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La Stampa Rassegna Stampa
26.10.2008 La sconfitta italo-tedesca di El Alamein, una vittoria della democrazia
ma fu anche la sconfitta del Gran Muftì di Gerusalemme alleato di Hitler

Testata: La Stampa
Data: 26 ottobre 2008
Pagina: 11
Autore: Paolo Passarini
Titolo: «El Alamein ? Il nazifascismo fu il vero sconfitto»

Pubblichiamo dalla STAMPA di oggi, 26/10/2008, a pag.11 la cronaca della visita del presidente Napolitano ad El Alamein, in un servizio di Paolo Passarini dal titolo "  El Alamein ? Il nazifascismo fu il vero sconfitto".   Bene ha fatto a ricordare che la sconfitta delle forze italo-tedesche fu l'inizio della sconfitta del nazifascismo. Da parte nostra aggiungiamo che se l'Asse avesse vinto, immediatamente dopo sarebbe iniziato lo sterminio degli ebrei in Palestina, come avevano concordato a Berlino Hitler e il Muftì di Gerusalemme, tanto per sfatare la vulgata degli odiatori di Israele che sempre negano la corresponsabilità del mondo arabo-palestinese durante la seconda guerra mondiale. Ecco il servizio dell'inviato Paolo Passarini:

«Rispetto e riconoscenza» per quanti combatterono e caddero «da entrambe le parti», ma anche piena consapevolezza storica che, proprio in quel lembo di deserto 120 chilometri a ovest di Alessandria, iniziò la vera sconfitta «dell’impresa bellica nazifascista». Così, ieri, Giorgio Napolitano, celebrando, presso il Sacrario dei caduti italiani, il 66° anniversario della battaglia che probabilmente invertì il corso della Seconda Guerra Mondiale. Ma, in seguito, la fredda reazione del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, al discorso del presidente della Repubblica ha mostrato quanto debole sia ancora il filo di una «memoria condivisa» della storia nazionale.
Fu una sconfitta sanguinosa quella subita dalle truppe nazifascista comandate dalla «volpe del deserto» Erwin Rommel, alla quale gli italiani sotto il comando del generale Rodolfo Graziani contribuirono con oltre 5200 caduti, i corpi di quasi della metà dei quali sono custoditi nella torre costruita sullo sterro di sassi e sabbia gialla in riva al mare dove si svolse la lunga battaglia. Napolitano, firmando il libro d’onore del Sacrario, si è dichiarato «colpito e commosso» e ha reso «profondo omaggio allo spirito di sacrificio e all’eroismo dei combattenti italiani», ma nel suo discorso ha svolto un ragionamento che uno dei 9 reduci presenti alla cerimonia ha definito, con una malcelata punta di ironia, «molto equilibrato».
«Tutti - ha detto il presidente riferendosi ai combattenti di entrambe le parti - furono guidati dal sentimento nazionale e dall’amor di patria, per diverse e non compatibili che fossero le ragioni invocate dai governi che si contrapponevano su tutti i fronti del secondo conflitto mondiale». Ma ha subito aggiunto che «la causa in nome della quale erano stati chiamati a battersi fino a immolare le loro vite gli appartenenti alle forze armate dell’Asse nazifascista, apparve, proprio a partire da quei mesi del 1942, votata alla sconfitta». Sconfitta, ha precisato il presidente, che, più che alla «soverchiante superiorità di mezzi e uomini», fu dovuta alla «storica insostenibilità delle ragioni, delle motivazioni e degli obiettivi dell’impresa bellica nazifascista», fondata, oltreché su «disegni di aggressione e di dominio», «perfino su aberranti dottrine di superiorità razziale, che avevano trovato nel nazismo hitleriano l’espressione più virulenta e conseguente».
Per fortuna, crollarono allora, nel «disastro della Seconda Guerra Mondiale», anche «i nazionalismi irriducibili e i sordi antagonismi tra gli Stati europei».
La Russa, già protagonista, poche settimane fa a Porta San Paolo, di una controversa rivalutazione dei repubblichini della divisione «Nembo», ha apprezzato il senso di una cerimonia in cui gli italiani, finalmente, «stanno insieme per qualcosa e non contro qualcosa». Ma poi, richiesto di un parere sull’intervento di Napolitano, ha risposto gelidamente: «Il presidente si ascolta, non si commenta. E io l’ho ascoltato con molta attenzione».
Che, dopo oltre sessant’anni, stenti ancora ad affermarsi una memoria condivisa è stato confermato da quanto è successo a Livorno, dove il presidente della Camera, Gianfranco Fini, per il suo «revisionismo» antifascista, è stato contestato da un anziano reduce con le parole: «Hai gettato il tricolore nel cesso».«Rispetto e riconoscenza» per quanti combatterono e caddero «da entrambe le parti», ma anche piena consapevolezza storica che, proprio in quel lembo di deserto 120 chilometri a ovest di Alessandria, iniziò la vera sconfitta «dell’impresa bellica nazifascista». Così, ieri, Giorgio Napolitano, celebrando, presso il Sacrario dei caduti italiani, il 66° anniversario della battaglia che probabilmente invertì il corso della Seconda Guerra Mondiale. Ma, in seguito, la fredda reazione del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, al discorso del presidente della Repubblica ha mostrato quanto debole sia ancora il filo di una «memoria condivisa» della storia nazionale.
Fu una sconfitta sanguinosa quella subita dalle truppe nazifascista comandate dalla «volpe del deserto» Erwin Rommel, alla quale gli italiani sotto il comando del generale Rodolfo Graziani contribuirono con oltre 5200 caduti, i corpi di quasi della metà dei quali sono custoditi nella torre costruita sullo sterro di sassi e sabbia gialla in riva al mare dove si svolse la lunga battaglia. Napolitano, firmando il libro d’onore del Sacrario, si è dichiarato «colpito e commosso» e ha reso «profondo omaggio allo spirito di sacrificio e all’eroismo dei combattenti italiani», ma nel suo discorso ha svolto un ragionamento che uno dei 9 reduci presenti alla cerimonia ha definito, con una malcelata punta di ironia, «molto equilibrato».
«Tutti - ha detto il presidente riferendosi ai combattenti di entrambe le parti - furono guidati dal sentimento nazionale e dall’amor di patria, per diverse e non compatibili che fossero le ragioni invocate dai governi che si contrapponevano su tutti i fronti del secondo conflitto mondiale». Ma ha subito aggiunto che «la causa in nome della quale erano stati chiamati a battersi fino a immolare le loro vite gli appartenenti alle forze armate dell’Asse nazifascista, apparve, proprio a partire da quei mesi del 1942, votata alla sconfitta». Sconfitta, ha precisato il presidente, che, più che alla «soverchiante superiorità di mezzi e uomini», fu dovuta alla «storica insostenibilità delle ragioni, delle motivazioni e degli obiettivi dell’impresa bellica nazifascista», fondata, oltreché su «disegni di aggressione e di dominio», «perfino su aberranti dottrine di superiorità razziale, che avevano trovato nel nazismo hitleriano l’espressione più virulenta e conseguente».
Per fortuna, crollarono allora, nel «disastro della Seconda Guerra Mondiale», anche «i nazionalismi irriducibili e i sordi antagonismi tra gli Stati europei».
La Russa, già protagonista, poche settimane fa a Porta San Paolo, di una controversa rivalutazione dei repubblichini della divisione «Nembo», ha apprezzato il senso di una cerimonia in cui gli italiani, finalmente, «stanno insieme per qualcosa e non contro qualcosa». Ma poi, richiesto di un parere sull’intervento di Napolitano, ha risposto gelidamente: «Il presidente si ascolta, non si commenta. E io l’ho ascoltato con molta attenzione».
Che, dopo oltre sessant’anni, stenti ancora ad affermarsi una memoria condivisa è stato confermato da quanto è successo a Livorno, dove il presidente della Camera, Gianfranco Fini, per il suo «revisionismo» antifascista, è stato contestato da un anziano reduce con le parole: «Hai gettato il tricolore nel cesso».
«Rispetto e riconoscenza» per quanti combatterono e caddero «da entrambe le parti», ma anche piena consapevolezza storica che, proprio in quel lembo di deserto 120 chilometri a ovest di Alessandria, iniziò la vera sconfitta «dell’impresa bellica nazifascista». Così, ieri, Giorgio Napolitano, celebrando, presso il Sacrario dei caduti italiani, il 66° anniversario della battaglia che probabilmente invertì il corso della Seconda Guerra Mondiale. Ma, in seguito, la fredda reazione del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, al discorso del presidente della Repubblica ha mostrato quanto debole sia ancora il filo di una «memoria condivisa» della storia nazionale.
Fu una sconfitta sanguinosa quella subita dalle truppe nazifascista comandate dalla «volpe del deserto» Erwin Rommel, alla quale gli italiani sotto il comando del generale Rodolfo Graziani contribuirono con oltre 5200 caduti, i corpi di quasi della metà dei quali sono custoditi nella torre costruita sullo sterro di sassi e sabbia gialla in riva al mare dove si svolse la lunga battaglia. Napolitano, firmando il libro d’onore del Sacrario, si è dichiarato «colpito e commosso» e ha reso «profondo omaggio allo spirito di sacrificio e all’eroismo dei combattenti italiani», ma nel suo discorso ha svolto un ragionamento che uno dei 9 reduci presenti alla cerimonia ha definito, con una malcelata punta di ironia, «molto equilibrato».
«Tutti - ha detto il presidente riferendosi ai combattenti di entrambe le parti - furono guidati dal sentimento nazionale e dall’amor di patria, per diverse e non compatibili che fossero le ragioni invocate dai governi che si contrapponevano su tutti i fronti del secondo conflitto mondiale». Ma ha subito aggiunto che «la causa in nome della quale erano stati chiamati a battersi fino a immolare le loro vite gli appartenenti alle forze armate dell’Asse nazifascista, apparve, proprio a partire da quei mesi del 1942, votata alla sconfitta». Sconfitta, ha precisato il presidente, che, più che alla «soverchiante superiorità di mezzi e uomini», fu dovuta alla «storica insostenibilità delle ragioni, delle motivazioni e degli obiettivi dell’impresa bellica nazifascista», fondata, oltreché su «disegni di aggressione e di dominio», «perfino su aberranti dottrine di superiorità razziale, che avevano trovato nel nazismo hitleriano l’espressione più virulenta e conseguente».
Per fortuna, crollarono allora, nel «disastro della Seconda Guerra Mondiale», anche «i nazionalismi irriducibili e i sordi antagonismi tra gli Stati europei».
La Russa, già protagonista, poche settimane fa a Porta San Paolo, di una controversa rivalutazione dei repubblichini della divisione «Nembo», ha apprezzato il senso di una cerimonia in cui gli italiani, finalmente, «stanno insieme per qualcosa e non contro qualcosa». Ma poi, richiesto di un parere sull’intervento di Napolitano, ha risposto gelidamente: «Il presidente si ascolta, non si commenta. E io l’ho ascoltato con molta attenzione».
Che, dopo oltre sessant’anni, stenti ancora ad affermarsi una memoria condivisa è stato confermato da quanto è successo a Livorno, dove il presidente della Camera, Gianfranco Fini, per il suo «revisionismo» antifascista, è stato contestato da un anziano reduce con le parole: «Hai gettato il tricolore nel cesso».

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