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La Repubblica Rassegna Stampa
29.06.2022 Il vertice di Madrid, la Nato alla sfida della Cina
Analisi di Gianni Vernetti

Testata: La Repubblica
Data: 29 giugno 2022
Pagina: 32
Autore: Gianni Vernetti
Titolo: «Il vertice di Madrid, la Nato alla sfida della Cina»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi 29/06/2022 a pag.32 con il titolo "Il vertice di Madrid, la Nato alla sfida della Cina", l'analisi di Gianni Vernetti

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Gianni Vernetti

2022 NATO Madrid summit - Wikipedia

Nel vertice Nato che inizia oggi a Madrid, i Paesi dell’Alleanza sigleranno la nuova versione del “concetto strategico” nel quale la Cina verrà indicata come “fonte di preoccupazione” e per la prima volta verranno analizzate in modo sistemico le sfide alla sicurezza globale poste da Pechino. Le continue minacce a Taiwan con un crescendo di incursioni aeree dell’aeronautica di Pechino nello spazio aereo della Cina democratica; la dichiarata “alleanza senza limiti” siglata fra Xi e Putin lo scorso 4 febbraio, poco prima l’inizio del conflitto in Ucraina; la costante promozione da parte della Cina della narrativa russa e le accuse oramai quotidiane sull’allargamento a est della Nato, sono il contesto nel quale nasce la necessità di ridefinire da parte dell’Alleanza Atlantica una dottrina geopolitica e di sicurezza in grado di contrastare efficacemente l’accresciuta assertività della Repubblica Popolare Cinese. Ma se fino a ieri le sfide globali di Pechino erano sostanzialmente di carattere geo-economico, ben rappresentate dal progetto della Nuova Via della Seta con la quale Pechino ha provato a riscrivere le regole della globalizzazione e dell’integrazione delle economie di Asia, Europa ed Africa secondo parametri non democratici e finanziariamente insostenibili (la trappola del debito), oggi assistiamo ad un salto di qualità che investe la sfera militare e della sicurezza. La Repubblica Popolare Cinese dopo avere occupato illegalmente una grande porzione del mar Cinese Meridionale e trasformato gli atolli disabitati delle Isole Spratly e Paracels in grandi basi militari permanenti nonostante le molteplici, e legittime, rivendicazioni territoriali sugli stessi atolli di Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei che si affacciano su quello specchio di mare, ha iniziato una diffusa campagna nell’Oceano Pacifico con accordi sulla sicurezza (Isole Salomone), yuan diplomacy per far abbandonare il riconoscimento di Taiwan (Kiribati)ed un tentativo fin qui fallito di un accordo globale sulla sicurezza con i paesi del Pacific Islands Forum. Ma l’offensiva cinese si dispiega a tutto campo e sta assumendo i connotati di una vera propria “proiezione globale” di carattere militare. Tre scelte strategico di Pechino degli ultimi giorni hanno allarmato le cancellerie fra le due sponde dell’Oceano Atlantico. La prima la legge firmata il 13 giugno da Xi-Jinping che autorizza l’esercito popolare di liberazione a condurre “operazioni speciali militari” al di fuori dei propri confini. Il linguaggio è tecnicamente lo stesso di Putin e d’altronde se per il satrapo di Mosca l’Ucraina non esiste e non è altro che un appendice del mondo slavo e russofono, per Xi-Jinping Taiwan è soltanto una provincia ribelle da ricondurre alle regole della madrepatria con le buone o con le cattive. La riscrittura della storia è d’altronde una costante dei regimi totalitari. Il secondo fatto rilevante è rappresentato da quanto emerso nei giorni scorsi in merito alla costruzione della seconda base militare cinese in Cambogia, nel cuore dell’Indo-pacifico, poco a nord della base navale di Ream della marina reale cambogiana. La base militare cinese di Gibuti nel corno d’Africa, collocata all’imbocco del Mar Rosso, non è più sola. Infine il varo della terza portaerei cinese, la Fujan, la prima interamente progettata e costruita in Cina e con catapulta elettromagnetica. Ma accanto alla tecnologia di lancio (oggi presente soltanto nella flotta americana e francese), ciò che inquieta è la narrativa di conquista sottesa proprio nella scelta del nome: il Fujan è la provincia meridionale che si affaccia sullo stretto di Taiwan, quel tratto di mare di soli duecento chilometri nel quale la “libertà di navigazione” richiesta da Taiwan e dalla comunità dei Paesi democratici, potrebbe essere presto interdetta da un’autocrazia con ambizioni sempre più globali.

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