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La Stampa Rassegna Stampa
20.02.2003 Come un arabo vede il boicottaggio
E' estremamente pericoloso usare, come arma politica, il boicotaggio culturale

Testata: La Stampa
Data: 20 febbraio 2003
Pagina: 1
Autore: Khaled Fouad Allam
Titolo: «La politica non divida la cultura»
Riportiamo un articolo di Khaled Fouad Allam pubblicato su La Stampa giovedì 20 febbraio 2003 in prima pagina.
E' bene che anche dal mondo arabo si prenda posizione contro l'antisemitismo che si sta organizzando nelle università non solo italiane ma anche europee. Meglio ancora se Allam si fosse attenuto al tema del boicottaggio. Il suo articolo, condito com'è di affermazioni totalmente fuori luogo che niente hanno a che vedere con quanto è in discussione, ci lasciano un senso di amarezza. Se anche l'unica voce (finora) dal campo arabo deve criticare Israele per poter dire che una ingiustizia è avvenuta nei confronti dello stato ebraico, ci chiediamo fino a che punto si viva in una società dove, per poter difendere il buon diritto di Israele, di debba allo stesso tempo attaccarla.
Ecco il testo:

Mentre i bagliori che anticipano una nuova guerra irachena divampano nei mass media, il conflitto israelo-palestinese sembra passare in secondo piano, sebbene i due focolai siano tra loro connessi. Ma da un paio di mesi a questa parte in tutta Europa, nelle cartelle di posta elettronica dei docenti universitari, sta circolando una petizione che chiede il blocco di tutti gli accordi tra le università europee e quelle israeliane.

La polemica ha iniziato a divampare in Francia, nel dicembre scorso, quando il consiglio dell’Università di Parigi-VII ha votato una mozione di sostegno a questa raccolta di firme. Alcuni intellettuali, tra cui Bernard-Henri Lévy, hanno immediatamente reagito sottolineando i pericoli insiti in azioni di questo tipo, in primo luogo quello di avallare sentimenti antisemiti. Molti dei firmatari hanno replicato che non si trattava di antisemitismo, ma di mostrare un dissenso dalla politica di Ariel Sharon: non si sarebbe inteso contestare gli ebrei in quanto tali, bensì la linea del governo israeliano.

Questa petizione è arrivata recentemente anche in Italia, alcuni dei miei colleghi l’hanno già sottoscritta; se ne è parlato su vari quotidiani, e il presidente delle comunità ebraiche d’Italia, Amos Luzzatto, è intervenuto in proposito. Ma io, che sono arabo e musulmano, dissento totalmente da una strategia politica di questo tipo: non perché difendo Sharon e il suo governo, la sua politica che conduce alla catastrofe; ma perché considero estremamente pericoloso un tale uso della cultura a fini politici.

Innanzitutto, lo Stato che si vuole contestare non è un’entità astratta, ma è rappresentato da persone che da molti anni intrattengono rapporti con l’Europa su progetti di ricerca, e talvolta quegli stessi progetti permettono loro di costruire e mantenere rapporti con i colleghi palestinesi. Esistono diverse riviste universitarie israelo-palestinesi; l’anno scorso ne è stata presentata una all’università di Torino. In secondo luogo, che lo si voglia o no, questo boicottaggio della collaborazione culturale indica indirettamente come responsabili del disastro gli intellettuali e i docenti delle università israeliane.

In terzo luogo, questa prassi procede secondo me dalla stessa logica di chi ad esempio vuole impedire ai musulmani di avere dei luoghi di culto nei paesi europei perché i loro paesi non offrono in ciò reciprocità: mi chiedo in quale misura gli immigrati musulmani possano essere considerati responsabili degli atti dei loro governi e dei loro Stati di provenienza.

Infine, fatto ancora più grave, questo boicottaggio insidia direttamente e in profondità il nocciolo della cultura e tende ad incrementare ulteriormente la radicalizzazione del conflitto, trasferendolo anche in Occidente, erigendo delle frontiere simboliche fra gli ebrei e gli altri, i palestinesi e gli altri, gli arabi e gli altri; mentre il compito degli intellettuali - in Europa come in Medio Oriente - è quello di gettare ponti fra coloro che non possono varcare la linea delle frontiere comunitarie, identitarie, geografiche e mentali. Esattamente come avviene nel recente film di Elia Suleiman, i check-point sparsi sul territorio impediscono agli uomini di comunicare tra loro.

Alcuni mesi fa ho visto un documentario sui rapporti fra intellettuali palestinesi ed israeliani: due ornitologi, un israeliano e un palestinese, svolgevano parallelamente delle ricerche sugli uccelli migratori; avevano stabilito di incontrarsi in una certa data, ma nel giorno fissato il check-point era chiuso. Il palestinese rimase ad osservare gli uccelli che volavano in libertà. La cultura deve continuare ad essere un volo verso la libertà, se non vogliamo trasformarla in una sequenza di check-point.
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