venerdi 29 marzo 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
28.12.2021 Fuga dall'Afghanistan
Commento di Cristina Giudici

Testata: Il Foglio
Data: 28 dicembre 2021
Pagina: 1
Autore: Cristina Giudici
Titolo: «Fuga dall'Afghanistan»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 28/12/2021, a pag. I, con il titolo "Fuga dall'Afghanistan", l'analisi di Cristina Giudici.

Immagine correlata
Cristina Giudici

Atefa Ghafoory - Atefa Ghafoory updated their profile picture. | Facebook
Atefa Ghafoory

E’ un cerchio che non si chiude mai, la pena di Atefa Ghafoory, nata sotto il primo regime talebano e messa in salvo dopo il ritorno al potere dei talebani grazie a un intervento congiunto della Farnesina e del ministro Luigi Di Maio, grazie alla tenace insistenza dell'eurodeputata del Pd Alessandra Moretti, grazie all'organizzazione internazionale per le migrazioni Iom e alla fine anche grazie al governo svedese, poco prima di Natale. E' un cerchio che non si chiude mai, una storia troppo grande per una donna di trentuno anni, cresciuta in estrema povertà e diventata una delle prime giornaliste laureate della terza città dell'Afghanistan, Herat - dove c'è stata la base militare italiana fino al giorno in cui è stata ammainata la bandiera, l'8 giugno scorso, e dove Atefa aveva portato un gruppo di donne per una performance artistica che rappresentava un altro metro conquistato contro i talebani. Ed è un cerchio che è sembrato non chiudersi mai l'incontro del Foglio con Atefa Ghafoory, arrivata a Bruxelles per raccontarci in esclusiva una storia dura ed eroica. L'abbiamo incontrata al Parlamento europeo dove è arrivata con la sorella Shagofah, che ha ventuno anni ed è nata quando l'Afghanistan stava per essere liberato e trasferitasi a lavorare a Bruxelles per un think tank prima del collasso di questa estate. Ed è grazie all'inglese fluente della sorella minore che Atefa ha potuto raccontare con fatica e angosciosa urgenza cosa le è successo e che cosa dovrebbe succedere per far riemergere l'Afghanistan dalle tenebre del fondamentalismo. Prima di raccontare la sua storia, Atefa Ghafoory - che è di etnia tagika - chiede se può esprimersi in persiano perché in inglese non riesce a esprimere le proprie emozioni. Si mette e si toglie il velo con esitazione mentre parla perché non sa ancora cosa fare della sua libertà, dopo una vita Quando decise di fare la giornalista, i parenti e molti abitanti di Herat pensarono che fosse un disonore per tutti Ci dice tre modi per cercare di aiutare gli afghani rimasti. Molto passa per l'istruzione, eludendo i controlli di battaglie e di condizionamenti. Shagofah traduce le parole della sorella maggiore che suonano talvolta dure e talvolta come un sospiro sommesso mentre anche lei scopre, parola dopo parola, fino a che punto si è spinta la sorella maggiore per la quale ha lanciato l'sos. La fuga di Atefa è durata oltre tre mesi, ha cambiato cinquanta rifugi, finché l'Italia ha dato a lei e alla sua famiglia un visto per il Pakistan e poi, come sta accadendo per altri profughi ricercati dai talebani, è arrivata discretamente in Europa dove la famiglia è stata smistata nel nostro paese, in Belgio e in Svezia. Dopo la caotica evacuazione di agosto, non è stato possibile creare una strategia per aiutare tutti gli attivisti o collaboratori della coalizione internazionale e oggi la loro unica speranza è quella di finire nella lista di qualche governo e arrivare senza farsi notare dai paesi limitrofi.

