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La Repubblica Rassegna Stampa
04.09.2009 Il burqa viene definito 'rifugio'. L'intervistatore non commenta
Nel libro dello scrittore afghano Atiq Rahimi

Testata: La Repubblica
Data: 04 settembre 2009
Pagina: 47
Autore: Fabio Gambaro
Titolo: «Confessioni di un'afghana»

Riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 04/09/2009, a pag. 47, l'intervista di Fabio Gambaro a Atiq Rahimi, scrittore afghano, dal titolo " Confessioni di un'afghana " .

Atiq Rahimi parla della condizione della donna in Afghanistan e scrive : " Io volevo mostrare che, nonostante il velo, sono come tutte le altre donne. Hanno un corpo, una sessualità e dei desideri. E più la repressione e la guerra opprimono le loro vite, più si rifugiano nel loro mondo nascosto ". Non è solo la guerra a opprimere la vita delle donne, ma la sottomissione all'uomo. Il Burqa non è un mondo nascosto, non è un rifugio. E' un obbligo e un simbolo di segregazione e sottomissione della donna.
Ecco l'intervista:

Rivelatosi una decina di anni fa con il bellissimo Terra e cenere, cui ha fatto seguito Le mille case del sogno e del terrore, Atiq Rahimi torna nuovamente nelle librerie con Pietra di pazienza (Einaudi, pagg. 109, euro 17), un romanzo sconvolgente che l´anno scorso in Francia si è aggiudicato il premio Goncourt. Lo scrittore nato a Kabul ma da molti anni residente a Parigi, dove si occupa anche di cinema e fotografia, vi mette in scena una donna afgana che rivolge al marito ferito e privo di conoscenza un lungo e disperato monologo. Fuori c´è la guerra con le sue minacce. La protagonista rimasta sola confessa così la paura e la rabbia, ma anche i sogni e i desideri più nascosti. Prima sussurrando, poi con sempre più forza, pronuncia parole proibite, infrange tabù, lasciandosi andare a gesti e confessioni mai fatte. Scritto per la prima volta direttamente in francese, il romanzo, che in Francia ha venduto oltre 350.000 copie, squarcia il velo su un mondo di silenzio, sofferenza e sottomissione, proponendosi come un disperato grido di rivolta contro la terribile condizione delle donne afgane.
«Il libro è figlio dell´indignazione e della collera», racconta Rahimi, che giovedì 10 settembre sarà al Festivaletteratura di Mantova. «Nel 2005, ad Herat, la giovane poetessa afgana Nadia Anjuman venne assassinata dal marito, che poi in carcere tentò di suicidarsi. Poco tempo dopo andai in Afghanistan, dove provai a far luce sulla vicenda, senza però grandi risultati. Scrissi allora una lettera aperta per denunciare la condizione delle donne afgane, in particolare ad Herat, dove molte giovani ragazze preferiscono immolarsi, pur di sfuggire ai matrimoni combinati e alle violenze degli uomini. In seguito, quella tragedia ha continuato a tormentarmi, tanto che due anni dopo ho scritto di getto questo romanzo».
E´ un libro senza molte speranze. E´ così pessimista?
«Nel romanzo c´è molta sofferenza, ma questo è il prezzo da pagare per riuscire a liberarsi. Non bisogna dimenticare che la protagonista, per la prima volta nella sua vita, riesce ad esprimere emozioni e desideri, riscoprendo il corpo e la sessualità. Il libro può sembrare duro, ma questa è la realtà dell´Afghanistan, un paese in guerra e oppresso dalle tradizioni, dove le donne, senza diritto di parola, devono solo ubbidire agli uomini. Esse riescono a parlare solo quando gli uomini non hanno più la possibilità di nuocere, come avviene nel romanzo. Solo così riescono a denunciare una condizione che purtroppo continua a peggiorare».
Ancora oggi?
«Torno regolarmente in Afghanistan, dove anno dopo anno ho assistito a un peggioramento globale della situazione politica, sociale e culturale. Di conseguenza, peggiora anche la condizione femminile, strettamente legata a tale contesto. Le limitazioni alla libertà delle donne sono il risultato di una somma di tradizioni sociali, culturali e religiose che è molto difficile riuscire a far evolvere».
