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La Repubblica Rassegna Stampa
20.06.2023 Jenin: nel covo dei terroristi
Analisi di Francesca Borri

Testata: La Repubblica
Data: 20 giugno 2023
Pagina: 15
Autore: Francesca Borri
Titolo: «La dichiarazione di guerra del padrino di Jenin: “Servono attacchi suicidi”»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/06/2023, a pag. 15, con il titolo "La dichiarazione di guerra del padrino di Jenin: “Servono attacchi suicidi” " la cronaca di Francesca Borri.

Palestinian doctor, claimed as terror group member, dies in Jenin gun  battle | The Times of Israel
Abdallah Abu Tin

JENIN — L’icona di Jenin è Abdallah Abu Tin. La lapide in sua memoria è all’entrata dell’ospedale in cui ha servito tutta la vita. È morto a ottobre: mentre combatteva con le Brigate al-Aqsa. Tipo Batman. Medico di giorno, giustiziere di notte. A Jenin combattono tutti. Anche quelli che hanno tutto. E hanno tutto da perdere. Per Israele, Jenin è il pericolo numero uno. Perché è a venti minuti dalla Linea Verde. Dal confine. E quindi è perfetta per infiltrarsi: e andare a sparare a Tel Aviv. Ma soprattutto perché con i palestinesi divisi tra Fatah e Hamas, e sempre più gli uni contro gli altri, Jenin invece è il feudo degli Zubeidi, una famiglia che più che una famiglia è una dinastia. E che è unita. «Fatah, Hamas, Pflp, Jihad. Qui ognuno ha le sue idee. Ma alla fine, l’obiettivo è uno ed è lo stesso per tutti: vincere». Parola di Jamal Zubeidi, il capostipite. O come dicono a Jenin, don Jamal: come don Vito Corleone. Come il Padrino. Ha iniziato al fianco di Yasser Arafat, è del 1956. Ha iniziato all’inizio. Con l’Olp. Quando i palestinesi cominciarono ad attaccare dai Paesi vicini. «E sono stati gli anni migliori. Gli anni in cui abbiamo capito che il nostro destino dipende dalle nostre forze, che la libertà va conquistata: che non arriva dagli altri. Che si tratti dei Paesi arabi, come allora, o come ora, di Fatah o Hamas. O di Hezbollah. O dell’Iran», dice. Non abbiamo che noi stessi, dice. Noi stessi e la volontà di Dio. Jenin è sotto il suo controllo. Ed è per questo che è ancora vivo: per Israele, e per l’Autorità Palestinese, che insieme a Israele è responsabile della sicurezza, è l’uomo con cui mediare.

Quando a dicembre è morto suo figlio Naim, ha cercato la tregua. Come don Vito con Sonny. Ma non ha più senso discutere, dice. «Il governatore mi ha appena chiesto per l’ennesima volta di fermare tutto. Ma in cambio di cosa? Se consegni le armi, hai un posto in polizia. O in Israele. E che significa? L’occupazione non è un problema individuale. E né è una questione economica: è una questione politica. Voglio una strategia sugli insediamenti. Su Gaza. Su Gerusalemme. Non so altrove, ma a Jenin non si combatte per l’auto nuova: si combatte per l’indipendenza», dice. «Per una vita nuova». E qual è la strategia più efficace?, chiedo. Non ha dubbi. «Gli attentati suicidi». Sono l’unica cosa che influenza Israele, dice. L’unica che Israele teme. «Ma Hamas è contraria. Perché durante la Seconda Intifada, Israele reagì assassinando i suoi leader uno a uno. E per ora, la sua priorità è il post-Abbas: è vincere le elezioni. Per questo non ha risposto all’ultima operazione su Gaza. O alle ultime incursioni nella moschea di al-Aqsa. Perché la sua priorità è il potere. Ormai sono tutti uguali. Ma sono stato chiaro: non mi importa. A Jenin sto io. E decido io». Non ha cambiato opinione neppure ora che i raid di Israele si sono intensificati. Ai muri di casa Zubeidile foto dei morti, o come si dice qui, dei martiri, sono sempre di più. Più che una casa, sembra la cappella di un cimitero. Il primo a sinistra è Zakariya: che dopo un master in Diritto internazionale a Ramallah, è rientrato a Jenin per avviare questa Terza Intifada dopo avere guidato la Seconda sulle orme del fratello Taha, ucciso dopo avere guidato la Prima sulle orme dello zio Ziad, fondatore delle Brigate al-Aqsa, e architetto del ritorno alla resistenza armata dopo gli Accordi di Oslo. Zakariya è in carcere, adesso. Ed è stato sostituito da suo fratello Daoud. Che invece è stato ucciso, ed è stato a sua volta sostituito da un altro fratello. Jibril. Che ora è in carcere. E ha passato il testimone a un altro fratello ancora. Abed. Ma al centro, la foto d’onore è quella di Nidal. Aveva vent’anni. Cosa ricorda di quella sera?, domando a sua madre, Nassra. Sorella di Jamal. «Ho brindato». Andò a farsiesplodere a Binyamina. Vestito con il vestito elegante della domenica. Morirono sei israeliani. Dice: «Ho brindato sei volte».

Il governatore Ibrahim Ramadan è categorico: non rischierà i suoi uomini. Non si opporrà a Israele. «Ero qui durante la Seconda Intifada. Quando Jenin è finita in macerie. E a costo di essere bollato come un traditore, sarò irremovibile. Perché se anche avessimo gli Rpg, invece degli M16, e fossimo capaci di fermare i carrarmati, gli israeliani verrebbero con gli F35. E se avessimo gli F35, verrebbero con il nucleare», dice. Con gli israeliani, dice, chi sceglie le armi sceglie la morte. «Che poi è esattamente quello che vogliono: eliminarci». Ma a Ahmad al-Qassam non interessa. Il suo nome è una leggenda, qui. E non solo perché è un veterano del Libano, di Beirut, dell’attentato del 1983 all’ambasciata degli Stati Uniti, che è ancora oggi quello in cui la Cia ha avuto più morti: è il nipote di Izzedin al-Qassam. Il primo dei guerriglieri. Ucciso a Jenin nel 1935 mentre combatteva contro l’Impero Britannico. Dopo tutta una vita a combattere il colonialismo su ogni fronte possibile. Per questo i razzi di Hamas si chiamano Qassam. «Israele è più forte, certo. Non c’è confronto», dice. «Ma tutto è transitorio. Sono il nipote di uno che ha sfidato gli inglesi con una baionetta quando gli inglesi erano padroni di mezzo mondo. E ora, invece, cosa sono? Non sono più niente», dice. «E anche Israele sparirà: è questa le lezione di Jenin. Fai la tua parte. Senza paura. Fai la tua parte, perché hai dalla tua parte la storia». È un sostenitore dello Stato unico. Con pari diritti?, dico. «Senza ebrei». A tradurre è Younis, che è stato a lungo funzionario di una agenzia internazionale. Immagino sia amaro per te, dico. Dopo tutto l’impegno per i bambini di Jenin. Perché avessero un futuro diverso. E ora tutti che vogliono diventare martiri, dico. Mi dice: «Sono straordinari».

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