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La Repubblica Rassegna Stampa
27.04.2023 Il coraggio di raccontare
Editoriale di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 27 aprile 2023
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Il coraggio di raccontare»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/04/2023, a pag. 1, con il titolo "Il coraggio di raccontare" l'analisi del direttore Maurizio Molinari.

Molinari: “Le sorti dell'Italia sono decisive per quelle dell'Europa” -  Mosaico
Maurizio Molinari

Bogdan Bitik
Bogdan Bitik

I proiettili che hanno colpito il nostro inviato Corrado Zunino e ucciso il suo fixer Bogdan Bitik sono gocce di odio che ci ricordano la ferocia del conflitto in corso in Ucraina. Zunino e Bogdan erano sul ponte di Kherson sul fiume Dnipro per girare un video sulla frontiera di fatto che separa i militari russi ed ucraini in un conflitto divenuto al momento una guerra d’attrito. Nella quale ogni giorno si spara, si uccide e si muore, solo perché entrambe le parti sono convinte di poter in questa maniera indebolire sempre di più il nemico in attesa dello scontro decisivo. È il sangue dell’altro che, scorrendo davanti agli occhi di chi spara, alimenta le speranze di vittoria. Ed è una dimensione della guerra dove i protagonisti sono gli artiglieri ed i cecchini perché entrambi sparano senza sosta sul fronte opposto, ma con una differenza: solo i secondi vedono di persona, con i loro stessi occhi, le vittime. Il cecchino che ha sparato dal lato russo del fiume ha inquadrato Zunino e Bitik nel mirino, non può non aver visto la grande scritta “Press” che era impressa sul giubbotto blu indossato dal nostro giornalista — come da ogni reporter in zona di guerra — ed ha premuto comunque, più volte, il dito sul grilletto. Ha sparato per ucciderli entrambi, per affermare con la forza del fuoco che quel ponte è una zona dove nessuno a lui non gradito può entrare, giornalisti inclusi. È la legge di un conflitto brutale che abbiamo visto negli ultimi 14 mesi divorare migliaia di vite, devastare città e villaggi, far sanguinare l’Europa come non avveniva dal 1945 a causa della decisione di un uomo solo: il presidente russo Vladimir Putin intenzionato a cancellare dalla carta geografica una nazione di oltre 40 milioni di persone — la sua storia, la sua cultura, la sua lingua — solo per ridisegnare gli equilibri di potere e influenza sul Vecchio Continente sulla base degli interessi del Cremlino. Sono almeno 15 gli inviati dei media — reporter, teleoperatori e collaboratori — caduti sotto il fuoco dall’inizio del conflitto in Ucraina. E dozzine di altri sono stati feriti. A volte colpiti dal fuoco russo, a volte da quello ucraino, in altri casi ancora impossibile da identificare. Quanto avvenuto ieri a Kherson ci dice che sono molti, tanti, i nostri colleghi che rischiano ogni giorno la vita per consentirci di conoscere cosa avviene sul campo di battaglia. E di non chiudere gli occhi e le menti su una guerra sanguinosa che avviene a poco più di due ore di volo dalle nostre città. Da qui l’importanza del ruolo degli inviati di guerra e di chi li affianca — autisti e traduttori, fixer e stringer — con un coraggio straordinario quotidiano che consente a noi di sapere fino a dove può arrivare l’orrore della guerra. Ma non è tutto: per un inviato in zona di guerra, la scritta “Press” sul giubbotto che indossa, sull’elmetto che ha in testa o sulla macchina su cui viaggia è una sorta di scudo personale. Tanto precario nella forma quanto cruciale nella sostanza. L’inviato sa bene che esiste, vale, funziona, lo protegge solo perché tutti i contendenti in qualche maniera — e per le ragioni più differenti — lo rispettano. Ecco perché quando si viene bersagliati dal fuoco pur avendo quello scudo ben in vista — come avvenne anche a me durante il conflitto serbocroato — ci si sente improvvisamente nudi, indifesi, in balia di tutto e tutti. Senza equilibrio. E si viene assaliti dalla percezione che lavorare, scrivere, è diventato impossibile visto che almeno una delle parti in guerra ha scelto di violare la neutralità dei media. Ciò che pensi, dentro di te, è che ogni persona che vedi, incontri, potrebbe spararti. È una sensazione di solitudine e vulnerabilità che non si dimentica mai. Ma è proprio quello il momento nel quale un inviato, un fixer, può riuscire a trovare dentro di sé la forza di tornare in campo, appena possibile, perché ancor più consapevole dell’importanza del suo lavoro. Se infatti il cecchino spara facendosi beffa della scritta “Press” per portare il terrore anche fra i giornalisti, e proteggersi ancor più dallo sguardo del mondo, la risposta più difficile ma più importante è non accettare il suo diktat: tornare a vedere, raccontare e scrivere. Con la banalità del coraggio che nutre il giornalismo di qualità, senza il quale saremmo ciechi e sordi davanti alla violenza più brutale che l’uomo continua a usare contro il prossimo.

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