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La Repubblica Rassegna Stampa
06.04.2023 Il giornalista nelle mani di Putin
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 06 aprile 2023
Pagina: 13
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Evan Gershkovich, quel giornalista nelle mani di Putin: un passo in più verso l’escalation»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 06/04/2023, a pag. 13, l'analisi dal titolo "Evan Gershkovich, quel giornalista nelle mani di Putin: un passo in più verso l’escalation" di Bernard-Henri Lévy.

Bernard-Henri Lévy - Concordia
Bernard-Henri Lévy

Evan Gershkovich: Wall Street Journal reporter appeals against arrest in  Russia | CNN
Evan Gershkovich

E così un giornalista americano, Evan Gershkovich, è stato arrestato in Russia. Ex corrispondente di Agence France Presse, poi redattore al Wall Street Journal, Gershkovich è stato fermato a Ekaterinburg, a 1.500 chilometri a Est di Mosca. Servendosi sia del portavoce del ministero degli Esteri sia di quello del Cremlino, le autorità russe ne parlano come di un agente catturato in flagrante delitto di spionaggio e che ora rischierebbe venti anni di carcere. I suoi colleghi, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, sanno bene che non è così. Leggevano, o forse stanno leggendo adesso, le sue eccellenti inchieste sul Covid in Russia, gli incendi della foresta in Siberia, i miliziani della Wagner, l’isolamento politico di Putin, o la crisi economica con la quale la guerra in Ucraina ha finito con il far sprofondare il Paese. È d’obbligo pertanto ammettere che, per la prima volta dalla fine della Guerra fredda e dall’arresto, nel 1986, di Ivan Safronov, la Federazione Russa prende in ostaggio un giornalista americano e si comporta, così facendo, come un gruppo di jihadisti in Libano o in Siria. Alcuni diranno che non si tratta di chissà quale affare: in fondo, si tratta solo di un giornalista in tempi in cui, nella regione, si uccide come se si disboscasse. Se non lo dicono, può darsi che pensino che, in fondo, come diceva Sartre citando Céline, si tratta soltanto di «un giovane senza importanza collettiva», la cui sorte non conta niente rispetto a quella di milioni di donne e uomini minacciati da nove anni, da quando la guerra è iniziata. Avrebbero torto. Prima di tutto perché, contro i cinici, i furbi e altri che giocano con il destino, non si ricorderà mai abbastanza l’ovvietà della parola di Malraux: senza dubbio una vita non vale nulla, ma nulla vale una vita, soprattutto quando si ha il potere, come qui, come adesso, di salvarla. In secondo luogo, perché l’arresto di Evan Gershkovich non è un arresto qualsiasi ma, ancora una volta, la cattura di un ostaggio: il passaggio agli ostaggi – lo si sa dai tempi delle guerre persiane e da Erodoto, non è mai un fatto isolato, un capriccio, un caso, ma il segno, in tutte le guerre, di un crescendo. C’è stato il ricatto ai rifugiati, al gas, al grano, al nucleare? Beh, ecco adesso un ricatto nuovo, un passo in più verso il terrore, un livello supplementare nell’escalation o nel tracollo verso l’inferno dove ci sta portando Putin e che si deve a tutti i costi scongiurare. E, infine, perché vi sono uomini simbolo che, per loro disgrazia, sono più di quel che sono, e il cui destino, all’improvviso, abbraccia quello dei loro tempi: possa il confronto non essere giusto, ma come non pensare, proprio adesso, a quell’altro giornalista, anche lui del Wsj, senza importanza collettiva lui stesso, che si chiamava Daniel Pearl e le cui caratteristiche (la giovane età, certo, ma anche l’integrità, l’amore per il suo mestiere, il suo rapporto con il prossimo, avesse pure il volto del suo nemico, il suo essere ebreo…) lo avvicinano a Evan? Fu un altro servizio segreto, quello pachistano, a pianificarne il rapimento. L’Fsb locale, il Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa, gli fece pagare il triplice delitto di essere americano, ebreo e autore di articoli che svelavano il rovescio della medaglia di un Paese in procinto di consegnare i suoi segreti militari ad Al Qaeda. La comunità internazionale comprese subito che il suo calvario stava aprendo, ahimè, una nuova era nella storia della guerra contro l’islamismo radicale… Mi auguro, ancora una volta, che non siamo arrivati a questo punto. Ma guardo le foto di Evan. Il suo sguardo, bello, grigio e diritto, a fior di pelle, sembra fissarci… Ha l’aspetto di uno sicuro di sé, giovane e serio, come avevano gli eroi di Hemingway e anche Daniel Pearl… Osservo questa immagine terribile nella quale lo si intravede, a testa bassa, con il cappuccio della felpa gialla sollevato sul capo, fotografato come un prigioniero del diritto comune o, di nuovo, come Daniel Pearl alla vigilia del suo supplizio… Mi dico che, in questo Stato terrorista che ormai è la Russia, tutto è possibile, assolutamente tutto, trattandosi di un americano i cui genitori sono nati uno a Odessa e l’altra a San Pietroburgo: una lunga permanenza in una cella del carcere di Lefortovo, a Mosca; un avvelenamento con metalli pesanti come l’ex presidente Saakashvili, nella Georgia asservita; oppure, peggio ancora, la sorte di Serghej Magnitskij, collaboratore dell’uomo d’affari americano Bill Browder e torturato a morte nella sua cella nel 2009. In ogni caso, ciò comporta una triplice urgenza. Comprendere che la Russia è un Paese nel quale un giornalista libero non gode di alcuna forma di protezione legale e trarne i debiti insegnamenti, in piena coscienza e in ogni redazione. Non interrompere il “clamore mediatico” di cui si lamenta in modo comico il ministro Lavrov e restare compatti e uniti per sostenere un collega in pericolo. E poi, naturalmente, fare di tutto per tirare Evan fuori da lì. Di tutto. Fosse anche a costo di uno scambio spiacevole con una spia russa, quella vera, sì, alla quale il Cremlino sembra tenere molto. Ma è importante che tutto ciò accada senza perdere di vista che si sta trattando con dei barbari; che, come diceva lo storico Jean-Pierre Vernant, è un po’ come parlare di gastronomia a degli antropofagi, e che se c’è davvero qualcuno che merita di finire i suoi giorni in prigione quello è Putin.
Traduzione di Anna Bissanti

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