Specialmente se, come scrive, «gli uomini che si battevano per la libertà ora si battono per il potere»...
«Dopo la sconfitta dei sovietici, il paese è scivolato nella guerra civile. In trent´anni abbiamo conosciuto ogni tipo di conflitto, dalla guerra di liberazione alla guerra di epurazione, dalla guerra civile alla guerra religiosa. E come in tutte le guerre, le donne e i bambini sono sempre le prime vittime. I mujahidin hanno instaurato per primi la charia e i talebani hanno continuato su quella strada, peggiorando la situazione».
Gran parte del romanzo è occupato dal monologo della protagonista. E´ stato difficile calarsi nella voce di una donna?
«All´inizio volevo adottare il punto di vista dell´uomo immobilizzato, costretto ad ascoltare le parole della moglie. Volevo capire le sue reazioni di fronte a parole e discorsi a lui sconosciuti. Mentre scrivevo, però, a poco a poco la donna è diventata la vera protagonista, ha preso la parola e si è insinuata in me senza quasi che me ne accorgessi. Quando ho iniziato a far leggere il manoscritto ad alcuni amici, dalle loro reazioni ho capito che quella voce era autentica e riusciva a trasmettere emozioni. Insomma, il punto di vista del romanzo è cambiato durante la scrittura. Il lettore non sa mai se l´uomo stia ascoltando quel fiume di parole, ignorando quindi le sue reazioni di fronte a quelle parole mai dette prima».
Un discorso al cui centro figurano il corpo e il desiderio...
«Le donne afgane vengono sempre presentate come fantasmi nascosti sotto il burqa. Non si parla mai della loro sessualità, delle loro sensazioni, dei loro segreti. Io volevo mostrare che, nonostante il velo, sono come tutte le altre donne. Hanno un corpo, una sessualità e dei desideri. E più la repressione e la guerra opprimono le loro vite, più si rifugiano nel loro mondo nascosto».
Quali reazioni ha suscitato il romanzo?
«In Francia, diversi afgani mi hanno rimproverato di parlare troppo apertamente di una realtà che dovrebbe restare nascosta. Alcuni lettori si sono augurati che le ragazze afgane non abbiano mai la possibilità di leggerlo. Sono reazioni ipocrite. Gli uomini tra di loro parlano in continuazione di sesso, ma non ammettono che anche le donne lo facciano. Quando il romanzo sarà tradotto in inglese, circolerà più facilmente anche in Afghanistan. Allora vedremo quali saranno le reazioni dei miei connazionali».
Spera che il romanzo possa contribuire a far evolvere la situazione?
«Non sono sicuro che la letteratura possa incidere sulla realtà, al massimo può smuovere le coscienze dei singoli lettori. Stalin però conosceva a memoria le opere di Dostoevskij, senza che ciò gli fosse mai servito a nulla. Se un libro riesce ad alimentare il dubbio, se spinge il lettore ad interrogarsi su una data situazione, è già un successo».
Scrivere direttamente in francese è stato difficile?
«Dato che la prima frase del romanzo mi è venuta spontaneamente in francese, ho deciso di continuare nella stessa lingua. Tale scelta mi ha consentito di affrontare un tema che probabilmente non sarei mai stato capace di trattare nella lingua materna, la quale impone sempre limiti e tabù. In un´altra lingua ci si sente più liberi. In realtà, avevo iniziato a scrivere in francese fin dal 2002, dopo la sconfitta dei talebani, quando ho potuto rientrare in Afghanistan dopo molti anni di esilio. Fino ad allora avevo avuto bisogno della lingua per sentirmi legato a un paese in cui non potevo tornare. Le mie origini, la mia cultura, la mia storia erano concentrate nella lingua materna. Quando ho potuto ritrovare tutto ciò nella realtà, la lingua è diventata meno importante. Insomma, ho cominciato a scrivere in francese quando non mi sono più sentito in esilio».

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