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La Repubblica Rassegna Stampa
11.04.2024 Perché è urgente rifondare l’Onu
Commento di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 11 aprile 2024
Pagina: 24
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Perché bisogna rifondare l’Onu»

Riprendiamo da LA REPUBBLICA di oggi, 11/04/2024, a pag. 24, con il titolo "Perché bisogna rifondare l’Onu" il commento di Bernard-Henri Lévy.

Bernard-Henri Lévy

Ministry of Foreign Affairs of the Islamic Republic of Iran- UN should be  an organisation of nations, not an organisation of powers/ NATO, US have  been source of war, occupation, destruction in

L'Onu sta commettendo gli stessi errori della Società delle Nazioni, appoggia governi dittatoriali credendo di poter ottenere la pace da chi non la vuole. L'ideale sarebbe la fine dell'Onu e l'impegno a crearne uno, come si deve, dovrebbe spettare solo alle democrazie. Le dittature se ne facciano uno per loro conto (che non conterà nulla)

Un’Organizzazionedelle Nazioni Unite impotente e complice per quattro anni, dal 1992 al 1996, mentre a Sarajevo imperversava il più lungo assedio della Storia moderna; un’Onu che, davanti alla pulizia etnica compiuta dai serbi in Kosovo, lasciò che fosse un’alleanza militare, la Nato, a fare il lavoro che le competeva e, nel 1999, a fermare definitivamente il massacro; Un’Onu che davanti ai milioni di morti del genocidio dei tutsi in Rwanda, rimase inspiegabilmente passiva, riducendo il numero dei suoi Caschi blu quando avrebbe dovuto aumentarli, e aumentandoli poi soltanto per esfiltrare, proprio alla fine, i responsabili della carneficina; un’Onu dove l’incongruenza — o il cinismo, o entrambi — si spinse al punto di tollerare che, con il meccanismo delle rotazioni regionali con cui si rinnovano i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, lo Stato del Rwanda ne facesse parte per tutta la durata dei massacri di cui era responsabile. Un’Onu che ha messo in conto perdite e profitti della Storia i milioni di morti complessivi di Timor Est, Darfur, Somalia e delle sue terre insanguinate, dei conflitti dimenticati di Angola, Burundi, Sri Lanka, Sudan e via dicendo, perché mi limito alle guerre che conosco per essermene occupato di persona per lavoro. Un’Onu dove da pochi giorni si è votato — all’unanimità e per un mandato di due anni — per eleggere alla presidenza della Commissione sullo status delle donne un’Arabia Saudita le cui timide riforme al riguardo non ne hanno ancora fatto un modello di femminismo. Un’Onu dove la Repubblica Islamica dell’Iran — arrivata al penultimo gradino della sua scalata verso il nucleare e della corruzione che vi si accompagna — si è vista affidare la presidenza della Conferenza del Disarmo che si concluderà a fine maggio. Un’Onu in cui la Cina — fuoriclasse nel mondo della biopolitica e della società del controllo, l’incarnazione più raffinata del pianeta di sistema totalitario, impegnata al momento nello sterminio dei suoi musulmani uiguri e di quel che resta, all’interno delle frontiere del suo impero, del popolo tibetano — ebbene, un’Onu in cui questa Cina entra ufficialmente a far parte del Consiglio per i diritti umani dove, per altro, è stata preceduta da altri paradisi della democrazia quali Pakistan, Uzbekistan e Cuba. Un’Onu il cui Consiglio di Sicurezza non è riuscito a fare nulla, negli ultimi due anni, per fermare la guerra d’aggressione contro l’Ucraina e… a buon motivo! La Russia ha potere di veto e vi occupa un seggio permanente, della cui mancanza di fondamento giuridico ho già avuto modo di parlare in queste stesse pagine. Un’Onu che, quando le “Einsatzgruppen” di Hamas hanno invaso Israele perpetrandovi il più grande massacro di ebrei dai tempi della Shoah, ha lasciato che Sarah Douglas, la vicepresidente di UN Women, la sua Commissione che promuove i diritti delle donne, posasse davanti a una bandiera palestinese e trasmettesse 153 tweet ostili allo Stato ebraico; un’Onu che non ha condannato ufficialmente quei dipendenti della sua agenzia per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa, che hanno definito il pogrom “uno spettacolo stupendo” in un “mattino indimenticabile e glorioso”, o “la prima vera vittoria” sulla strada verso la “liberazione”; e, nel migliore dei casi, la dichiarazione di Antonio Guterres, Segretario generale dell’Organizzazione, inizia condannando la “soffocante occupazione” patita “per cinquantasei anni” dal popolo di Gaza. Un’Onu che, inoltre, quando gli israeliani contrattaccano, riprende le formule linguistiche di Hamas per stigmatizzare un esercito ritenuto colpevole — proprio mentre favorisce il passaggio di camion, in numero crescente, pieni di aiuti umanitari — di provocare una carestia (ancora Guterres, tweet del 31 marzo) e di perpetrare non uno, bensì “molteplici atti di genocidio” (Francesca Albanese, Relatrice speciale sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, in un documento pubblicato questa settimana nel quale si astiene dal giudicare i crimini di Hamas perché non rientrerebbero, così scrive, nell’“ambito geografico del suo mandato”). Un’Onu che, sia detto per inciso, negli anni Settanta e Ottanta fu guidata da Kurt Waldheim, un ex ufficiale delle SS implicato nella deportazione verso Auschwitz di 48533 ebrei di Salonicco e di ritorno ai posti di comando quando un’altra agenzia ancora, l’Unesco, definì “razzista” lo Stato dove trovarono rifugio i sopravvissuti della Shoah. Siffatta Onu è un disastro. È una bella idea mancata. È un Meccanismo che, dando una medesima autorità politica alla Corea del Nord o alla Siria e a un Paese baltico o nordico, è diventato tanto impotente e, in fin dei conti, nefasto quanto lo fu la Società delle Nazioni negli anni che portarono al nazismo e poi alla guerra. Premesso tutto ciò, vi sono due strade: rifondare l’Organizzazione da capo a piedi, con un ripensamento radicale di tutte le procedure che conducono a situazioni così grottesche e ripugnanti, oppure prendere atto di questo stato di “morte cerebrale” per immaginare altro: perché non pensare a un Parlamento mondiale di popoli liberi che — davanti a una nuova guerra che veda contrapporsi l’“impero” (l’Occidente, le democrazie e coloro che nei due terzi del pianeta vivono sottomessi ma si richiamano ai principi dell’Illuminismo) e i “cinque regni” (Russia, Cina, Turchia neo-ottomana, nostalgici del Califfato sunnita, Iran) — riprenda il nobile programma del cosmopolitismo kantiano, dotandosi però, questa volta, dei mezzi necessari a realizzarlo? Ci tornerò su. (Traduzione di Anna Bissanti)

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