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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
24.10.2008 Ora Josef Angel, 85 anni, vive in Israele e ha una missione che riguarda tutti.
il suo volto ritratto da un soldato americano nel ’45, è un’immagine simbolo della Shoah

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 24 ottobre 2008
Pagina: 0
Autore: Marco Ansaldo e Mila Rathaus Sachs
Titolo: «Io, il quinto uomo della foto shock, e la mia vita dopo il lager»

Il VENERDI' DI REPUBBLICA nel numero del 24 ottobre pubblica un interessante articolo di Marco Ansaldo e Mila Rathaus Sachs intitolato “Io, il quinto uomo della foto shock, e la mia vita dopo il lager”.
Il suo volto ritratto da un soldato americano nel ’45, è un’immagine simbolo della Shoah. Per decenni è rimasto senza un nome. Josef Angel, 85 anni, vive in Israele dove ha una missione che riguarda tutti.

Hispin (Altopiano del Golan). “Quando siamo arrivati al Block 56 è suonato l’allarme aereo, e siamo entrati di corsa. Io mi sono sistemato, come sempre, sul soppalco in alto. Eravamo appena passati davanti alle baracche dei prigionieri di guerra francesi e volevamo entrare. Il nostro aspetto però era così miserevole che, sulla soglia, un detenuto ce lo ha impedito. In cambio però ci ha dato una scatola da due chili di biscotti che aveva in mano. Ecco perché, quando mi hanno fotografato, avevo un aspetto un po’ migliore degli altri: ero riuscito a mangiare, dopo due mesi e mezzo di fame atroce. Durante la marcia della morte non ci avevano dato cibo”.

Gli occhi chiari di Josef Angel non sono cambiati, 63 anni dopo quell’immagine. E’ lui, come solo accennato nell’articolo uscito su Repubblica il 3 agosto scorso, il quinto uomo ancora in vita della famosa foto di Buchenwald, scattata dagli Alleati quando entrarono per la prima volta nei Lager nazisti (gli altri sono Naftali Fuerst, Nicholas Gruener, Max Hamburger e il futuro premio Nobel, Elie Wiesel, che in quell’articolo ammetteva finalmente la sua presenza nell’immagine storica). Ora il Venerdì ha trovato Angel, che vive in un minuscolo insediamento sull’altopiano del Golan, Hispin, a una decina di chilometri dalla linea del cessate il fuoco con la Siria. E ha poi comunicato il risultato della sua indagine al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, che farà gli accertamenti necessari per ufficializzare il ritrovamento.

Angel, 85 anni, è un uomo di bassa statura, con una deformazione alla colonna vertebrale. Davanti alla sua porta, ci si imbatte subito nella foto di Buchenwald, appesa alla parete di fronte. Tutti i muri del minuscolo salottino sono trasformati in mausoleo. Tra le foto ne campeggia una, a ulteriore dimostrazione che è Josef Angel il ragazzo sul soppalco a Buchenwald: ritrae un giovane soldato in divisa di fanteria dell’esercito israeliano, in piedi davanti alla celebre immagine, mentre indica Josef. Il militare, che somiglia moltissimo al giovane Angel, è suo nipote Nadav, ripreso durante una visita della sua unità al Museo dell’Olocausto. Tutto, nella modesta casa di Josef e della moglie Sarah, afferma la volontà di non voler dimenticare.

In che circostanza venne scattata la celebre foto?

“Il fotografo era un soldato americano, ebreo, che aveva studiato al collegio talmudico e sapeva lo yiddish. Abbiamo cominciato a parlare e l’ho aiutato a mettere in posa il detenuto ritratto in piedi”.

Lei conosceva gli altri prigionieri?

 “No. Il Block 56 era popolato di gente che era stata convogliata a Buchenwald dalle varie marce della morte”.

 E che cosa accadde il giorno in cui arrivarono gli Alleati?

 “C’era ancora la neve. Ci “parcheggiarono” nei depositi di legname, ma presto arrivo l’ordine di far uscire tutti gli ebrei. Con un compagno del mio paese decidemmo che non ci saremmo mossi, non ne avevamo più la forza. Così ci siamo finti morti, nascosti sotto un mucchio di cadaveri dell’altezza di una casa.. Siamo rimasti lì, avvolti in un pezzo di coperta così pieno di pidocchi che dissi al mio amico: “Tienilo stretto, c’è il rischio che scappi via da solo”.

E poi?

 “Dopo qualche ora siamo usciti e abbiamo cominciato a girare per il campo. Fu allora che venne scattata la foto. Era il 15 aprile del 1945. Subito dopo fui ricoverato, pesavo 27 chili, mi fecero delle fleboclisi di zuccheri e mi diedero una dieta leggera per riabituarmi a mangiare. Chi non riuscì a limitarsi, morì per complicazioni intestinali: dopo la liberazione, successe a migliaia di persone. Dopo tre mesi pesavo 60 chili, tant’è che credevo di essere ammalato e di essermi gonfiato e lo dissi al medico americano. Ma quello si mise a ridere e mi spiegò che finalmente mi stavo rimpolpando”.

Com’era la sua vita prima che scoppiasse la guerra?

“Sono nato nel novembre del 1923 a Klobuck, a 15 chilometri da Czestochowa, in Polonia, sesto di sette figli, sei maschi e una femmina. Mio padre commerciava in granaglie e viaggiava spesso per lavoro. Mia madre mandava avanti il negozio. Eravamo una famiglia religiosa. La guerra ci raggiunse il 1° settembre 1939. Facemmo un tentativo di fuga, fallito, e già a novembre mi deportarono ad Eichthal, in Germania, un sotto-campo del lager di Gross-Rosen. Mi diedero il numero 24275. Non venni tatuato perché non si usava ancora. Mi destinarono a un commando incaricato della costruzione di un’autostrada. Un anno dopo fui trasferito al campo centrale di Gross-Rosen.

 Che incarico aveva?

“Di giorno spalavo la neve. La sera invece ci occupavano in un lavoro atroce: dovevamo scaricare al crematorio i cadaveri dei prigionieri morti nelle ore precedenti in tutti i vari sotto-campi. A volte arrivavano anche camion di bambini, rastrellati nei ghetti. Per lo più i piccoli erano morti di freddo durante il trasporto e noi dovevamo gettare i cadaveri congelati in un mucchio vicino al crematorio, dove i prigionieri del Sonderkommando li buttavano nel fuoco. Una volta mi capitò di estrarre un bambino ancora vivo. Quando lo presi in braccio, aprì gli occhi e mi guardò. Invece di scaraventarlo nel mucchio, lo deposi a terra delicatamente. In quel momento una frustata mi colpì sulla testa: credetti che il cranio mi si aprisse in due. Il bambino sparì nel crematorio e io quel giorno giurai a me stesso che mai mi sarei sposato e avrei avuto dei figli, perché non credevo di poterli crescere in un mondo simile. Poi, dopo la guerra, ho preso moglie. E il rabbino prima della cerimonia ha sciolto il mio voto: ho avuto due figli, Malca e Yakov, e oggi ho otto nipoti e due bisnipoti. Ultimamente, però, il ricordo del bambino non mi dà pace. La notte vedo i suoi occhi che mi guardano fisso. Ieri sono andato dalla psichiatra, che mi ha detto che sono ancora in stato di trauma e dovrò curarmi con delle medicine”.

Che cosa è successo dopo Gross-Rosen?

“In tutto, fra il ’39 ed il ’45 sono stato in otto campi, l’ultimo dei quali appunto Buchenwald, al quale sono arrivato dal Lager di Kitlitzstreben dopo una marcia della morte tra il gennaio e il marzo 1945: non ci diedero mai da mangiare. Mentre stavo rubando in un deposito di carote, venni scoperto e una SS mi sparò a una gamba. Per miracolo la pallottola non raggiunse l’arteria e, sempre per miracolo, la marcia fu arrestata per alcuni giorni, a causa della neve. Quando la riprendemmo, ero di nuovo in grado di camminare. In seguito, uno dei medici americani mi disse che non  ero morto di setticemia grazie ai pidocchi, che in qualche modo di erano “mangiati” i batteri”.

E dopo la liberazione?

“Della mia famiglia erano sopravvissuti solo due fratelli. Mio padre era morto di emorragia cerebrale, dopo essere stato picchiato dai nazisti, quando ancora esisteva il ghetto ; mia madre e gli altri fratelli vennero deportati poco dopo. Io non volevo tornare in Polonia. Mi sono unito a un gruppo di giovani per raggiungere la Palestina, Eretz Israel. Siamo stati inquadrati nell’organizzazione dell’immigrazione illegale (il predecessore del Mossad ndr) e, dopo alcuni mesi passati in Belgio, siamo salpati da Marsiglia.

Siamo arrivati a Haifa, scortati dalla Marina inglese, che ci aveva fermati in alto mare, il 27 marzo 1946. Poi ho iniziato la mia nuova vita nel kibbutz Tirat Zvi, nella valle del Giordano”.

Dove ha conosciuto sua moglie Sarah?

“A Tirat Zvi. Faceva parte di un gruppo di sopravvissute ungheresi. Ci siamo sposati nell’estate del 1948, due mesi dopo la proclamazione dello Stato. Lei proveniva dalla Transilvania ed era stata deportata ad Auschwitz all’inizio del 1944 insieme con due sorelle, uniche scampate della famiglia. Fu sottoposta ad uno degli esperimenti di Mengele, che le iniettò i germi della tubercolosi. Lo scoprimmo solo in seguito, quando Sarah rimase incinta e la gravidanza causò lo scoppio della malattia. I medici sostenevano che per lo stress del parto avrebbe rischiato di non arrivare ai trent’anni . Di anni ne sono passati 59, e Sarah è ancora qui”

Com’è la sua vita oggi?

“Da quando sono in pensione, accompagno scolaresche nelle visite in Polonia. Mantengo i contatti con decine di giovani che tramite me hanno conosciuto la Shoah: alcuni di loro sono già adulti e con prole, tutti mi chiamano “nonno”. E’ come avere una famiglia enorme, al posto di quella che ho perduto”.

Due anni fa, Josef Angel (o Engel, secondo la carta di identità inglese del 1946; o Josek Endzel, nel lasciapassare rilasciatogli dagli americani a Buchenwald nel 1945), ha pubblicato “Impronte nella neve”, un’autobiografia in cui racconta la storia della sua sopravvivenza, attribuita a una presenza divina al suo fianco (le “impronte nella neve” appunto), di cui lui, uomo di fede, non ha dubitato per tutta la vita.

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