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La Repubblica Rassegna Stampa
25.04.2024 Iran: Rapper operaio messo a morte dagli ayatollah ‘cantava la libertà delle donne’
Cronaca di Anna Lombardi

Testata: La Repubblica
Data: 25 aprile 2024
Pagina: 16
Autore: Anna Lombardi
Titolo: «Iran, il rapper operaio Salehi messo a morte dagli ayatollah: Cantava la libertà delle donne»

Riprendiamo da LA REPUBBLICA di oggi, 24/04/2024, a pag. 16 con il titolo “Iran, il rapper operaio Salehi messo a morte dagli ayatollah: Cantava la libertà delle donne”, la cronaca di Anna Lombardi.

Anna Lombardi
Anna Lombardi

Il rapper iraniano Toomaj Salehi. Nelle sue canzoni, inni alla libertà della donna e al fallimento del regime degli ayatollah. Per questo è stato condannato a morte

«Il crimine di qualcuno è ballare coi capelli al vento/ il crimine di qualcuno è non voler tacere: 44 anni del vostro governo. Questo è l’anno del vostro fallimento»: Toomaj Salehi, cantava così nell’ultimo brano postato sul suo canale YouTube nell’ottobre 2022 subito prima di essere arrestato. Il video dal testo durissimo a ritmo hip hop è ancora online: pronunciato tutto d’un fiato con una tazzina sporca in mano, come se leggesse nei fondi del caffè un futuro di lotte e di sangue. Ieri il rapper-operaio (viveva facendo il metalmeccanico) più amato del Paese, 33 anni appena e un milione di follower fra Instagram e X, è stato condannato a morte. Per il suo presunto ruolo nelle proteste antigovernative divampate in tutto l’Iran due anni fa, dopo la morte di Mahsa Amini: la giovane uccisa dalla polizia morale a suon di botte perché il foulard che doveva coprirle i capelli era fuori posto. Se la sentenza verrà eseguita, sarà l’ottavogiovane a finire sul patibolo per essere sceso in piazza in sostegno delle donne.

Il tribunale rivoluzionario lo ha infatti riconosciuto colpevole di “corruzione sulla Terra”: una formula che comprende i reati di “propaganda contro il sistema”, “incoraggiamento alla violenza”, “formazione di gruppi illegali per minare la sicurezza” e pure “cooperazione con Stati ostili per rovesciare la Repubblica Islamica”. Considerato, di fatto, uno dei capi della rivolta per quei versi cantati in piazza dove lui — che d’altronde è “figlio d’arte”, nel senso che suo padre è un dissidente rimasto in carcere 8 anni — si scaglia contro la corruzione, l’impunità e i soprusi di polizia e magistratura.

In realtà lui ha sempre chiesto di portare avanti «proteste pacifiche, in grado di unire e non di dividere ». E infatti la prima condanna ricevuta, un anno fa, era di 6 anni e 3 mesi: con una decisione della Corte Suprema che escludeva la pena capitale. Eppure, con quella che il suo avvocato Amir Raesian ha definito «decisione senza precedenti», il tribunale rivoluzionario di Isfahan «ha ritenuto di non prendere in considerazione la sentenza della più Alta Corte: condannando Salehi alla punizione più dura».

Un appello è stato subito depositato. Ma la vicenda è esemplificativa di come viene gestita la giustizia in Iran. Inizialmente le accuse non erano nemmeno così gravi, tanto che nel novembre 2023 era stato rilasciato su cauzione. Salvo essere riarrestato due settimane dopo, successivamente alla diffusione di un video in cui raccontava le torture subite in prigione. Da allora gli ayatollah non gliel’hanno più perdonata: e lo hanno riportato di filato nel carcere di Dastgerd nei pressi di quella Isfahan dove lui è nato e dove ora lo vogliono vedere morto.

La sentenza ha avuto immediate ripercussioni internazionali. La parlamentare tedesca Ye-One Rhie, del Partito Socialdemocratico al governo, che già in passato aveva difeso il rapper, ieri è tornata a chiederne con forza il rilascio. Da noi pure la deputata del Pd Lia Quartapelle ha contestato la sentenza.

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