domenica 05 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
22.04.2005 Il muro dell'indifferenza per le vittime israeliane del terrorismo
un articolo che contribuisce a edificarlo

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 22 aprile 2005
Pagina: 67
Autore: Christian Elia
Titolo: «Quelli rimasti né di qua né di là del muro»
IL VENERDI' DI REPUBBLICA del 22 aprile 2005 pubblica un articolo sulla barriera difensiva israeliana.
Si tratta del resoconto dei colloqui del giornalista Christian Elia (legato al gruppo PeaceReporter) con la famiglia palestinese dei Jado, in particolare con il ventuneenne Bilal.
Mentre vengono descritte le difficoltà e le amarezze della vita quotidiana della famiglia, non una parola viene spesa per spiegare perchè la barriera difensiva è stata costruita. O gli effetti che avuto nella lotta agli attentati suicidi, la cui percentuale di successo si è ridotta di oltre il 90% grazie alla sua costruzione.
Tra la vita degli israeliani e lo "spaesamento" delle pecore ( è una delle maleafatte rimproverate alla barriera) o il cambio dell'orrizzonte dei palestinesi, però, l'informazione italiana è portata a considerare sicuramente più rilevanti questi ultimi problemi, o altri analoghi.
La storia di una famiglia israeliana colpita dal terrorismo difficilmete troverà spazio tra le pagine del supplemento settimanale di REPUBBLICA, o tra gli interessi professionali di un giornalista pacifista.

Deve esistere, viene da pensare, un qualche muro invisibile tra certa stampa e e il dolore degli israeliani.

Ecco il testo:

