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La Repubblica Rassegna Stampa
12.08.2022 Se l’Occidente terrorizzato si autocensura
Analisi di Corrado Augias

Testata: La Repubblica
Data: 12 agosto 2022
Pagina: 30
Autore: Corrado Augias
Titolo: «Se l’Occidente terrorizzato si autocensura»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 12/08/2022, a pag. 30, con il titolo "Se l’Occidente terrorizzato si autocensura" l'analisi di Corrado Augias.

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Corrado Augias

L'Opinione delle Libertà

Ha fatto bene Antonello Guerrera a segnalare prontamente (su Repubblica di ieri) da Londra il fenomeno delle letture proibite o sconsigliate nelle università inglesi. Vi figurano autori moderni e contemporanei ma anche il padre di ogni letteratura, Shakespeare nientemeno, nel cuiSogno di una notte di mezza estate si scorgerebbero segni di classismo. Non vado a controllare, è possibile che ci siano, così come è certo che nei libretti della lirica italiana compaiano pesanti riferimenti agli abietti zingari e al sangue dei negri. Il fenomeno repressivo va sotto l’etichetta “politicamente corretto”, investe uomini politici, documenti, statue, espressioni verbali, comportamenti. La sua finalità, inizialmente, era di convincere ad evitare locuzioni offensive o denigratorie. Solo un’imposizione di tipo sociale sarebbe stata in grado di farlo. Tutto è cominciato non molto tempo fa, in via approssimativa diciamo mezzo secolo, un inizio a volte ironico o autoironico all’interno dei gruppi progressisti americani, una presa in giro verso chi ostentasse una rigida osservanza dell’ortodossia di sinistra. Ilfenomeno è velocemente dilagato. Sparita ogni venatura ironica, l’osservanza del linguaggio e dei comportamenti considerati corretti ha generato di rimbalzo segni sempre più forti di rigetto verso chi li violasse con il conseguente pericolo di un soffocante conformismo. Questo in sostanza raccontava Jonathan Friedman nel suo saggio Politicamente corretto (Meltemi) che ha come sottotitolo Il conformismo morale come regime . Il volume ha incontrato giudizi controversi. Friedman è un antropologo, vive da anni in Svezia. Sua moglie Kajsa Ekholm-Friedman, anch’essa antropologa, venne criticata per aver sostenuto che nei ghetti etnici delle periferie svedesi sopravvivevano usi tribali a causa dell’esclusione sociale di chi vi abita. Tesi accusata di razzismo. Il “politicamente corretto”, sostiene Friedman, è in primo luogo un problema di disciplina del linguaggio, s’è creato un clima in cui più che alla sostanza dei problemi, si bada alle parole con cui vengono espressi. Si crea in questo modo una specie di obbligo ad adeguarsi al pensiero dominante. Non è necessario l’uso della forza, basta il rischio di un’esclusione sociale.Con conseguenze pericolose, per esempio quella di ritardare la soluzione d’un problema, nel timore di una sanzione sociale per chi lo espone. Chi dicesse che i bambini dei campi nomadi sono addestrati al furto e al borseggio, rischierebbe un’accusa di razzismo a prescindere dalla verità o meno dell’accusa. Esistono problemi che è diventato difficile affrontare nel timore di non avere i termini giusti per esporli. Credo che si sia avvicinato molto al nucleo centrale di questo fenomeno Douglas Murray (autore e commentatore politico britannico) nel suo saggio La pazzia delle follepubblicato in Italia da Neri Pozza. La sua opinione è che molta dell’attuale confusione derivi dal fatto che le grandi narrazioni, a cominciare da quelle politiche ereligiose, appaiono in netto declino. Ma poiché anche la natura sociale aborre il vuoto ecco che «nel vuoto postmoderno hanno finito per infilarsi di soppiatto idee nuove con l’intento di fornire proprie spiegazioni e significati». Il ruolo della “narrazione” (Storytelling, in inglese) cioè l’uso di correttemodalità di comunicazione prevale sulla sostanza dei problemi soprattutto negli ambienti che si definiscono “di sinistra” come se non esistessero più fenomeni sociali oggettivi ma solo “regimi di verità” generati dal linguaggio. Il che è in parte vero. Se io sono socialmente autorizzato a dare scherzosamente una pacca ad una cameriera o a una collega di lavoro, posso sentirmi autorizzato anche ad andare più in là. Se al contrario vige un divieto sociale a farlo, mi sentirò frenato prima ancora che intervenga il timore di possibili conseguenze giudiziarie. È accaduto che doverose campagne per i diritti umani, per la protezione dei più deboli, per comportamenti e linguaggio più corretti, hanno debordato dalle finalità iniziali, legittimando chi se ne ritenga depositario a definire fascista, razzista, omofobo chiunque si discosti dall’opinione prevalente. Il discorso pubblico è disseminato di trappole pronte a scattare sotto il malcapitato che metta un piede fuori dai sentieri battuti del senso comune. Fenomeno che si può essere tentati di liquidare con un sorriso e contiene invece un sintomo preoccupante. È la paura che porta a chiedere di abbattere le statue di Churchill o di Cristoforo Colombo, di sconsigliare la lettura di Jane Austin o di Charles Dickens. È come se le democrazie avessero messo in discussione le proprie conquiste civili e i propri ideali, le stesse radici dialettiche sulle quali la civiltà occidentale è stata costruita. Troppi cambiamenti,troppe ansie, le conseguenze politiche sono drammatiche, quelle culturali possono diventare grottesche. Come scrive Douglas Murray nel saggio citato: «Scomparse tutte le grandi narrazioni, nel discorso pubblico si sono fatte spazio le loro caricature».

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