A Bruxelles lei è venuta grazie a un altro sostegno esterno, quello dell'imprenditrice veneta Francesca Masiero che si è fatta carico dei costi dei suoi trasferimenti in Europa. Ad ascoltarla, - lei che è stata pluripremiata per i suoi reportage nell'Afghanistan di mezzo, cresciuto storto ma libero sotto la sorveglianza della coalizione internazionale - si tocca in modo palpabile la sua angoscia, in ogni parola seguita da un sospiro o dal silenzio. Prima di riordinare i tasselli della propria vita, Atefa ci tiene a precisare cosa si dovrebbe fare per il suo paese che si sta sgretolando: "Non possiamo riconoscere i talebani né sostenere il loro governo", afferma perentoria. "Il mio popolo sta morendo di fame e di analfabetismo. I miei amici e colleghi sono ancora nascosti, costretti a cambiare casa ogni settimana. Le esecuzioni avvengono in continuazione lontano dai riflettori dei media controllati dai talebani e le mie amiche meno note che non sono sulla lista di proscrizione dei talebani restano segregate in casa, schiacciate da turbe psichiatriche o depresse. Il governo talebano e la sua ideologia non devono essere riconosciuti dalla comunità internazionale. I talebani prendono le impronte digitali, uccidono segretamente tutti quelli che si oppongono o si sono esposti durante il governo precedente. E senza testimoni. L'occidente può solo aiutare le piccole organizzazioni umanitarie che discretamente possono crescere e far germogliare il seme della libertà". Dopo questa premessa, Atefa si ferma, sospira, e aggiunge: "Non possiamo dimenticarci di loro, non possiamo restare con le mani in mano. Questo è l'unico appello che posso mandare a tutti con la mia presenza in Europa. Dobbiamo indebolire il potere dei talebani, finanziando direttamente tutte le realtà umanitarie che possono operare, dobbiamo creare le condizioni per una nuova rivoluzione". La sua storia non può che iniziare dalla fine, quando i talebani hanno cominciato a cercarla, devastato la sua casa, picchiato il padre, ammazzato lo zio. Lei che dirigeva il comitato femminile nella parte occidentale del paese dell'Ajsc, l'Afghan Journalists Safety Committee, ha prima cercato di salvare le 60 donne che ne facevano parte e ancora non ha capito perché le hanno chiesto di restare fino all'ultimo, il 14 di agosto, perché le hanno promesso che sarebbero venuti a prenderla con un elicottero. Invece è andata così: da sola si è mescolata al flusso dei prigionieri rilasciati dalle carceri di Herat e, urlando Allah è grande per mimetizzarsi con gli ex detenuti, ha cercato rifugio in un hotel che non le ha aperto le porte. "Ho gridato che mi avrebbero ucciso ma non mi hanno aperto", ci ha detto con un filo di voce. Terrorizzata, è andata a Kabul, dove ha scoperto anche lei con sconcerto che l'intero paese era collassato. Ci è arrivata a bordo di un autobus che è stato fermato 22 volte ai checkpoint, dove suo marito, giornalista come lei, è stato preso dai talebani e picchiato perché volevano capire chi fosse. "Lui parlava farsi, loro pashtun, non si capivano e lo insultavano, gli chiedevano perché avesse una moglie che aveva studiato. Io piangevo, chiedevo agli anziani presenti sull'autobus di intercedere per me, di aiutarmi a salvare mio marito e alla fine lo hanno lasciato andare", ricorda Atefa mentre sua sorella traduce, attonita. Poi per tre mesi ha vagato per diverse città ed è finita in un rifugio gestito dai talebani nella città di Mazar-i Sharif, "dove i soldati prendevano i soldi dagli americani per portare in salvo le persone in aeroporto e invece le facevano sparire. Non posso provarlo ma è successo a fine settembre", afferma. E così è scappata di nuovo a Kabul, il figlio di cinque anni in braccio, stretta e costretta dentro un terrore che non pensava di dover rivivere. Perché Atefa aveva l'età di suo figlio quando la sua famiglia è scappata in Iran fuggendo dal regime talebano. Ne aveva sette quando, rientrata in Afghanistan, sua madre ha deciso di rischiare e mandarla in una scuola segreta per permetterle di imparare a leggere e scrivere.

Dopo che nella moschea l'imam l'aveva frustata per un capello ribelle sfuggito allo chador. E ne aveva otto quando superava i checkpoint dei talebani prima maniera con i libri nascosti sotto il burqa. Ne aveva poco di più di otto, quando i talebani volevano comprarla per darla in sposa a uno dei miliziani, costringendo i genitori a cambiare casa per difenderla. "Il giorno in cui è caduto il primo regime talebano, siamo venuti a saperlo da una piccola radio che avevamo in casa anche se la radio era proibita. Ho avuto un'infanzia molto triste, ma una famiglia straordinaria. Mia madre è stata un'eroina. Un esempio di coraggio che ho dovuto e voluto imitare. Quello che sono diventata, tutto quello che ho fatto, lo devo a lei. Più volte sono venuti a casa nostra per cercare di comprarmi, ma i miei genitori mi hanno sempre protetto". "Il suo incarnato chiaro e le sue curve formose la rendevano appetibile", interviene la sorella che durante il colloquio sorride sempre anche quando si intuisce che il cuore sta piangendo. E questo piccolo aneddoto è l'unico momento di spensieratezza che le due sorelle si concedono al Parlamento europeo, nell'ufficio di Alessandra Moretti, l'europarlamentare che dal 15 agosto ha salvato 30 persone e continua a ricevere richieste di aiuto perché sono tante le persone a rischio intrappolate in Afghanistan. Shagofah ha contattato l'europarlamentare del Pd per strappare la sorella all'inferno talebano. In Afghanistan è rimasta solo la sorella minore di 15 anni. "Vivevamo in una tenda e ora in famiglia abbiamo quattro giornalisti e tre economisti, compresa mia madre che ha cominciato a studiare quando sono arrivate le Nazioni Unite a Herat e lei si è offerta per alfabetizzare ragazze e donne adulte. Andava anche nelle case delle persone per convincere le famiglie a non far sposare le figlie minorenni, a impedire i matrimoni forzati", racconta Shagofah. Atefa Ghafoory è stata fra le prime donne a laurearsi in giornalismo a Herat e, fino a quando ha potuto, ha cercato di fare come sua madre per far crescere nuove generazioni di donne emancipate dal fondamentalismo. "Quando mia madre ha cominciato a lavorare con le Nazioni Unite, abbiamo potuto comprare un pezzo di terra e una casa: ogni sera aggiungevamo un mattone. Quando ho deciso di coronare il mio sogno e studiare per diventare giornalista, però, sono arrivati tutti i miei parenti e davanti a casa nostra è successo il finimondo perché li stavamo disonorando; perché una donna che fa la giornalista è come una prostituta che parla con gli uomini. Volevano darci soldi per convincermi a non studiare giornalismo. E non erano talebani: solo normali cittadini afghani di Herat", spiega Atefa per farci comprendere l'arretratezza culturale oltre che la deriva religiosa della sua città. "Ho girato cinque province, ho raccontato le storie di donne vittime della violenza. Ho raccontato il dramma di una donna a cui il marito aveva tagliato il naso e le orecchie e poi si è arruolato con i talebani. Ho suscitato scandalo con la mia telecamera: le persone si avvicinavano curiose e furiose, qualcuno voleva spegnerla, qualcuno mi colpiva: la società a Herat non era pronta per accettare che una donna potesse diventare una giornalista ma non ho mai mollato". Atefa è arrivata terza a un importante premio della Federazione afghana dei giornalisti, ma è stata la prima donna a ottenerlo. I talebani la conoscono per essersi esposta sempre con il suo volto in televisione, sull'emittente 1Tv. La lista delle sue denunce giornalistiche, delle sue attività di formazione delle donne e di difesa della libertà di stampa è sterminata. Come per quel video, girato nei pressi di Herat, che risale alla fine del 2020 e che mostra una donna che si contorce mentre la frustano per aver commesso adulterio. Atefa denuncia la presenza dei tribunali talebani, nonostante fossero stati banditi. "In molte parti dell'Afghanistan lo stato era inesistente, non c'era un tribunale a cui rivolgersi per sporgere denuncia. E anche quando c'erano i tribunali le procedure erano lunghe e costose, bisognava pagare mazzette per farle andare avanti. Sfortunatamente l'unica alternativa veloce e gratuita sono stati i tribunali talebani. Le persone trovavano così le soluzioni per i conflitti quotidiani e la sharia veniva già applicata", rammenta.

Atefa Ghafoory ha il cuore infranto perché non può più fare nulla per il suo popolo, per le donne rimaste in mezzo al guado, per le nuove generazioni. Perciò chiede, ci chiede di fare qualcosa, di non fermarci. Suggerisce cosa dovrebbe fare l'occidente per impedire che il suo paese sprofondi definitivamente e venga distrutto tutto quanto è stato costruito in vent'anni. Per Atefa Ghafoory ci sono tre gradi di intervento. A breve termine: "Affrontare l'emergenza con l'invio di generi alimentari, vestiti, medicine alle persone che vivono sotto la soglia di povertà. Queste donazioni e assistenza potrebbero essere distribuite direttamente alle persone attraverso le organizzazioni umanitarie e gli operatori sociali per evitare che la vendita di ragazze e bambini diventino la norma". A medio termine: "L'agevolazione dell'istruzione e della formazione per le ragazze e le donne che hanno perso il lavoro. La conduzione di programmi educativi di medio termine può spianare la strada affinché le donne che costituiscono il 50 per cento della popolazione non vengano private dell'istruzione. Possiamo anche condurre programmi di psicoterapia in modo da ridurre le pressioni psicologiche che le ragazze stanno soffrendo. A causa della presenza dei talebani, non ci sono statistiche sul numero dei suicidi molto frequenti in ogni angolo del paese". A lungo termine: "L'istruzione superiore e l'offerta di borse di studio in diversi paesi possono mantenere attivo il ciclo dell'istruzione. L'apprendimento a breve termine potrebbe essere condotto da piccoli gruppi di insegnanti per eludere la sorveglianza dei talebani. Oppure si potrebbero condurre corsi di formazione online, aiutando le donne ad avere Internet. A Herat le persone istruite hanno lavorato instancabilmente per permettere alle ragazze di imparare nuove lingue, informatica e altre importanti materie necessarie. Ora la mia città è immersa in disordini, minacce, intimidazioni, repressioni e misteriosi omicidi. I centri di formazione rischiano di essere chiusi a causa delle forti restrizioni imposte dai talebani. Le autorità locali aumentano gradualmente le pressioni sui centri di formazione, inviando i loro membri dei servizi militari e di intelligence nelle classi per verificare se gli insegnanti maschi insegnino alle ragazze. Due giovani sono appena state decapitate e altre tre sono state rapite la settimana scorsa. Il mio appello è questo: io ho perso tutto e anche la possibilità di continuare ad aiutare il mio popolo, ma come fondatrice di tre importanti centri di apprendimento, chiedo al mondo di aiutare la prossima generazione afghana. Ascoltate la nostra voce e non lasciate gli afghani in balia dell'ideologia oscurantista". Poi, per farci capire fino a che punto si è spinta, conclude: "Prima della conquista dei talebani ho denunciato uno dei più popolari imam di Herat, il mullah Ansari, che ha cercato di creare un piccolo emirato, predicando contro il lavoro delle donne, soprattutto delle giornaliste. Anche per questo motivo rischio la vita in Afghanistan", afferma alla fine di una lunga giornata, quando prende suo figlio in braccio e resta silenziosa per un po', stretta e di nuovo ristretta nel suo dolore. Prima di congedarsi, si riscuote e chiede: "Quante persone potete ancora salvare? E cosa posso fare per rendermi utile e restituire quello che ci avete dato? I'll try my best. Farò del mio meglio", dice prima di un abbraccio, perché la sua pena, la sua vita, la sua storia sono un cerchio che non si chiude.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT