisognerà approfondire il magico mondo di Laims, uguale, anche per grafiche, agli anni Novanta, con le cartine staccabili). Laims, laims. Detto col sorriso sulle labbra. Il sentimento è pervasivo. Dopo un po’ ti convinci pure tu. In un recente viaggio a New York, dopo gli anni della chiusa covidica, come aruspici si cerca di decifrare: a Central Park molti topi, ci son sempre stati o è la nuova America da odiare? All’immigration, croce di ogni arrivo, i rocciosi guardiani di frontiera sembrano oggi storditi, irromaniti, hanno perso quella loro ferocia, sfogliano il passaporto con pigrizia: vadi, dottò. Sarà la voglia della big resignation? La città: sporca, vitale, sempre lei. Forse un po’ impazziti i prezzi, 54 dollari la colazione in albergo, 40 un drink. Ma come dice Draghi lì c’è inflazione ma anche il pieno impiego. Lì un ventenne guadagna anche 200k, cappa, come dicono in milanenglish, l’anno. Ma l’antiamericano collettivo: sì, duecento cappa, ma tu ci vivresti mai? Indebitato tutta la vita per l’università! Non è vita quella! Meglio il fuoricorso perenne italiano, nell’ateneo a chilometro zero, con i milleduecento euro a partita iva come target esistenziale. L’antiamericanismo vive la sua estate d’oro. Con tante contraddizioni poi, perché l’amico mai sospettato di antioccidentalismo, quello che finalmente ostenta Laims, dice che certo Draghi combatte una guerra per procura, che Biden è un rimbambito (“rim-bam-biden”, ah ah ah). Per non litigare, perché abbiamo ormai imparato che a cena è come sui social, non bisogna mai più dire quello che pensiamo, ribattiamo: e dove vai in vacanza quest’estate, e che stai facendo? (per cambiare discorso). E lì, da Laims si scivola in lunghe discussioni su serie Netflix e vacanze in California (tutti in California, quest’estate). Ma come, perché non una bella serie bielorussa, e una villeggiatura nel Donbas? L’antiamericanismo italiano del resto è leggenda, è un sentimento schizofrenico che alligna in tutti gli strati sociali, a destra come a sinistra, mai sopito – durante i giorni più duri del Covid: ah, adesso arrivano i russi! Evviva! Dalla Russia con amore. Arriva il vaccino cubano! Sentito dire dai vecchi cugini di Rifondazione comunista che da vent’anni non avevano il coraggio di dichiarare il loro “yankee go home”. L’antiamericanismo fa sentire giovani. Umberto Eco sosteneva che l’antiamericanismo italiano nasce negli anni Trenta, quando il fascismo comincia a detestare gli Stati Uniti. Ma prima, c’eravamo molto amati, a vicenda: anche il termine “americanata” – tornato di moda in questi due anni, a denotare generalmente cose di cattivo gusto, cafone, era in realtà il titolo di una rubrica della Domenica del Corriere che riportava in chiave entusiastica good news provenienti da quel lontano paese. L’ascesa di Mussolini nel 1922 era poi stata accolta favorevolmente dalle autorità americane, che vedevano nel Duce un argine al disordine europeo (anche perché l’alternativa era il comunismo). E i giornali italiani erano interessati a quel nuovo grande paese. Gli aiuti arrivati dopo la Prima guerra mondiale poi non guastano. Ma dopo arriva l’asse Roma-Berlino, e le leggi razziali, e gli americani si stufano velocemente, e viceversa. Cambia quindi tutto: l’America che andava benissimo improvvisamente non va più bene. Non più popolo dell’avvenire, America uguale alienazione. Di nuovo cambia tutto nel Dopoguerra: piano Marshall e chewing gum: torna l’amore. Relazione complicata, insomma, sintetizzata dal solito Arbasino: “l’America l’è amara finché vige il Fascio, la diventa buonissima solo quand’è arrivato il generale Clark e si sono perse anche le mutande grazie al Duce. Poi però Togliatti fa paura, e allora si ricomincia: l’è amara, non l’è amara, e se non la sarà amara, chissà mai cosa sarà”. Forse l’antiamericanismo è il nuovo cibo, è bello parlarne ma poi non si odia veramente l’America (si sa che negli ultimi anni sono aumentati esponenzialmente i libri e i programmi e gli Instagram sul cibo, ma poi le persone cucinano e mangiano sempre meno, lo ha scoperto Michael Pollan di Berkeley, non un esperto della Ekaterinburg University). Ma non se ne esce: siamo sempre all’americano a Roma, maccherone tu m’hai provocato, amore e odio. Laims e camicie di Brooks Brothers e sopra felpe “Stanford” o “Kale” con la grafica di Yale, perché anche a tavola, l’invasione di avocado e cavolo nero da noi è derivazione di qualcosa già successo cinque anni fa in America (ma su questo, poche proteste). Di sicuro gli italiani sull’America han sempre fatto delle grandi proiezioni, e si sa che proiettando si odia e si ama sempre nella maniera sbagliata. Il liberismo, per esempio, fenomeno mai arrivato qui da noi ma che leggendo i giornali o