domenica 12 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
12.08.2023 Ucraina, lo scrittore-soldato: 'Ho capito perché combattiamo'
Analisi di Artem Chekh

Testata: La Repubblica
Data: 12 agosto 2023
Pagina: 13
Autore: Artem Chekh
Titolo: «In trincea a Bakhmut ero sicuro di morire. Invece ho capito perché combattiamo»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 12/08/2023, a pag. 13, con il titolo “In trincea a Bakhmut ero sicuro di morire. Invece ho capito perché combattiamo” l'analisi di Artem Chekh.

Chekh Artem
Artem Chekh

Quando la Russia ha lanciato la sua invasione su vasta scala dell’Ucraina, stavo scrivendo un romanzo. È ambientato in America nel 1863 e narra le vicende di un ucraino che si sposta dalla Virginia al Missouri e lungo il cammino incontra personaggi eccentrici, soldati, disertori, schiavi in fuga. La storia degli Stati Uniti mi ha sempre interessato molto e mi affascinava l’idea di integrare nelle vicende della Guerra Civile americana un protagonista ucraino – non un classico emigrante, ma un soldato che combatte per il Nord, con una storia personale di servitù sotto il giogo dell’Impero russo. Si supponeva che questa storia diventasse un libro e che io coronassi un mio sogno: percorrere la strada del mio protagonista da Front Royal in Virginia a Ozark in Missouri, assaporando tutte le belle cose nelle quali mi fossi imbattuto. Invece, non contenta di aver già annientato la sovranità dell’Ucraina, la Russia aveva altri piani. Ho accantonato il romanzo e ho imbracciato le armi. Adesso sto facendo il possibile per evitare al mio Paese una nuova fase di servitù. Questo è quanto è successo, e lo accetto. Avevo davvero voglia di combattere? Sul serio centinaia di migliaia di ucraini sono disposti a rischiare la vita, lasciare le loro famiglie, finire in trincee allagate o nell’arida steppa? Ero davvero pronto a morire ai confini del mondo, da dove non tutti ritornano? Probabilmente, ogni soldato ucraino si pone queste domande senza risposta. A Bakhmut, dove ho prestato servizio a maggio, questi interrogativi erano ineludibili. All’unità ai miei comandi è stato affidato il compito di costruire una postazione di combattimento alla periferia della città, ma la situazione si è evoluta molto rapidamente. I russi hanno conquistato il resto della città e la maggior parte delle unità ucraine se ne è andata. All’improvviso ci siamo trovati in trappola. Non c’era nessuno a coprirci. Alla ricerca di protezione, mi sono disteso in una piccola trincea. Ho trascorso cinque giorni inquella tomba in attesa della morte, orinando ogni tanto in una bottiglia di plastica e contando per distrarmi le calorie che consumavo e la quantità di acqua che bevevo. (Giorno uno: 560 calorie, 350 millimetri di acqua. Giorno due: 780 calorie, 550 millimetri di acqua. E così via.) Per 115 ore sono rimasto disteso in una fossa profonda un metro e venti, dove osservavo il cielo sereno e trasalivo alle esplosioni nelle vicinanze. Tutto intorno era l’inferno. Considerato che ci trovavamo lungo la strada che porta fuori da Bakhmut, i soldati in ritirata – esausti, feriti, sconvolti per le esplosioni – ci passavano accanto di continuo. Il nemico li attaccava, dai walkie- talkie si susseguivano informazioni frenetiche sulle vittime e sulle nostre teste i droni ronzavano incessantemente. Ci cadevano addosso rami d’albero recisi dalle bombe. Me ne stavo disteso sul fondo della mia fossa e pensavo che, pur avendo accettato la mia morte da tempo, in quel momento non ero ancora pronto a morire. Mia moglie non sa come si pagano le bollette, non le ho lasciato le password della mia casella di posta elettronica e dell’internet banking e ci sono pacchi in arrivo con la posta di cui non ho avuto il tempo di informarla. No, non ero pronto come si deve. Non le avevo scritto niente di significativo, prima di partire. Chi poteva immaginare che internet, il generatore, il cibo, l’acqua e quasi tutto sarebbe scomparso istantaneamente sotto il fuoco dell’artiglieria russa? In pratica, non c’era nessun modo per comunicare, non c’era nessun modo per trasmettere le password, non c’era nessun modo di controllare il destino del mio romanzo incompiuto. Parallelamente, ho riflettuto anche su quello che avrei fatto nel caso in cui fossi sopravvissuto. Sopravvivere: quella possibilità esisteva. Bene, in quel caso avrei scritto un messaggio. Avrei detto: “Amore, sono sopravvissuto”. Mi risultava difficile, però, pensare a un lieto fine. Ho preferito immaginare la mia morte quando, fradicio fino al midollo per la pioggia, dopo essermi addormentato per un’ora sotto i colpi di cannone, sarei rimasto ucciso da un ordigno russo. Sono trascorsi così il primo giorno, il secondo, il quarto. Storie diverse, persone, personaggi eroici sono andati e venuti. Non tutti sono stati abbastanza fortunati da restare vivi. Bakhmut bruciava davanti ai nostri occhi, e ricorderò per sempre l’odore della città che brucia. Tutto attorno a noi c’erano cadaveri, e ne ricorderò per sempre l’odore acre e pungente. C’era chi gridava, chi si buttava nella trincea, chi chiedeva sigarette, chi condivideva sigarette, chi chiedeva acqua, chi condivideva acqua. C’era chi saltava, correva ostrisciava. Alla fine del quinto giorno, all’improvviso, ha iniziato a piovere forte, è stato quasi un rovescio tropicale. Per la prima volta i bombardamenti si sono interrotti. E i walkie-talkie, le cui batterie non si erano esaurite del tutto, hanno trasmesso l’ordine di evacuazione. Così, sono andato via. Sotto il diluvio, assetato, fradicio, esausto, con sette chili di peso corporeo in meno e senza più munizioni. Avevo ancora le mie armi, però. Quando siamo arrivati a quindici chilometri dalla linea del fronte, presso un punto di trasbordo in una stazione di servizio, la connessione internet è tornata e ci è parso di essere relativamente al sicuro. Ho scritto a mia moglie: “Amore, sono sopravvissuto”. Stento a crederci ancora adesso. Volevo davvero combattere? Le centinaia di migliaia di ucraini che combattono desiderano farlo? Abbiamo figli, famiglia, un lavoro, passatempi e pacchi in arrivo con la posta. E alcuni di noi hanno un romanzo incompiuto che narra le avventure in America di un ucraino che non voleva combattere, ma che non ha potuto fare altrimenti. Anche noi non possiamo fare altrimenti, perché i nostri nemici stanno cercando ancora una volta di privarci del diritto di vivere sulla nostra terra. Stanno cercando di privarci del diritto alla libertà. Come potevo non imbracciare le armi? Per coloro che hanno vissuto per molti decenni nell’ abbraccio confortevole della democrazia e della libertà, e non conoscono la paura della prigionia e della tortura, è difficile comprendere perché un popolo così pacifico – che per tempi immemorabili ha coltivato il grano, ha estratto ferro e carbone, ha portato al pascolo il bestiame in praterie sconfinate – difende con simile accanimento ogni metro del suo Paese. Io, invece, conosco la risposta a questa domanda. Questa è la nostra splendida terra. E deve essere libera.

Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT