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Prima Rassegna Stampa
09.06.2015 La mia esperienza in Israele, il Paese dove i sogni si avverano
Alessandra Ravetta intervista Angelo Trocchia, presidente e Ad di Unilever

Testata: Prima
Data: 09 giugno 2015
Pagina: 42
Autore: Alessandra Ravetta
Titolo: «Lui ci crede»

Riprendiamo da PRIMA di maggio 2015, a pag. 42-44, con il titolo "Lui ci crede", la prima parte dell'intervista di Alessadra Ravetta a Angelo Trocchia, presidente e Ad di Unilever, che si riferisce alla sua esperienza israeliana.
Ne consigliamo la lettura completa, acquistando il mensile PRIMA in edicola.


Alessandra Ravetta

in copertina: Angelo Trocchia

A chi di noi non è capitato di addentare un cornetto Algida, lavarsi i denti con Mentadent, insaporire le pietanze con il dado Knorr e lavare i piatti con Svelto? Stiamo parlando di brand che si sono installati nella nostra vita quotidiana, nelle nostre abitudini, nel nostro lessico e nel nostro panorama visivo. Dietro a ognuna di queste marche c’è una multinazionale, la Unilever che fattura nel mondo più di cinquanta miliardi, che in Italia è presente con quattro stabilimenti - Caivano (Napoli), Sanguinetto (Verona), Casalpusterlengo (Lodi) e Pozzilli (Isernia) – e conta ben 3000 dipendenti. Che un’azienda di tali dimensioni, e in un momento così affannoso per il mercato, abbia deciso di lanciare nei mesi di aprile e maggio due nuovi prodotti – un detersivo per lavatrice che promette meraviglie e un dentifricio molto sofisticato – fa notizia.

Qualcuno penserà che stiamo esagerando. Che saranno mai un detersivo e un dentifricio al punto da celebrarne il lancio come un evento dell’economia! Forse un paio di numeretti che danno l’idea di cosa stiamo parlando: nel nostro Paese il 99,5% dei responsabili di acquisto compra almeno un prodotto Unilever nel corso dell’anno. E il consumatore Unilever si porta a casa, ogni anno, una media di 28,5 prodotti della casa madre. Si può dunque ben dire che i vertici del gruppo anglo-olandese hanno deciso di tornare ad investire in Italia convinti che sia un mercato da presidiare, avendo intercettato la brezza della ripresa e persuasi che restare immobili sarebbe un disastro.

La decisione comporta tra l’altro una conseguenza non proprio banale, ovverossia il mettere sul piatto della comunicazione milioni di euro, il che fa brillare di commozione e gratitudine gli occhi degli editori televisivi che di quella fetta ne trarranno più profitto di altri. Tra l’altro Algida ha fissato un proprio ruolo della grande commedia di Expo 2015 proponendosi come Official Ice Cream Partner. Ulteriore segnale della voglia di essere presenti su uno scenario così importante come quello appena inaugurato nel capoluogo lombardo.

A convincere Unilever della necessità di uscire dalla stasi e promuovere una rinnovata energia è stato Angelo Trocchia, presidente e ceo di Unilever Italia, manager appassionato del proprio lavoro che nei sancta sanctorum delle case madri di Londra e Rotterdam ha convinto essere cosa buona e santa riattivare l’inventiva industriale e aprire il portafoglio. Non che negli ultimi anni l’azienda avesse mollato o seguito stancamente i mercati del gelato, del personal care, delle pulizie della casa. Ma si trattava tran tran. E ad Angelo Trocchia il tran tran non piace. Cresciuto all’interno della multinazionale dove si è misurato sul fronte della produzione industriale, e del marketing, specializzato sulle linee di produzione dell’arcinoto Cornetto Algida, grande viaggiatore nelle steppe europee e nei deserti mediorientali per sistemare capisaldi di Unilever, Trocchia è un ostinato, persino feroce sostenitore della necessità di continuare a fare sviluppo. Con fare molto spiccio ma pensiero ragionato, intonazione familiare e competenza industriale, Trocchia è venuto a trovarci in redazione per spiegarci come e perché ha combattuto e continua a combattere la sua battaglia.

Alla meta della cinquantina, formiano di nascita, padre di famiglia e omone dal sorriso gentile e convincente, ci ha raccontato di sé, della sua idea di industria e del mondo che continua a percorrere avanti e indietro con quel tanto di insaziabilità che rende vive le persone e accende in chi lo ascolta un interesse vero.