guardando la televisione pare pervasivo e protagonista. Soprattutto nella versione “neo”: “L’esecutivo Draghi è neoliberista, non è il governo della società” (titolo del Manifesto, 10 luglio 2021). Il liberismo: nel paese del superbonus, nel paese in cui Leonardo Del Vecchio viene criticato perché, ebbene sì, aveva uno yacht e un aereo privato (in Italia va bene Vacchi, ma Del Vecchio no, del resto è sempre così, i soldi son tollerati solo se ereditati. Se si fanno in proprio, è un’americanata, appunto). Oppure, si scimmiotta: si pensa d’essere in Silicon Valley con la “Netflix italiana”, “It’sArt”, lanciata in gran pompa l’anno scorso e oggi – chi l’avrebbe mai detto – tecnicamente fallita, con 7,5 milioni di euro di perdite (ovviamente tutto a trazione statale). Confusione, e ancora proiezioni. Così oggi si considerano “qui” e “ora” fenomeni invece lontanissimi, prima fra tutte la vituperata cancel culture. Sì, proprio lei, signora mia, questa idra a molte teste che tiene svegli i polemisti e i partigiani nostrani terrorizzati dal gender, che negli Stati Uniti alligna da trent’anni e sta oggi vivendo una sua fase impazzita-terminale. “Il Politicamente Corretto, cioè il conformismo più tipico del nostro tempo (targa ‘P.C.’ o ‘pc’, dunque da non confondere col vecchio partito comunista nostrano o col personal computer), spunta anni addietro nelle più intolleranti e pedanti università americane di provincia, come ripresa di bigottismi e tabù intransigenti dopo l’apparente epifania ‘liberatoria’ o ‘rivoluzionaria’ dei meno puritani anni Sessanta”, scriveva Arbasino nel 1998. Ere geologiche fa. E “La macchia umana” di Philip Roth, storia di un professore “cancellato” per una parola sbagliata, è del 2000. Del resto si apprende che gli Usa sono ormai nella terza fase della cancel culture. “La prima èra del politicamente corretto si era conclusa nel 1995, quando un tribunale decretò incostituzionale, ai sensi del Primo emendamento, il codice di linguaggio adottato dall’università di Stanford, che proibiva qualsiasi discorso o espressione tesi a insultare o stigmatizzare un individuo sulla base della sua appartenenza a un dato gruppo, una definizione così vaga che poteva applicarsi all’intera razza umana”. Lo si legge nell’interessante saggio appena uscito per Laterza “Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana”, di Costanza Rizzacasa d’Orsogna. Poi ci fu un periodo di mezzo, terminato nel 2014 quando esce un libro intitolato “Trigger Happy”, che denunciava la proliferazione nei campus dei cosiddetti trigger warning, cioè le avvertenze per contenuti che avrebbero potuto urtare la sensibilità degli utenti. Oggi, nella terza fase, la cancel culture esplode, è quella che siamo abituati a sentire denunciata coraggiosamente sui giornali italiani: statue abbattute, #Metoo scatenati, la cultura della protezione eccessiva (safetyism) in voga nelle università, i casi più eclatanti di cancellazione da atenei e giornali: come l’antropologo dell’Università della Pennsylvania Robert Schuyler, costretto al pensionamento nel 2021 per aver risposto con un sarcastico saluto nazista dopo che era stato zittito durante una riunione. Il suo gesto venne definito “abominevole”. Il giornale studentesco dovette precisare che Schuyler non era un simpatizzante nazista (da lì la serie Netflix “The Chair”). E poi la giovane giornalista Alexi McCammond, nominata direttrice di Teen Vogue, che viene “cancellata” quando vengono rilasciati suoi vecchissimi tweet omofobi e razzisti di quando era ancora adolescente. E i Brt, che non sono titoli tossici ma “Bias Response Teams”, commissioni che, volendo sradicare i pregiudizi, permettono a chiunque di presentare un esposto all’università, spesso in modo anonimo. Al 2016 quasi il 40 per cento dei college statunitensi si era dotato di un Brt, scrive Rizzacasa. Insomma un inferno davanti al quale ognuno di noi vorrebbe imbracciare immediatamente le armi. Solo che tutto questo non sta veramente accadendo da noi. Questa è la vera guerra per procura: ogni giorno in Italia un intellettuale si alza, indossa l’elmetto su Twitter e si prepara a sganciare armi balistiche contro la cancel culture la cui gittata però non raggiunge il territorio americano. Ogni giorno un docente universitario imbraccia l’Ak-47 e spara contro il pensiero unico percepito (ma poi quando troveranno il tempo per insegnare?). Si evoca Bari Weiss, giornalista cancellata dal New York Times perché scorretta, ma a Bari saremmo seriamente preoccupati che se non ti allinei alla schwa potrai essere licenziato dalla Gazzetta del Mezzogiorno? In Italia, si sbaglierà, ma i prestigiosi quotidiani sono piuttosto interessati a scivoli salariali con l’Inpgi e la Casagit. Ma niente: il valoroso intellettuale italiano è pronto a correre in difesa dei valorosi epurati dal politicamente corretto americano; senza pensare che quelli apriranno poi startup e newsletter e guadagneranno milioni mentre in Italia prima d’essere licenziato per un tweet il difficile è più che altro venire assunti. E nell’ateneo “woke” italiano dove il gender si è fermato a Eboli o un po’ più su, e l’esistenza di una “campus left” presupporrebbe l’esistenza di campus, mentre da noi si studia soprattutto non lontano da mammà, si evoca lo spettro americano, l’ateneo molto progressista del Connecticut dove aboliranno Raffaello per studiare artisti albini almeno trans, e non potrai magari ambire a fare una certa carriera se maschio bianco cisgender. Qui però è più probabile che il rettore bianco ed eterosessuale che sta lì in quanto figlio e nipote e bisnipote di rettore bianco ed eterosessuale si lamenterà – maledetto p.c. – perché le nuove norme morali gli impediscono di palpare la dottoranda come si fa da tempi immemori. E il famigerato Metoo? Devastante in America, da noi è l’unico settore in cui la giustizia è dichiaratamente, splendidamente garantista. Registi accusati e scagionati in poche settimane, le loro carriere non appassiscono, decollano. Fausto Brizzi, accusato, scagionato repentinamente, rinato a nuova vita e carriera. Con tante scuse. Però i registi italiani lanciano lo stesso l’allarme: con queste regole, non si potrà più fare il grande cinema! Muccino, già accusato di corcare la moglie: “Il politicamente corretto è nemico di una visione illuminata, provocatrice, rivoluzionaria e creatrice di movimento nell’animo umano. Il politicamente corretto annichilerà la sete di vita fondamentale al progresso”. L’Italia è il paese in cui il Metoo viene a morire (copyright Selma Dell’Olio). E però, perché non sfruttare anche questo differenziale di sensibilità per rilanciare Cinecittà come paradiso legale e morale per star estere cancellate e in via di cancellazione? Una nuova Hollywood sul Tevere, in attesa di giudizio. E la distruzione di monumenti per riletture storiche frettolose? Ma basta girare per Roma per trovare aquile e fasci di combattimento ovunque, su tombini, ponti, statue, lì abbandonati per sciatteria, non rivendicazione (sciatteria come baluardo democratico?). Lo diceva già Alberto Sordi, sempre lui, nel leggendario episodio del Malconcio nei “Nuovi mostri”. Ci vediamo sotto il “monumento a Mussolini”, intendendo Mazzini. Lo cancelleremo? Ma no, bisogna andare da mammà. Insomma, proiezioni, equivoci, confondimenti. Così, i più strenui antiabortisti, generalmente antiamericani, ora esaltati: avete visto! L’America non è la terra delle libertà che pensavate! Entusiasti (ma quindi non vi piaceva prima? O non vi piace adesso? Però continuano ad andarci, sia prima che dopo). Comunque, mentre gli Stati Uniti affrontano la loro più grande crisi forse dalla nascita della nazione, l’Italia sta ferma. Si fa il solito esempio taxi/Uber: gli amici americani, quando arrivano a Roma, dicono generalmente: ah, che bravi, avete già abolito Uber e siete tornati ai vecchi taxi. Vagli a spiegare che no, Uber non è mai arrivata. Amico americano, fa troppo caldo per fare la rivoluzione, così siamo passati direttamente alla reazione. Basta col “pink washing” (ma non abbiamo nemmeno cominciato!). Basta coi pride aziendali (la regione Lombardia nega il Pirellone). Qualcuno dice: avvertiamo Letta, guardate cosa succede con la cancel culture! (Di nuovo, confusione tra qui e là). Basta col pensiero unico! Siamo al “politicamente scorretto”, saltando le spiacevoli discussioni, in un paese peraltro famoso perché da sempre si dice “la qualunque” su qualunque media. E dunque: governatrici di regione che cantano faccetta nera, e frocio va bene, dipende dall’intonazione; negro e scimmia alla bisogna, e “i miei filippini”. Anche tutto un indotto, a destra come a sinistra, un posizionamento, questa cancel culture è meglio di un bonus facciate. Opinionisti ed elzeviristi bolliti che ritornano sulla cresta dell’onda dopo anni di crisi creativa. Posizionamenti, nella generale immobilità. Come sempre, per non sottostare alle opposte stupiderie, bisognerà stare nel mezzo, cioè laterali, in Italia? Nel frattempo l’America sta là, maledetto paese. “Avete visto le sparatorie, eh!”, tutti contenti (ma poi, sarebbe interessante un conteggio comparato: ci saranno più infanti sterminati nei famigerati licei americani o nelle belle famiglie naturali italiane, tra mamme impazzite e papà che scapocciano?). Il Corriere intanto lanciando il nuovo libro di Rampini: “America”: “patria della libertà o impero del male?”. Nel dubbio, tutti pronti per le vacanze in California.

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