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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
22.10.2004 Annullare le differenze, confondere il giudizio: come banalizzare il terrorrismo suicida
due articoli che annullano la distinzione tra lecito e illecito e tra vittime e carnefici

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 22 ottobre 2004
Pagina: 75
Autore: Riccardo Staglianò - Emanuela Audisio
Titolo: «Io kamikaze, quelli di oggi solo assassini - La carnefice e la sua vittima, così lontane, così vicine»
A pagina 75 de Il VENERDI'DI REPUBBLICA di oggi, 22-10-04 Riccardo Staglianò, nell'articolo "Io kamikaze, quelli sono assassini" contesta la tesi dei reduci giapponesi delle operazioni suicide contro la marina statunitense:vi sono secondo lui molte analogie tra i kamikaze e gli "shaihid", i terrorristi suicidi islamici.
Le ricerche su cui basa la sua descrizione di questi ultimi sono state superate e smentite da quelle compiute dalle più accreditate istituzioni scientifiche internazionali (per esempio quella di Scott Atran pubblicata dalla prestigiosa rivista Science), concordi nell'affermare che il terrorrismo suicida nulla ha a che vedere con la "povertà" e la "disperazione".
Sarraj, una delle fonti da citate da Staglianò, dirige il centro psichiatrico di Gaza e dopo aver attaccato l'Anp per la sua politica di promozione della violenza è stato minacciato. Comprensibile che abbia cambiato argomento, uniformandosi alla vulgata giornalistica e propagandistica della "disperazione" come causa del terrorismo. Significativo è comunque che gli attentatori suicidi, per lui, sono animati da "miseria" e "disperazione" perchè si "identificano con la loro gente" o, meglio, con la situazione della loro gente descritta dalla propaganda. Sarraj infatti sa benissimo che gli attentatori suicidi appartengono per lo più agli strati socialmente e culturalmente più elevati della società palestinese. Silke, l'altra fonte, "all'indomani dell'11 settembre", forse non sapeva che gli attentatori erano benestanti con ottime lauree in ottime università occidentali.
Le considerazioni sui kamikaze giapponesi, ad esempio la "deduzione" del fatto che anche a loro veniva promessa la felicità ultraterrena, appaiono anch'esse approssimative, ma la cosa non ci riguarda direttamente.
Anche perchè la vera, macroscopica distorsione dell'articolo non si trova nelle somiglianze che vengono rinvenute, su una base erronea, tra i due fenomeni, ma in una clamorosa omissione.
«Quando sento il paragone con le attuali bombe umane», ha spiegato al Los Angeles Times Shigeyoshi Hamazono, uno dei reduci giapponesi, «mi sembra terribilmente ingiusto nei confronti dei miei amici morti. Le nostre operazioni erano totalmente diverse: noi combattevamo contro un nemico militare mentre il loro scopo è uccidere il maggior numero possibile di civili. E questo si chiama omicidio».
A questa semplice e cruciale distinzione Riccardo Staglianò, in un articolo interamente dedicato a sostenere l'equivalenza tra kamikaze e terroristi suicidi, non ritiene di dover replicare in alcun modo. Per lui, evidentemente, è irrilevante.
Ecco l'articolo:

« Ci incontreremo a Yasukuni » si dicevano, per farsi coraggio prima dell’ultimo decollo. E alludevano al tempio sacro nel centro di Tokyo che avrebbe ospitato le loro anime una volta compiuta la missione. Un incentivo forte per diventare kamikaze: si usciva di schianto dal mondo ma si entrava nell’aldilà su un tappeto rosso, prenotandosi una poltronissima accanto agli imperatori e alle altre divinità. Shigeyoshi Hamazono è forse l’unico che quel congedo definitivo l’ha pronunciato addirittura tre volte, sempre convinto che fosse quella buona. Ma se a 81 anni ha ancora la forza di prendersela con gli attentatori suicidi iracheni, palestinesi o ceceni, rei di aver infangato lui e i suoi compagni d’armi è solo perché, quasi sessant’anni fa, la morte decise di declinare i suoi molteplici inviti a prenderselo.
«Quando sento il paragone con le attuali bombe umane», ha spiegato al Los Angeles Times «mi sembra terribilmente ingiusto nei confronti dei miei amici morti. Le nostre operazioni erano totalmente diverse: noi combattevamo contro un nemico militare mentre il loro scopo è uccidere il maggior numero possibile di civili. E questo si chiama omicidio».
Nei primi mesi del 45, quando l’aviazione nipponica aveva deciso da circa un anno di ricorrere a quest’arma inedita contro lo strapotere militare statunitense, il diciannovenne Hamazono partì per la prima delle sue ultime missioni. Ma una tempesta lo costrinse a tornare alla base, non senza notare l’ironia della sorte dal momento che kamikaze significa «vento divino», dal tifone che nel XIII secolo salvò il Giappone dalle flotte mongole di Gengis Khan. La seconda volta, in rotta verso le Filippine, fu una grave perdita d’olio all’aereo a mandare tutto a monte. E ad aprile le forze statunitensi erano già a Okinawa quando il giovane pilota si alzò di nuovo in volo. Nei cieli sopra l’obiettivo fu intercettato dai caccia Usa. «Vedevo palle di fuoco dappertutto» ricorda oggi, e nessuno dei nove altri componenti dello squadrone sopravvisse. Lui solo, con 78 fori di proiettili nella carlinga e uno nella spalla, torno alla base. Senza portare a termine il suo compito, però. «Per lungo tempo, dopo, avrei preferito essere morto», ma oggi no se ne fa più un cruccio.
E seguendo l’attualità denuncia ciò che gli sembra un inaccettabile plagio. Sia lui che i pochissimi altri superstiti del Tokkotai, il nome delle Forze speciali di attacco, puntualizzano le differenze con gli attentatori cui i media hanno appiccicato la loro etichetta. Loro agivano per amore del Paese (non per odio o vendetta) e la religione shintoista non offriva ricompense ultraterrene (niente 72 vergini con le quali allietare le lunghe giornate del paradiso cranico). Eppure, nonostante la violenza del contraddittorio, più gli ottuagenari argomentano più le presunte distanze si accorciano. «Era la disperazione che ci fece arruaolare» dice l’ottantunenne Hideo Den, a lungo senatore socialista. «Credevamo che quel comportamento onorevole avrebbe fatto felici i nostri genitori» aggiunge il settantasettenne Iwao Miura. A entrambi fa eco, a distanza, il medico palestinese Eyad Sarraj, uno dei principali esperti al mondo di psicologia degli shahid, i kamikaze islamici: «L’identificazione con la loro gente fa si che agiscano animati dalla stessa miseria e disperazione» spiegava tempo addietro alla tv Abc. «E ciò da alle loro famiglie uno status altissimo perché il loro nome diventa immortale». Per quanto riguarda l’analogia sulle prospettive post-mortem, poi, basta affacciarsi nell’atrio del museo dedicato alla memoria dei kamikaze giapponesi a Chiran, all’estremo Sud dell’isola. Il gran murale raffigura un pilota morto sollevato a braccia, dalla sua tomba d’accqua, da sei donne angeliche. Mentre varie didascalie delle foto di chi si è sacrificato invitano il visitatore a notare «la bellezza delle facce sorridenti». Una caratteristica che lo stesso Sarraj rimarcava parlando dei martiri palestinesi: «Se muori per Allah non muori veramente, tant’è che, come si racconta, negli ultimi minuti prima di farsi saltare in aria gli attentatori sorridono». Testimoniando una comprensione della vita incomprensibile alle nostre latitudini. All’indomani dell’11 settembre il dottor Andrei Silk dell’università di Leicester, specialista di terroristi suicidi, aveva elencato alla Bbc altri parallelismi: «Nessuno di questi gruppi (dirottatori e originali giapponesi ndr) è composto di pazzi. Sono semplicemente persone arrabbiate, disperate e altamente motivate». Racconta, a questo proposito, di come ogni giorno « adolescenti di 17-18 anni si presentano negli uffici di Hamas dove i reclutatori ricevono istruzioni di rimandarli a casa. E solo quelli che non si arrendono, che tornano giorno dopo giorno, alla fine vengono ammessi ». Al privilegio di portare la micidiale cintura da 15 chili di esplosivo. Qualcosa di non dissimile dalla spaventosa determinazione del luogotenente Hajime Fujii che, nel dicembre 44, non fu preso nelle squadre della morte perché padre di famiglia. La sua delusione dovette essere così eloquente che, pochi giorni dopo, sua moglie annegò se stessa e il figlio di quattro anni nel fiume Arakawa. E lui, sciolto dai doveri domestici, si immolo in aereo cinque mesi più tardi.
Dopo la seconda guerra mondiale i primi a copiare la letale disponibilità nipponica furono i mmbri del libanese Hezbollah, ispiratosi a sua volta ai bassidj, i ragazzini che l’Iran sguinzagliava, fascia verde in testa e chiave del paradiso al collo, per bonificare con la loro corsa i campi minati dagli iracheni. Nell’ottobre dell’83 un camion al plastico fu fatto esplodere in una accampamento militare Usa a Beirut e i 241 marine mrti convinsero Washington al ritiro. I palestinesi adottarono la pratica dieci anni dopo, in seguito all’espulsione dell’allora premier Rabin di 415 militanti in Libano. Dal 93 ad oggi gli attentati suicidi in Israele sono stati 165. Quelli in Iraq, nei 17 mesi dalla fine teorica delle ostilità, già 123. comunque le si chiami, le bombe umane non sono una moda né recente né temporanea. E sin quando il serbatoio di disperazione che le innesca non sarà prosciugato non ci sarà mai penuria di «volenterosi carnefici»
A pagina 79 Emanuela Audisio, nell'articolo "La carnefice e la vittima. Così lontane, così vicine" compie il passo successivo. Stabilita, nell'articolo precedente, l'equivalenza tra azioni militari e stragi di civili, si tratta ora di convincere i lettori di quella tra gli assassini e le loro vittme, uniti da un comune "destino" di morte e da una equivoca "pietà" che appare, per la verità, alquanto spietata.
Così Rachel Levi, israeliana morta in un attentato, e Ayat Al Akhras, l'assassina suicida, erano, il giorno della loro morte, "Ragazze separate dalla religione", non dal fatto che una voleva uccidere l'altra, che non le faceva invece alcun male.
E l'autrice del libro che racconta, in parallelo, la storia delle due ragazze e di un gruppo di altri personaggi palestinesi e israeliani, lamenta che la sua idea, degna del più cinico dei talk show spazzatura, di far incontrare i genitori delle due ragazze, non è stata accettata dagli interessati.
Non una riga per ricordare che Ayat al Akhra era, sì, la vittima, non certo innocente, di qualcuno. Di coloro che hanno traviato un'intera società con l'incitamento all'odio e alla morte. E per indicare l'identità di costoro: Hamas, Jihad islamica, Al Fatah, Anp, Arafat. Se si parla di terrorismo suicida la realtà politica scompare, restano solo i "casi umani" e la facile commozione, senza comprensione, che ne può derivare.
Un senso di nausea prende leggendo le ultime righe del pezzo, che descrivono la tecnica pubblicitaria che verrà impiegata per la promozione del volume, infelicemente denominata «guerriglia advertising».

Uscire di casa e camminare, correre, perdersi, tornare. Quello che facciamo ogni mattina. Costruiamo la vita. riempiamo il tempo, ne seguiamo la scia. Fino a quando non ci sbattiamo dentro, non veniamo avvolti da quel burrone senza fondo che ci ingoia. Fino quando non arriva l’ultima mattina, l’ultima frazione di tempo che ci è data. Due ragazze in Medio oriente cominciano la loro giornata: Ayat al- Akhras e Rachel levi sono diverse, ma si assomigliano, tanto che quando entrano nel supermercato di Gerusalemme verranno scambiate per sorelle, per due Kamikaze. E’ il 29 marzo 2002. sono le sette del mattino. "Prima di lasciarsi", il romanzo-cronaca di Gabriella Ambrosio, parte seguendo le due ragazze e un gruppo di persone che, quella mattina del 29 marzo, sta uscendo di casa. Ma siamo a Gerusalemme, che non lascia spazio alla vita, non concede tregua, tempo all’amore, all’amicizia e neanche alla normalità. Le protagoniste sono dina, 18 anni, palestinese, a scuola prima della classe, e Myriam, ebrea, stessa età, che un po’ va a scuola e un po’ va in collina a ricordare Michael, amico americano scomparso, a guardare come potrebbe essere, immaginare una possibile via di fuga.
Ragazze separate dalla religione, ma che di fronte alla porta di un supermercato, in una mattina di morte, appaiono agli altri come sorelle. Nello sguardo spaurito verso il domani, nella tiepida attesa prima della fine. Sette ore di un giorno che diventano un percorso a ostacoli, scandito dal tempo che passa, dalle ragioni e dalla disperazione di tutti. In uno stile già usato da Robert Altman di "America oggi", da Spike Lee della "25 ora", o da Mathieu Kassowitz de "L’odio".
Riusire a raccontare l’angoscia di tutti i giorni, attraverso le azioni, gli incontri e i pensieri prima di un attentato. Dove tutto si confonde, dove non c’è separazione, ma solo un piccolo mondo che annulla le differenze, una umanità varia annodata dal caso e slacciata dall’odio.
Così capita di incontrare Abraham, 59 anni, israeliano, addetto alla sicurezza, che però è stato allattato da una donna araba. O Said, 57 anni, padre di Dima, che lavora come capocantiere in una ditta di costruzioni "nemica". C’è spazio per tutto, per tutti .Dice Ambrosio: « Io vivo in Italia, rioccupo di pubblicità, ma quando lessi la notizia dell’attentato decisi che dovevo andare lì a vedere,a vivere, a capire il perché del suicidio collettivo di quella terra, di questo rapporto vittima-carnefice, perché il padre e la madre di queste due ragazze alla fine non hanno accettato di incontrarsi». Ci fosse un lieto fine, si trattasse di una città non in guerra, di una normale giornata metropolitana, la sua colonna sonora sarebbe "Ma il cielo è sempre più blu", di Rino Gaetano, per le storie minime che si incontrano, per il loro grido al cielo fatto di lamenti, sogni, rimpianti. Ambrosio usa una lingua fredda, non commisera, ma narra, segue uomini e donne, e brei e palestinesi nel labirinto del terrore che è diventata l’affascinante Gerusalemme, città di pietra scossa in continuazione, malinconica e tremenda.
Il libro verrà pubblicizzato, dal 25 ottobre, in otto città italiane con un’operazione di «guerriglia advertising»: con i fogli che sembrano pagine strappate di libro, che saranno abbandonate qua e là nelle metropolitane o sulle panchine o appiccicate con uno scotch in ambienti come aule universitarie, pub, e caffè studenteschi. Come pezzi, resti, frammenti di vita che chiedono di non volare via per sempre.
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