Betlemme. Bilala Jado è un ragazzo palestinese di 21 anni. Vive in una fattoria alle porte di Betlemme, in mezzo alla campagna e agli animali, dove la sua famiglia risiede da generazioni. Il suo viso si illumina quando mostra le terre coperte di ulivi dove è nato, ma si incupisce quando indica il muro. Alto, freddo, grigio.
Una storia simile a quella di tanti altri palestinesi che vivono vicino alla "barriera difensiva" voluta da Ariel Sharon? Si e no. Perché Bilal e i suoi si ritrovano in una situazione davvero particolare: il muro passa proprio sulla loro campagna e li isola da tutto. Sono improvvisamente finiti dalla parte "sbagliata", quella israeliana. Nell’impossibilità di raggiungere sia Gerusalemme sia Betlemme. Un paradossale incubo.
Il muro di separazione che il governo israeliano ha cominciato a costruire nell’estate del 2002 è apparso all’improvviso nella vita di Billal. "Ovviamente sapevamo quello che stava succedendo, ma non pensavamo che sarebbe arrivato così presto" racconta . "Una mattina sono venuti qui alcuni uomini in abiti civili. Hanno annunciato alla mia famiglia che i lavori stavano per cominciare intorno a casa nostra. Hanno offerto un indennizzo per abbandonare la terra dove i miei genitori e io stesso siamo nati. La sera mio padre ci ha riunito in cucina. Ci ha chiesto che cosa ne pensassimo, ma in realtà conoscevamo già la risposta. Per quanto al nostra vita potesse diventare dura, nessuno di noi voleva lasciare la nostra casa. Qualche giorno dopo la visita di quelle persone, sono arrivati i buldozer e i camion. Adesso c’è quello che potete vedere guardando fuori".
Dalla veranda della casa di Bilal il muro si vede in tutta la sua lunghezza. Chilometri di cemento, torrette di guardia e sistemi di sicurezza sofisticati. "Noi cerchiamo di continuare a vivere normalmente" spiega il ragazzo "ma niente è più come prima".
Il muro in questa zona rientra nel tratto della barriera chiamato Jerusalem envelope, pensato per annettere a Gerusalemme gli insediamenti israeliani sorti intorno a Betlemme.
Risultato: la fattoria degli Jado resta all’interno della barriera e viene separata da Betlemme . E al famiglia di Bilal, nove persone in tutto , rimane sospesa in una zona di limbo amministrativo.
"La nostra posizione è incredibile", spiega Azem, lo zio di Bilal, mentre guarda le terre che appartenevano alla sua famiglia e che adesso sono state requisite. "Viviamo in territorio israeliano, ma non abbiamo i documenti. I funzionari israeliani ce lo hanno spiegato: loro annettono le terre, non le persone che ci vivono. Quindi non siamo in possesso della ID Card (documento di riconoscimento che la municipalità di Gerusalemme rilascia ai residenti che possono, grazie a quella carta, entrare in città, ndr) e perciò non possiamo andare a Gerusalemme. Ma, allo stesso tempo, il muro ci separa da Betlemme, non ancora cittadini di Gerusalemme. Contiamo sulla solidarietà di amici che a hanno i documenti per fare compere e soprattutto per vendere i prodotti della fattoria. Insomma per vivere". Continua zio Azem: "Per il governo israeliano è come se non esistessimo, anche se dobbiamo pagare le tasse. A volte ci viene in mente che forse il muro lo costruiscono con i nostri stessi soldi. Ma dalla nostra casa, comunque, non ci muoviamo".
Quanto sia cambiata la vita della famiglia Jado lo si capisce dal piccolo Zyad, il fratellino di 8 anni di Bilal. Due anni fa per andare a scuola il bimbo impiegava 8 minuti. Giusto il tempo di correre con lo zainetto in spalla dietro al fratello che portava le pecore al pascolo e di raggiungere poi Betlemme. Adesso Zyad è costretto a compiere un giro tutto in torno al muro per raggiungere la scuola più vicina dove gli è consentito andare. Ci impiega due ore.
"Lo devo accompagnare io" racconta Bilal "troppa strada da fare da solo. Perdo tanto tempo, ma per il suo bene sono contento di farlo. Io ho smesso presto di studiare, Zyad deve continuare. Ho cominciato subito occuparmi delle pecore e mi piaceva girare per queste terre, mi sentivo libero. Potevo rilassarmi e godermi l’aria fresca, ma adesso devo stare attento, perché i lavori continuano ogni giorno e la mattina troviamo un tratto nuovo di muro. Tempo fa mi potevo anche distrarre, tanto le pecore conoscevano perfettamente l’area attorno alla fattoria. Adesso anche loro sono smarrite. Sharon" aggiunge Bilal ridendo "dovrebbe scusarsi anche con loro".
Sembra che in futuro, una volta finiti i lavori di costruzione, per attraversare il muro verranno predisposti alcuni cancelli. I pass verranno rilasciati a chi dimostrerà di avere una necessità assoluta di doversi recare a Betlemme. Vivendo del lavoro della loro fattoria, la famiglia Jado difficilmente godrà di questo permesso.
"Non credo che al governo israeliano interessi il fatto che ho tutti i miei amici dall’altre parte" allarga le braccia Bilal. Per ora, facendo chilometri e aggirando il muro nella zona in cui ancora non è stato terminato riesco a raggiungere Betlemme, ma alla fine resterò lontano da tutte le persone che conosco, dai ragazzi con i quali sono cresciuto e che per me sono come fratelli".
Bilal si fa largo attraverso gli ulivi per mostrare la strada che percorre dopo il lavoro per incontrare i suoi amici. Dopo una mezz’ora buona di cammino tra sassi e alberi rimasti in piedi (tra l’altro la costruzione della barriera ha comportato l’abbattimento di migliaia di piante), incontra un gruppo di coetanei che passano il tempo a chiacchierare vicino al muro. Non cè lavoro, spiega Bilal, quasi cercare di giustificare i suoi amici "Non hanno nulla da fare e allora vengono qui, per stare insieme"
Sono in tanti e si assomigliano. Tutti ripetono le stesse accuse : "Gli israeliani ci rubano la terra, abbattono i nostri alberi, ci chiudono in un ghetto". Si sfogano tirando sassi contro la barriera, guardati a vista dagli uomini armati che presidiano lo svolgimento dei lavori. Si sfogano scrivendo sui muri minacce e slogan. Uno di loro ha disegnato le orme di un paio di enormi piedi che vanno dall’altra parte.
"Puoi chiudere qualcuno oltre un muro" prosegue Bilal, ma non puoi impedirgli di fantasticare. Io penso che, a fatica, potrei accettare di vivere in questo modo. Potrei accettare di fare i salti mortali per fare la spesa. Potrei accettare di fare chilometri per raggiungere un posto che in linea d’aria dista pochi metri. Potrei accettare di incontrare i miei amici da qualche altra parte. Ma quello che proprio non riesco ad accettare è il fatto che qualcuno ha cambiato il mio orizzonte. Da quando sono nato, sognavo di viaggiare oltre l’orizzonte. Altri viaggi, veri intendo dire, non ne ho fatti. Ora se guardo l’orizzonte vedo solo il cemento.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de Il Venerdì di Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

segreteria_venerdi@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT