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La Repubblica delle donne Rassegna Stampa
19.03.2005 Storia di un gruppo di riservisti israeliani
Alberto Stabile racconta (per davvero) Israele

Testata: La Repubblica delle donne
Data: 19 marzo 2005
Pagina: 46
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Doppia vita in Israele»
LA REPUBBLICA DELLE DONNE, supplemento di sabato 19 marzo al quotidiano LA REPUBBLICA pubblica un ottimo articolo di Alberto Stabile sui riservisti israeliani e sull'attentato del 25 febbraio a Tel Aviv.
Ci auguriamo che Stabile scriva in futuro per il suo quotidiano articoli più simili a quelli che pubblica sul supplemento...

Ecco l'articolo:

Questa è una storia d’amore e d’amicizia, di quelle che affiorano dal fondo imperscrutabile delle grandi tragedie, come l’attentato terroristico che venerdì 25 febbraio uccise cinque persone e ne ferì cinquanta sulla porta di un locale notturno di Tel Aviv. Doveva essere, all’inizio, un’inchiesta sui riservisti, i 400 mila soldati che co-stituiscono il grande serbatoio umano dal quale, non è esagerato dirlo, dipende la difesa d’Israele. In un esercito di popolo, come Tsahal, parlare dei riservisti vuol dire parlare della società, in quella fascia d’età tra i 25 e i 45 anni che rappresenta ovunque l’ossatura di
una nazione, i suoi sogni, le sue poten-zialità. Ma il fatto che un discorso di generazioni e di vita quotidiana si incroci con la cronaca di un attentato, qui è la tragica normalità. Cominciamo con il descriverli, i riservisti. A chiunque visiti Israele, e abbia la ventura di attraversare uno dei tanti posti di blocco che la separano dai territori palestinesi, capiterà sicuramente d’incontrarli spesso, accanto ai militari di leva. La prima immagine che se ne ha è di soldati con la pancetta.
Le facce dei riservisti conservano gli ardori giovanili. Ma il loro fisico si è, con gli anni, inevitabilmente appesantito. Le divise, spesso scolorite dall’uso prolungato, non servono più ad appiattire e nascondere, ma lasciano intravedere quello che il cinturone non riesce più a contenere. Il contrasto con i giovani coscritti, ragazzi di 18-20 anni fieri della loro età, pronti a scattare come molle, appare evidente. Ma questi soldati dalle tempie grigie hanno, rispetto ai loro commilitoni, un’arma in più: l’esperienza. Le loro mani non tremano, mentre maneggiano il vostro passaporto. I loro occhi allenati sanno distinguere, in mezzo a una folla spesso esacerbata, dove può annidarsi il pericolo. Non pochi parlano o capi-scono l’arabo. Soprattutto, prima di agire, riflettono. È in questa integrazione tra esercito regolare e servizio di riserva una delle ragioni dei successi israeliani sui campi di battaglia. I 120 mila soldati in servizio attivo, di cui il 34 per cento è costituito da donne, di per sé non rappresentano una forza imponente. Ma è grazie ai 400 mila "anziani’, pronti ad accorrere nei momenti di pericolo ovunque la patria lo richieda, che l’intera nazione dà l’impressione di mobilitarsi.
Contrariamente a quanto avviene nell’esercito regolare, dove le donne sono una percentuale rilevante, nella riserva le soldatesse sono soltanto poche migliaia. Infatti una volta conclusa la leva obbligatoria, e alla nascita del primo figlio, per le israeliane scatta automaticamente l’esonero. In pratica, finito il servizio militare vero e proprio - che quanto a durata (tre anni) e impiego in situazioni di guerra non ha forse uguali al mondo - per un mese l’anno, fino ai 45 anni salvo esenzioni particolari, i riservisti vengono richiamati alle loro unità d’appartenenza. Lasciano le famiglie, il lavoro e le incombenze, le comodità della casa, le certezze di una vita tranquilla, gli affetti rassicuranti, le piccole gioie di tutti i giorni. E partono per gli accampamenti. Tornano ad assaporare l’adrenalina delle situazioni difficili, gli imprevisti di un conflitto mai risolto, la spartana vita in caserma. Ma anche la solidarietà che nasce dai pericoli condivisi, l’amicizia non mediata da interessi, il rispetto di una diversa gerarchia dove il denaro, il successo, il potere non sono, contrariamente a quanto accade nella vita civile, i valori dominanti. Sarà forse che l’amore per la vita è più forte laddove la vita è minacciata, ma molti riservisti pensano che quel ritorno periodico al passato guerriero serva anche a mantenersi giovani, a non sentire, o forse a vivere senza an-goscia, l’inesorabile trascorrere del tempo. Non tutti, ovviamente, sono propensi ad accogliere con gioia il richiamo annuale del miluim, come viene chiamato in ebraico il servizio di riserva. Alcuni se ne lamentano. Bisogna tenere conto che un israeliano di mezz’età è passato, lungo l’intero arco della sua vita, attraverso una sequela ininterrotta di guerre, attentati, minacce, rivolte, ed è stato almeno sfiorato dalla perdita di un amico o di una persona cara. Di conseguenza molti ritengono, giunti all’età matura, di avere saldato il debito con lo Stato, e sarebbero disposti a fare l’impossibile pur di sottrarsi alla ferma temporanea. Esistono tuttavia eccezioni in senso contrario. Vi sono quelli, cioè, che pur avendo superato la soglia dei 45 anni ed essendo quindi esenti dal servizio, chiedono di poter tornare sul campo. Recentemente un avvocato di Tel Aviv ben oltre i cinquanta mi ha confidato il proposito di ripresentarsi alle armi, «per dare una mano all’esercito» nello sgombero, in prospettiva assai controverso, degli insediamenti di Gaza. A un altro fenomeno, infine, bisogna accennare: alle amicizie che nascono nelle unità di riserva e che poi rimangono nella vita civile. È come se l’insolita, temporanea esperienza in divisa servisse a fondare una sorta di famiglia trasversale, un network di rapporti che viene spontaneamente trasferito nell’esistenza di tutti i giorni. È come se persone diverse e spesso lontane – per censo, cultura, residenza, status - trovassero il modo di sviluppare un sentimento comune che la società civile israeliana, soggetta com’è a una crescita tumultuosa, non riesce più a favorire. A una di queste unità della riserva, la Compagnia B - impiegata costantemente, e per quattro anni, sui terreni insidiosi dell’intifada armata – apparteneva un gruppo di persone, una ventina più o meno, molte fra i trenta e i quarant’anni e alcune più giovani, che la sera di venerdì 25 febbraio s’affollavano al botteghino dello Stage club a Tel Aviv, nel momento in cui un kamikaze della Jihad islamica decise di farsi saltare. Le cronache si sono molto occupate di quest’ennesimo attacco alla pace possibile, di questa carneficina venuta a incrinare i sogni di tregua accarezzati da due popolazioni esauste di violenza. Ma che cosa legava fra loro le vittime dell’attentato, che cosa ha accomunato le loro famiglie nel lutto e nel dolore, oltre al fatto di essere state colpite simultaneamente? I morti (cinque) e i feriti (una cinquan-tina) dello Stage Club non si sono ritrovati per caso alle porte di quel locale notturno, come tante volte in passato è successo ai passeggeri degli autobus o agli avventori dei ristoranti attaccati da terroristi palestinesi. Le vittime dello Stage Club erano tutt’altro che sconosciute le une alle altre. La maggior parte di loro aveva prestato il servizio militare nelle unità di élite, le Brigate Givati, Golani e Nahal (quest’ultima è la brigata dei giovani pionieri combattenti). Si erano incontrati otto anni fa in un’unità della riserva. Era stato quello l’inizio di un’amicizia forte e duratura, la nascita di una piccola famiglia trasversale fatta di fratelli non di sangue ma d’elezione, che abbracciava i quattro angoli d’Israele.
Quel venerdì sera di febbraio erano arrivati a Tel Aviv da tutto il Paese: dalla valle del Giordano, da Tiberiade, dalla Galilea, da Gerusalemme, da Kfar Sava e dal Neghev, per partecipare a un party a sorpresa organizzato per festeggiare il compleanno di Yaron Grayevsky, uno di loro. «Questa è un’amicizia fiera, nata nella riserva e trasferita nella vita civile», racconta Grayevsky, che al momento dell’esplosione si trovava in un albergo vicino al locale preso di mira, assieme alla moglie, Revital. «Quando ricevevamo le chiamate per il nostro mese di miluim, per noi tutti era una gioia. E poi, dopo la riserva, continuavamo a incontrarci almeno una volta al mese. Almeno due o tre volte, durante il periodo estivo, facevamo campeggio vicino al lago di Tiberiade o ci davamo appuntamento in un albergo di Eilat. Non c’era scadenza importante per chiunque di noi che passasse inosservata». Il party di venerdì sera, in realtà, doveva contenere una seconda sorpresa. Ofir Gonen, nella vita civile un tecnico informatico di Kfar Sava, era arrivato alla festa in compagnia della fidanzata Yael Orbach. Bellissima, dopo il servizio militare in un’unità combattente Yael aveva studiato legge e teatro, sognando un futuro d’attrice. Lei e Ofir avevano progettato di sposarsi. Al party avrebbero dovuto distribuire le partecipazioni che lui aveva stampato al computer. Le nozze si sarebbero celebrate dopo tre settimane.
Yael è stata investita in pieno dall’ esplosione. Ofir, che per un attimo aveva lasciato la mano della fidanzata, è stato gravemente ferito agli occhi. Yitik Buzaglo, agricoltore nel moshav di Mishmar Hayarden, accarezzava invece il sogno di costruire una casa per sé, la moglie e i due figli, nella piccola azienda sulla valle del Giordano. Per anni aveva lavorato sodo per tirare su quattro fratelli e due sorelle. Adesso, finalmente, aveva intravisto uno spiraglio nel suo futuro.
Al suo funerale, nel moshav, il comandante della compagnia, Eran Cohen, ha tessuto le lodi di un eroe semplice, che aveva esaurito il suo servizio di riserva ma che continuava a presentarsi, da volontario. I compagni si faranno carico di realizzare il suo sogno: la moglie, gravemente ferita, e i figli avranno una casa, dove Yitik Buzaglo l’aveva immaginata. Poi c’era Arik, il più allegro del gruppo, che «a 36 anni», racconta Yaron Grayevsky, «aveva l’ingenuità e la freschezza di un ragazzo di 18». E Ronen Rubenov, la cui moglie, Linda, aveva organizzato il party a sorpresa ed è ora ricoverata in gravi condizioni, mentre lui è stato sepolto con gli onori militari. Uno strano destino, ha rivelato uno dei sopravvissuti, ha accomunato le vittime. «Alcuni anni fa, alcuni di loro erano sfuggiti per miracolo all’attentato di un kamikaze palestinese nei Territori. Solo per andare a morire a Tel Aviv, in una notte che avrebbe dovuto essere di festa».
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