Tel Aviv

Prima - La sua nomina a presidente e ceo di Unilever Italia risale al marzo 2013, dopo tre anni passati in Israele. Prima di parlare del mercato italiano, delle strategie dell’azienda che lei guida, mi tolga una curiosità: cosa significa fare il manager di una multinazionale in un contesto complesso come quello israeliano?
Angelo Trocchia - Israele è una di quelle realtà che per capirla devi viverla. Era la prima volta che andavo in Israele e non avevo la più pallida idea di cosa fosse la società ebraica. Per di più rappresentavo un’azienda di dimensioni notevoli, la quarta a livello nazionale, il che costituisce una responsabilità non da poco. Tra le cose che mi hanno più colpito arrivando a Tel Aviv, è stato rendermi conto di quanto siano ossessionati dalla comunicazione.
Prima - In che senso ossessionati?
A. Trocchia - In Israele la comunicazione è tutto. Gli israeliani sono sempre connessi a Internet, seguono i notiziari radio e i telegiornali e con l’informazione hanno un rapporto di una trasparenza a noi sconosciuta. Le faccio un esempio. Poco prima che inizi il fine settimana, che per loro comincia il venerdì sera, fui raggiunto da una telefonata che mi avvertiva che in una nostra fabbrica di gelati del nord del Paese si era verificata una fuga di ammoniaca. Dopo nemmeno mezzora la notizia era su tutti i telegiornali. Questo per dire quanto siano veloci, trasparenti e – appunto – ossessionati dalla necessità di comunicare. Un altro elemento che mi ha molto colpito è che gli israeliani non si pongono limiti.
Prima - La fama di essere un popolo tosto è riconosciuta da tutti.
A. Trocchia - Il che vuol anche dire che fare business in Israele è assai faticoso: puoi passare un’intera serata per un euro in più o in meno, dentro una negoziazione dura, durissima ma affascinante. È un mondo in continuo movimento che non conosce la parola paura. Nei tre anni in cui sono vissuto lì è scoppiata una guerra durata dieci giorni con tanto di razzi che esplodevano a pochi chilometri da dove mi trovavo. Fui costretto a decidere la chiusura delle fabbriche del Sud, visto che da Gaza partivano 150 missili al giorno e uno era caduto a cinque chilometri da un nostro ufficio. La mia impressione forte è che si tratti di un sistema socio-economico adrenalinico, ipertecnologico, estremamente vitale. Se devo essere onesto, tutto questo mi manca un po’.
Prima - Uno degli asset del sistema economico israeliano è la vivacità delle start up, un territorio su cui noi italiani abbiamo appena cominciato a lavorare.
A. Trocchia - Uno dei loro segreti è che in quel sistema non c’è spazio per il concetto di fallimento, mentre da noi basta un errore per essere considerati dei falliti. Gli israeliani se cadono, si rialzano subito in piedi e ripartono. Lei diceva delle start up. Consideri che ogni cittadino israeliano, uomo o donna che sia, a diciotto anni è tenuto a prestare il servizio militare, i ragazzi per tre anni e le ragazze per due. Gli anni di naja sono una vera e propria scuola di tecnologia ed esperienza che formano persone altamente qualificate. Lo Stato offre un sostegno rilevante alle start up e i legami che si creano durante il periodo militare costituiscono un ulteriore elemento di coesione destinato a durare per tutta la vita. Quello israeliano è un popolo che si sente impegnato a costruire il proprio futuro.
Prima - Mi chiedo come facciano a coabitare genti di origini così diverse, provenienti dall’Europa dell’Est e dai Paesi arabi, dal Nord America e dalla Francia o dall’Inghilterra.
A. Trocchia - Che vi sia integrazione è fuor di dubbio, anche se è meno spinta di quanto si immagini. Per dire: i due milioni di ebrei provenienti dalla Russia e che vivono in Israele hanno canali televisivi e giornali in lingua russa. Ma questo non impedisce la coesistenza vera, il che è di per sé un fenomeno insolito e molto attraente. Tel Aviv, moderna e disinibita, è molto diversa da Gerusalemme, città religiosa più chiusa e osservante. Una a quaranta minuti di macchina dall’altra.
Prima - Come si comporta il consumatore israeliano?
A. Trocchia - Molto attento all’innovazione, condivide diverse caratteristiche di quello americano. Senza essere sprecone, grazie anche al fatto che le regole della cultura religiosa sono ben salde.
Prima - Non ha trovato difficile adattarsi a un sistema così lontano dal nostro?
A. Trocchia - Naturalmente ho dovuto rimettere l’orologio secondo il fuso orario. Ricordo di essere arrivato un 2 di dicembre e già il 4 una fabbrica aveva proclamato uno sciopero per motivi che riguardavano il contratto di lavoro. Convocai i sindacati e ci accordammo per una tregua di un paio di mesi, tempo appena sufficiente per permettermi di studiare il dossier e trovare possibili soluzioni. Il 23 dicembre partii per l’Italia per passare le feste di Natale con la mia famiglia, ma di nuovo scoppiò l’ira di iddio. Tornai indietro di corsa, mi misi al tavolo con i sindacati e alla fine trovammo un accordo. Capii di essere stato messo alla prova e che se avessi mollato avrei compromesso ogni possibilità di rapporto futuro.
Prima - Un’esperienza che da come ne parla le è piaciuta molto. Cosa l’ha spinta a tornare?
A. Trocchia - Nel gennaio del 2013 l’azienda mi parlò della possibilità di un rientro in Italia, dove peraltro viveva la mia famiglia, e a marzo mi fu comunicata la decisione. Da noi succede così, le scelte sono rapide quanto inaspettate.

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