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La Stampa Rassegna Stampa
09.05.2021 Abraham B. Yehoshua sempre più lontano dalla realtà
Lo intervista Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 09 maggio 2021
Pagina: 12
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Yehoshua e Israele: 'Polveriera in fiamme'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/05/2021, a pag.12, con il titolo "Yehoshua e Israele: 'Polveriera in fiamme' ", l'intervista di Francesca Paci.

Riportiamo per dovere di cronaca l'intervista di Francesca Paci a A.B. Yehoshua. Il grande narratore israeliano, per sua stessa ammissione, non segue più l'attualità in continua evoluzione del Medio Oriente. Ci chiediamo allora perché continui a parlare e scrivere di cose che non conosce, anziché limitarsi alla letteratura.

Ecco l'intervista:

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Francesca Paci

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Abraham B. Yehoshua

Dall'appartamento di Tel Aviv dove si è trasferito dopo la scomparsa della moglie per stare più vicino ai figli, lo scrittore Abraham B. Yehoshua riceve le notizie degli scontri di Gerusalemme come un'eco antica, la condanna di una città in cui anche nei cimiteri che attendono il giudizio universale si guerreggia per un metro di terra. In pochi giorni le scintille accese dal ricorso di alcune famiglie arabe minacciate di sfratto per le rivendicazioni di un gruppo della destra ebraica sono diventate fiamme. Il bilancio, per il momento, è di 200 palestinesi e 17 poliziotti israeliani feriti, ma la rabbia monta e si avvicina il redde rationem di domani, lunedì 10 maggio, il giorno in cui Israele celebra il cosiddetto "Jerusalem Day", la riunificazione con la parte est avvenuta in seguito alla sconfitta della Giordania nel 1967. Intorno c'è la palude in cui i palestinesi, lontani dalle urne dal 2006, vedono le elezioni rinviate ancora una volta dall'incerto presidente Abu Mazen e ci sono le ambizioni territoriali denunciate poco più di un anno fa dallo stesso Yehoshua che, invano, aveva chiesto all'Unione Europea di far desistere i propri connazionali dal piano di annessione di una parte della Cisgiordania. L'ultimo, dice, di una lunga serie. Allora non si fece nulla e oggi ne vediamo «le conseguenze a Sheikh Jarrah».

Ci spiega cosa sta succedendo a Gerusalemme e come si è arrivati ancora una volta sul bordo del precipizio? «Ci sono due questioni in questa vicenda, una prettamente storica e una politica. Dal punto di vista storico quelle case contese nel quartiere di Sheikh Jarrah sono abitate da famiglie arabe ma appartengono agli ebrei che le avevano acquistate molto tempo prima della nascita dello Stato d'Israele e della guerra dei sei giorni con la successiva divisione di Gerusalemme. Dal punto di vista politico invece, la prospettiva è ribaltata: nel '48 prima e nel '67 poi molti ebrei occuparono le dimore degli arabi in fuga e quelle dimore non sono mai state restituite. In alcuni casi, numericamente minori, accadde l'inverso. Mi chiedo però che senso abbia oggi andare a bussare con il contratto in mano a quelle porte gettando benzina sul fuoco di un conflitto mai spento. È una provocazione che sabota il già compromesso processo di pace».

Le forze di sicurezza israeliane denunciano il rischio di una escalation. Sta veramente per succedere di nuovo? «Temo anche io che la situazione possa precipitare, la tensione è alta, siamo alla fine del Ramadan, i fedeli alla Spianata delle moschee e gli altri al monte del tempio, Gerusalemme è una polveriera. Alla fine a dire l'ultima parola sarà la Corte, ritengo però un'ingiustizia che quelle quattro o cinque famiglie arabe debbano andarsene. È sbagliato ed è il modo attraverso cui gli ebrei stanno penetrando nei quartieri arabi anziché rispettare la divisione tra le due zone. Chi fa pressione sono i più estremisti, i coloni irriducibili al sogno della Grande Israele, e il governo dovrebbe dire loro che se per quasi un secolo nessuno ha rivendicato quelle proprietà è assurdo alzare la voce adesso».

Cosa fa il governo israeliano in questo momento, dopo aver celebrato il trasferimento dell'ambasciata americana nella Gerusalemme riconosciuta come capitale dello Stato d'Israele? «L'unificazione di Gerusalemme è un fatto grave e non andrebbe aggravato. Se il governo fosse ragionevole spingerebbe gli ebrei che hanno aspettato a rivendicare le loro case per più di 70 anni a fare un passo indietro, almeno fino a una soluzione complessiva. Invece no, il governo è fuori gioco. Il premier Bibi Netanyahu provoca a suo modo, come ha sempre fatto, ma almeno, in questo momento, con il presidente Rivlin che ha consegnato il mandato di formare il nuovo governo al leader dell'opposizione Lapid c'è la speranza di un cambiamento positivo, la prospettiva di un ritorno a una strategia di pace».

È rimasto ottimista anche quando la vista era annebbiata dal sangue della seconda intifada, i morti di entrambe le parti, le macerie di Gaza. Lo è ancora oggi che gli israeliani non sognano più la realizzazione degli accordi di Oslo e i palestinesi sono divisi anche sul voto rinviato dal presidente Abu Mazen. Non crede che sia troppo tardi e che il treno della riconciliazione sia passato una volta per sempre? «Non so bene cosa stia accendo sul fronte palestinese. So però per certo che questa nuova escalation pretestuosa sulle case di Sheikh Jarrah rafforza Hamas, fornisce elementi ai più radicali nemici del processo di pace, a Gaza e non solo. So che quegli ebrei lì chiedono indietro le abitazioni originarie pur essendo stati compensati a suo tempo con altre proprietà mentre gli arabi espropriati non hanno mai avuto indietro niente. So che non va bene così e bisogna rasserenare gli animi al più presto».

Che ruolo hanno in questo momento gli Stati Uniti che negli ultimi squarci della presidenza Trump sono stati promotori degli Accordi di Abramo, la storica stretta di mano tra Israele e i Paesi del Golfo? «Mi sfugge come si stia muovendo in queste ore l'America nei confronti della nostra regione. So che, come l'Unione Europea, sta invitando alla calma. Ma ho l'impressione che dalle parti di Dubai non siano per niente soddisfatti degli scontri sulla Spianata delle moschee e che si debba intervenire per evitare che Sheikh Jarrah diventi uno di quei simboli di cui siamo tristemente pieni, quelli di cui poi non ci si libera facilmente».

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