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La Repubblica Rassegna Stampa
07.07.2021 Israele, non passa la legge sulla cittadinanza. Scontro Bennett-Netanyahu
Cronaca di Sharon Nizza

Testata: La Repubblica
Data: 07 luglio 2021
Pagina: 1
Autore: Sharon Nizza
Titolo: «Israele, non passa la legge sulla cittadinanza. Primo ostacolo per il governo Bennett - Israele, l’ora di Bennett. Dopo dodici anni Netanyahu è fuori»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA online di oggi, 07/07/2021, l'articolo di Sharon Nizza dal titolo "Israele, non passa la legge sulla cittadinanza. Primo ostacolo per il governo Bennett"; a seguire, l'articolo del 14/06/2021 dal titolo "Israele, l’ora di Bennett. Dopo dodici anni Netanyahu è fuori", che completa il quadro.

A destra: la Knesset, il Parlamento israeliano

Ecco gli articoli:

"Israele, non passa la legge sulla cittadinanza. Primo ostacolo per il governo Bennett"

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Sharon Nizza

A tre settimane dall’insediamento, convalidato allora da una risicata maggioranza di 60 voti contro 59, il nuovo governo Bennett-Lapid continua a muoversi sul filo del rasoio, rivelando le grandi tensioni all'interno della fragile coalizione che riunisce otto partiti con profondi divari ideologici. Questa notte l’arte del compromesso politico ha superato alla Knesset i limiti del paradosso: dopo 15 ore di seduta, la maggioranza è stata sconfitta su un voto dai risvolti altamente simbolici, oltre che pratici. Al centro della discussione, la proroga della legge che, dal 2003, impedisce la naturalizzazione di palestinesi di Gaza e Cisgiordania che abbiano contratto matrimonio con cittadini israeliani, de facto impedendo il ricongiungimento familiare tra cittadini arabi israeliani e palestinesi (in seguito la legge è stata estesa anche agli Stati nemici: Libano, Siria, Iraq, Iran). Si tratta di un decreto a scadenza annuale voluto dall’allora premier Ariel Sharon nel pieno della Seconda Intifada a seguito del coinvolgimento in atti terroristici di diversi palestinesi che avevano ottenuto la cittadinanza israeliana in virtù del ricongiungimento familiare. Per 18 anni, la legge è stata rinnovata annualmente, con consenso trasversale e opposizione limitata ai partiti arabi e alla sinistra di Meretz. A cambiare le carte in tavola questa volta, il fatto che Meretz e il partito islamista Ra’am fanno parte dell’attuale, eterogenea coalizione di governo. La maggioranza contava sui voti dell’opposizione per quello che reputava un voto di routine. Sostegno invece non pervenuto: Netanyahu, che per 12 anni consecutivi ha fatto passare la legge in questione, non si è fatto sfuggire l’opportunità di mettere i bastoni tra le ruote al nuovo esecutivo. “Non saremo di certo noi a offrire una rete di sicurezza a chi ha scelto di allearsi con chi mette a rischio la sicurezza d’Israele”, ha detto l’ex premier, che ha dichiarato guerra al governo Bennett-Lapid dal primo istante in cui è tornato a guidare l’opposizione. Dopo estenuanti trattative, il governo era riuscito a raccogliere il sostegno alla legge in seno alla coalizione, con un compromesso per cui la legge veniva prolungata per soli sei mesi, con impegno di revisione e di concessione di almeno 1,600 eccezioni per motivi umanitari. All'ultimo, l'opposizione ha chiesto che il procedimento fosse convertito in un voto di sfiducia. Meretz ha votato a favore, Ra'am ha dato 2 voti di sostegno e 2 astensioni. Non è stato sufficiente perché, Amichai Chikli, parlamentare di Yamina (il partito del premier Naftali Bennett) si è opposto, contro le previsioni del partito con cui in realtà era già in rotta di collisione non avendo votato il 13 giugno la fiducia al nuovo governo. Risultato: 59 voti a favore, 59 contrari, insufficienti per fare passare la legge, ma anche per fare passare la mozione di sfiducia (che richiede 61 sostegni). Il paradosso? L'ha espresso bene Ayman Oudeh della Lista Araba Unita ringraziando i compagni ai banchi dell'opposizione - Netanyahu, i partiti ultraortodossi e la destra nazionalista religiosa di Betzalel Smotrich - con i quali dopo 18 anni sono riusciti ad abrogare la controversa legge. Per smarcarsi dall'insolita joint venture, Netanyahu sostiene ora di voler dimostrare "l'impegno sionista" della coalizione di governo trasformando il decreto in una legge fondamentale dello Stato che regoli in pianta stabile la materia. Al termine della seduta, il premier Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione di fuoco: "L'opposizione, guidata da Bibi e Tibi, non è riuscita a rovesciare il governo, ma è sì riuscita a minare la sicurezza di Israele, con una politica spicciola ai danni dei cittadini. Per Bibi, se lui non è al potere, lo Stato può andare in fiamme". Il grande perdente di oggi rischia di essere Mansour Abbas, che con il suo partito islamico Ra'am ha fatto la storia sostenendo per la prima volta una coalizione guidata da un premier di destra. Il suo sostegno a una legge che colpisce in primis il suo elettorato rischia di alienargli il consenso popolare a favore dei rivali della Lista Araba Unita. Oltre a ragioni di sicurezza, la legge implica anche motivazioni demografiche. Nel decennio dagli Accordi di Oslo all’adozione della norma, sono stati naturalizzati 135,000 palestinesi (tra loro anche le tre sorelle del leader di Hamas Ismail Hanyeh, che da Gaza si sono trasferite negli anni a Tel Sheva a seguito di matrimonio con cittadini israeliani). Un ritmo che “contribuirebbe a mettere a rischio il carattere ebraico dello Stato d’Israele in meno di due generazioni”, secondo il professore emerito dell’Università di Haifa Arnon Soffer, uno dei principali sostenitori della legge. Secondo gli oppositori, si tratta di una legge discriminatoria che mina i diritti fondamentali dell’individuo e pone innumerevoli questioni umanitarie che ledono la vita di circa 15.000 nuclei familiari. Molti dei coniugi vivono in Israele con permessi temporanei che limitano il loro diritto alla libera circolazione, all’accesso ai servizi sanitari, o anche solo la semplice possibilità di ottenere la patente di guida. Negli anni, a seguito di due ricorsi alla Corte Suprema, sono state aumentate le prerogative del ministero dell’Interno che ha facoltà di agevolare le pratiche umanitarie e di concedere lo status di residenza temporanea, che viene concesso ogni anno a circa 1.600 domande. Nelle motivazioni presentate dagli apparati di sicurezza durante la discussione del provvedimento, sono stati citati dati per cui la seconda generazione di ricongiungimenti familiari è risultata coinvolta in atti di terrorismo (attacchi compiuti, pianificati, assistenza economica o fornimento di armi) in una proporzione tre volte superiore rispetto al loro peso demografico. Con la legge scaduta, di fatto la situazione non cambia nell'immediato, perché ora ogni caso andrà vagliato singolarmente dalla ministra degli Interni Ayelet Shaked, insieme agli apparati di sicurezza. Shaked, braccio destro di Bennett, intende ripresentare la legge a stretto giro.

