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La Stampa Rassegna Stampa
24.05.2024 L’università come una moschea
Cronaca di Diego Molino

Testata: La Stampa
Data: 24 maggio 2024
Pagina: 35
Autore: Diego Molino
Titolo: «Preghiera in Ateneo. L'ira del rabbino capo: Come una moschea»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/05/2024, a pag. 35, con il titolo "Preghiera in Ateneo. L'ira del rabbino capo: Come una moschea" la cronaca di Diego Molino.

Preghiera islamica all'università di Torino, con sermone esplicitamente antisemita. Dalla comunità ebraica il primo commento sull'accaduto arriva dal rabbino capo Ariel Finzi: «Prendo atto che nella nostra città abbiamo una nuova moschea, in questo caso anche abusiva e collocata all'interno di un'istituzione statale laica, in cui si approfitta della preghiera per inneggiare alla violenza "in nome della pace"».

Un episodio che si doveva evitare perché non difende la laicità di un luogo come l'Università e che, secondo alcuni, può diventare addirittura un boomerang nelle proteste pro Palestina di queste settimane. È il pensiero più diffuso qualche giorno dopo la preghiera islamica nell'atrio di Palazzo Nuovo tenuta da Brahim Baya, fra i responsabili della moschea Taiba di via Chivasso. Un fatto che ha sollevato reazioni e polemiche nel mondo accademico, ma non solo. È l'ultimo capitolo di un'occupazione studentesca che da dieci giorni impedisce il regolare svolgimento delle lezioni, per chiedere di bloccare ogni tipo di collaborazione con le università israeliane.

Dalla comunità ebraica il primo commento sull'accaduto arriva dal rabbino capo Ariel Finzi: «Prendo atto che nella nostra città abbiamo una nuova moschea, in questo caso anche abusiva e collocata all'interno di un'istituzione statale laica, in cui si approfitta della preghiera per inneggiare alla violenza "in nome della pace" – dice –. Prendo anche atto che l'Università, dopo aver assunto una posizione politica contro la cultura cedendo alle pressioni sul boicottaggio delle università israeliane, oggi sostiene che la sede era occupata "dimenticando" di aver consentito l'occupazione». Dell'episodio della preghiera islamica a Palazzo Nuovo si è occupata anche la ministra dell'Università Anna Maria Bernini, che nelle ore successive all'accaduto ha voluto telefonare al rettore Stefano Geuna.

Una voce "contro" la preghiera in Ateneo è anche quella dello scrittore di origini irachene Younis Tawfik, che commenta: «Un fatto che secondo me non giova alla causa palestinese. Ci sono tanti modi per sostenere la causa palestinese come organizzare conferenze, dibattiti, serate di letteratura e poesia palestinese, ma pregare dentro l'Università può essere visto come una provocazione rispetto a tutti quanti, non solo ebrei, ma anche cristiani e laici. Mi chiedo quale servizio sia stato fatto al popolo palestinese in questo caso? Si rischia invece l'effetto boomerang». E anche l'utilizzo del termine jihad, durante la preghiera, secondo Tawfik è stato sbagliato perché «in Occidente suscita sentimenti di terrore e paura, rendendo difficile comprenderne il vero significato».

Dal mondo accademico esprime un pensiero analogo Bruno Maida del dipartimento di Studi Umanistici: «L'Università è un luogo laico e non si doveva fare, la preghiera è importante ma deve essere un momento individuale e privato – dice –. Mi sembra sia stato fatto un errore, ma non vorrei che diventasse una delle tante scuse per chiudere ancora di più il dialogo, che invece ha bisogno di essere tenuto aperto. Sulla difesa della laicità, però, siamo tutti d'accordo compresi gli studenti».

Una posizione diversa viene sostenuta invece da Idris Bergia, segretario generale del Coreis, la Comunità Religiosa Islamica Italiana: «Se qualcuno sente l'esigenza di pregare in qualsiasi luogo, compreso l'Ateneo, non vedo quale sia il problema – spiega –. Questo vale per i credenti di tutte le religioni e non soltanto per i musulmani, mi sembra un'opinione di buon senso. Basta che si faccia sempre tutto nel rispetto delle regole e senza creare scandali». Sull'uso del termine jihad durante la preghiera a Palazzo Nuovo, Bergia fa una precisazione: «Jihad in arabo significa sforzo e non si riferisce alla guerra, che invece è indicata con un altro termine – dice –. Il credente deve fare lo sforzo, jihad, per cercare di seguire la volontà di Dio a qualsiasi religione appartenga».

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