"Israele, l’ora di Bennett. Dopo dodici anni Netanyahu è fuori"

Israele ha un nuovo governo. E per la prima volta in 12 anni consecutivi, a guidarlo non sarà Benjamin Netanyahu, che ieri al termine del voto di fiducia, ha preso posto tra i banchi dell’opposizione. Il “patto dei fratelli”, il connubio tra Naftali Bennett e Yair Lapid iniziato proprio sotto il governo Netanyahu del 2013, si è cementato negli anni fino a portare alla svolta epocale. Ma è stata una strada tortuosa fino all’ultimo quella che ha accompagnato la formazione del 36mo governo israeliano: in extremis, un parlamentare di Ra’am, Said al-Harumi, si è astenuto, facendo così nascere un governo con 60 consensi su 120 seggi della Knesset, sufficiente per giurare, ma non per passare, per esempio, la legge di bilancio, la prima sfida della nuova alleanza. Parte quindi già zoppicante la fragile coalizione che riunisce 8 formazioni politiche che abbracciano quasi l’intero arco costituzionale: dalla destra nazionalista di Yamina di Bennett, che subentra a Netanyahu come premier, passando per il centro laico di Yair Lapid - che sostituirà Bennett alla presidenza del consiglio nell’agosto 2023 - per finire con la sinistra progressista del Meretz, che torna al governo dopo 20 anni, e con la vera novità di questa svolta: il partito islamico Ra’am di Mansour Abbas, la prima volta dal 1977 che un partito arabo sostiene attivamente una maggioranza, e la prima volta in assoluto che appoggia un premier di destra, che per giunta ha servito come leader del Consiglio Yesha, espressione del movimento degli insediamenti. Mentre chiedeva la fiducia alla Knesset, Bennett è stato interrotto ripetutamente dalle opposizioni che lo accusano di aver frodato gli elettori di destra per formare una “coalizione di sinistra” e di non essere legittimato, con soli 6 seggi, a guidare il Paese. Un circo di urla e sceneggiate, tanto che Lapid ha rinunciato al suo intervento da “premier alternato”. Netanyahu, nel suo ultimo discorso da premier, ha ripercorso le tappe con cui ha portato Israele a essere «una potenza mondiale, una delle venti economie migliori al mondo». «Vi chiedo solo una cosa: non rovinate il Paese che vi consegniamo, così non dovremo metterci troppo a rimetterlo in sesto appena torneremo». Netanyahu non intende mollare, ma ora dovrà dedicarsi anche a mantenere la sua base all’interno del Likud. Gli altri grandi assenti nella svolta storica sono i partiti ultraortodossi, che il nuovo governo punta a coinvolgere in un futuro non troppo lontano per garantirsi maggiore spazio di manovra. Sono innumerevoli le sfide del “governo del cambiamento”, ma a piazza Rabin a Tel Aviv si pensa all’oggi: i manifestanti che per un anno hanno chiesto le dimissioni di Netanyahu festeggiano e brindano. Si apre un nuovo capitolo per Israele, domani è un altro giorno.

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